Ca­se del Po­po­lo: avan­guar­die po­li­ti­che e tra­di­zio­ne co­strut­ti­va

Testo originale inedito in italiano e datato dall'autore Tita Carloni 9 agosto 1991.*

Data di pubblicazione
06-01-2015
Revision
08-10-2015

Nel mio paese, che è anche quello di Mario Scascighini, l’emigrazione ha rappresentato per molti secoli una costante, o meglio una necessità, e si è interrotta definitivamente soltanto negli anni ’50 -’60.

Quando un operaio ticinese arrivava per la prima volta in una città transalpina, negli anni ’20 o ’30, trovava sovente il suo primo alloggio, forse il suo primo vero bagno, e nuovi compagni nella Casa del Popolo, significativamente «... à trois minutes de la gare». Il fatto è rilevante perché al di là degli aspetti strettamente logistici nella Casa del Popolo il nostro emigrante avrebbe finito presto o tardi per cambiare addirittura coscienza (politica s’intende).

Egli vi incontrava forme di cultura e di solidarietà che gli erano il più delle volte sconosciute e che non avevano mai fatto parte della vita e del mondo dei suoi secolari predecessori.

La nuova solidarietà era soprattutto una solidarietà di classe, che non teneva gran conto della provenienza del nuovo arrivato e pur non facendo riferimento esplicito a valenze «internazionaliste» lasciava comunque intendere l’esistenza di valori generali e sopranazionali, legati in primo luogo alla condizione operaia. Gli emigranti più antichi, quelli del ’700 e dell’800 avevano conosciuto altre forme di mutuo sostegno. Chi arrivava nella città sconosciuta, Praga o Torino o Salisburgo o ... , trovava appoggio presso i compaesani (solidarietà d’origine), presso gente dello stesso mestiere (solidarietà di corporazione) o presso i «confratelli» (solidarietà d’ispirazione religiosa tra gli appartenenti a una stessa «società» devozionale).

La vicenda ticinese, per piccola che sia, è assai significativa del passaggio dalle forme antiche di mutuo soccorso corporativo a quelle moderne della solidarietà operaia, fondate sulla presa di coscienza politica della classe lavoratrice in sé e «per sé» e sul superamento dello spirito di campanile. Il Ticino è una di quelle contrade svizzere ed europee che hanno fornito tra il 1850 e il 1950 una quantità impressionante, se rapportata alla popolazione locale, di forza lavoro trasmigrante dalle campagne povere e senza futuro verso i grandi centri industriali in forte crescita dell’Italia settentrionale prima e della Svizzera tedesca e romanda dopo.

Nessuno ha mai scritto sinora, neanche nell’anno del settecentesimo fasullo, la storia di questa umile epopea. Il libro di Mario Scascighini, trattando specificamente degli edifici della Casa del Popolo, ne descrive in certo qual modo il quadro ideologico e ambientale. È proprio in questo quadro che si mossero umanamente e politicamente innumerevoli figure rimaste anonime di lavoratori e di militanti come quelle nascoste dietro le misteriose iniziali E.S. e M.T. poste in epigrafe al testo.

Non sarà certo irriverente rivelare che E.S. è Ernesto Scascighini, scalpellino, e M.T. Mario Terzi, piastrellista, ai quali l ’autore ha voluto dedicare, con commossa gratitudine, la sua fatica.

Il terzo personaggio nascosto è Arthur Villard. Tutti coloro che vissero le lotte politiche e sociali degli anni ’50 e ’60 come l’emigrato a Bienne Mario Scascighini lo ricordano con affetto ed ammirazione.

Ma torniamo appunto alle Case del Popolo e alla loro architettura.

In fondo questi edifici avrebbero potuto diventare il luogo deputato per la nascita di uno stile «operaio», di un’estetica antitetica rispetto a quella borghese. In realtà se osserviamo le Case del Popolo costruite nei maggiori paesi europei e in Svizzera constatiamo che la forma, in pianta e in elevazione, deve molto dapprima agli stilemi dell’Art Nouveau e del Liberty (e non solo in Belgio), poi di un certo espressionismo simbolista, e, nell’insieme, alle manifestazioni moderate del cosiddetto Movimento moderno.

Il termine «moderato» non è da intendere qui secondo la comune accezione politica.

Esso si riferisce piuttosto ai caratteri costruttivi e formali degli edifici.

Dunque mi piacerebbe porre il problema della forma delle Case del Popolo sotto due aspetti: quello del rapporto con le avanguardie artistiche e quello di un’eventuale estetica di classe.

Io credo che le avanguardie artistiche, dai futuristi in su, abbiano rappresentato le punte avanzate di una cultura essenzialmente borghese, o per lo meno elitaria, informata a volte dall’ideologia dell’artista come essere d’eccezione non organico rispetto alla società nel suo insieme e tantomeno a una classe specifica, a volte da illuminate velleità riformistiche, tra il paternalistico e il demiurgico, vicine al massimo alle idee socialdemocratiche del patto sociale al di sopra delle classi.

Dentro questo ambito culturale sono nati i prodotti dell’astrattismo e del purismo figurativo e architettonico, sovente piuttosto deboli sul piano tecnico e costruttivo, sostanzialmente lontani dalle aspirazioni, dal gusto, e, occorre dirlo, anche dalla corretta interpretazione dei veri bisogni delle classi popolari. Gli operai che promossero e costruirono le Case del Popolo possedevano, oltre a una coscienza politica, anche una forte coscienza del valore del lavoro.

Essi avevano ereditato in certo qual modo dagli antichi artigiani quella cosa indefinibile che andava sotto il nome di «virtù» e che comprendeva il saper far bene il proprio mestiere, il fare economia di mezzi, di forze, di materiali, l’alto rispetto della competenza e dell’esperienza, l’amore per le forme espressive, parlanti, simboliche se si vuole, di una certa tradizione figurativa, e tant’altro ancora.

Non v’è dunque da meravigliarsi che non trovassero grande credito presso i costruttori delle Case del Popolo né le bolsaggini accademiche della cultura borghese ufficiale né le sperimentazioni formali di talune avanguardie architettoniche (i puristi, i razionalisti astratti).

Ne fanno fede i risultati dei concorsi che si svolsero in Svizzera, i nomi degli architetti premiati e talune realizzazioni principali.

Come il bel progetto di Hermann Baur per la Casa del Popolo di Basilea, il celebre Volkshaus di Berna di O. Ingold, di cui non rimane purtroppo che la facciata o la recentemente rinnovata Maison du Peuple di Bienne dell’architetto E. Lanz, tesa tra una modernità un po’ espressionistica e modi costruttivi solidi, massicci, per certi versi ancora tradizionali.

Bisogna dunque dar atto a quei costruttori di aver saputo trovare una robusta sintesi tra taluni valori della tradizione del lavoro, propria della classe operaia di allora, e la modernità di un tema che si presentava per la prima volta nella storia delle città industriali: la casa del popolo, un edificio destinato ad essere, nello stesso tempo, luogo di incontro, di divertimento, di formazione, di organizzazione politica, di alloggio, di passaggio, di cura dell’igiene personale, di festa e di lotta.

Altrove, nella patria della rivoluzione, i tentativi di rispondere ai bisogni nuovi della classe operaia con le formule dell’avanguardia artistica (certa parte del costruttivismo russo) o con l’imitazione sciocca della tradizione accademica (l’architettura dello stalinismo) avevano portato a fallimenti diversi e pur simmetrici per ciò che concerneva l’appropriazione materiale e morale dei nuovi edifici da parte della classe cui erano destinati.

Anche se, non senza un certo cinismo, Giuseppe Stalin aveva detto pressapoco: «Il popolo vuole pizzi e merletti? Diamoglieli! Tanto tra dieci anni demoliremo tutto».

La storia ci mostrò in seguito che, purtroppo, non fu demolito un bel niente.

A questo punto siamo ormai entrati nel tema dell’esistenza o meno di un’estetica di classe, antitetica rispetto all’estetica cosiddetta dominante, prodotto della classe dominante, tanto per usare termini che sono divenuti ormai desueti.

Se osserviamo l’architettura delle Case del Popolo non possiamo identificare uno stile «operaio» da opporre allo stile dominante. In generale questi edifici appaiono integrati nel gusto dell’epoca, talora addirittura con una certa prudenza e sobrietà.

Non si tratta praticamente mai di un’estetica di rottura. Anche nel caso maggiore, e si potrebbe dire esemplare per tutta l’Europa, come la Maison du Peuple di Bruxelles, Victor Horta impagina il bel palazzo ricorrendo agli stilemi dell’Art Nouveau, arte adottata sia pure con declinazioni più molli, talora addirittura sfatte, in tutti i salotti alla moda dell’epoca.

Semmai si potrebbe dire che nella Maison du Peuple Victor Horta, uno dei più grandi architetti europei del momento, sfrutta fino in fondo il nuovo tema postogli per raggiungere con grande rigore compositivo e onestà intellettuale livelli elevati nell’esercizio della sua arte.

Ciò dovrebbe spingere a un’ipotesi diversa da quella che intravvedeva la possibile nascita automatica di un’estetica di classe nel solco della presa di coscienza e dell’organizzazione autonoma della classe operaia. E l’ipotesi potrebbe essere questa: in taluni momenti progressivi della storia le forze sociali e culturali migliori (classi, gruppi, individui) trovano momenti d’incontro e di cooperazione che si fondano sulla bontà dello scopo, su un comune slancio ideologico, sull’esercizio appassionato delle proprie capacità intellettuali e pratiche… in una parola su una specie di comunione operativa il cui cemento è dell’ordine dell’etica.

Una simile ipotesi potrebbe essere più fruttuosa per la lettura storica di taluni momenti di trasformazione delle città e dell’architettura, di molti assunti teorici (ideologici) di parte destra o sinistra, che in realtà offuscano i processi reali del lavoro sociale e individuale. Penso che lo studio di Mario Scascighini, se preso per il verso giusto, possa essere utile a tutti coloro che si proponessero di riscrivere un po’ di storia dell’architettura evitando i luoghi comuni del tipo «l’Archittetura e la Città al servizio dell’Uomo» (A, C e U maiuscole, mi raccomando) oppure «gli architetti sono tutti imbecilli, dimenticano sempre le scale» (a, i, s, minuscole, naturalmente).

Forse che per scrivere alcuni tratti di questa storia occorra essere un po’ meno Architetti e un po’ più cittadini comuni, come il nostro autore? Mi permetto in ogni caso di raccomandare vivamente la lettura del suo lavoro.

Articoli correlati