Pro­ve di con­ti­nui­tà. La nuo­va ar­chi­tet­tu­ra sviz­ze­ra tra sto­ria e pro­get­to

Data di pubblicazione
08-12-2022

Compiere oggi un itinerario nell’opera di alcuni studi emergenti permette di osservare un panorama piuttosto variegato che rende apparentemente difficile individuare linee tematiche e campi di ricerca comuni.

Questa condizione è il frutto di fattori di disomogeneità di diversa natura: uno culturale, che deriva dai diversi approcci al progetto promossi dalle scuole delle tre principali aree culturali (l’USI, l’ETHZ e l’EPFL), uno geografico, conseguenza di un paesaggio come quello svizzero in cui si alternano molteplici scenari (l’alta montagna e il fondovalle, la costa e la collina),1 e uno storico, determinato dalle «questioni emergenti» con cui le nuove generazioni devono interrogarsi rispetto al passato, che vanno dall’uso più responsabile delle risorse alla centralità del comfort sensoriale nell’esperienza dello spazio, e dalla tutela e valorizzazione dei luoghi alla riconsiderazione dell’impatto sociale di ogni atto di trasformazione.

Nonostante questa apparente distanza, un punto comune su cui molti giovani autori sembrano però convergere è il recupero di una certa sensibilità al rapporto tra storia e progetto, secondo una condizione di equilibrio costantemente perturbata dalla specificità delle condizioni al contorno (anche nell’opera di uno stesso studio) che sembra ideale proiezione di alcuni nodi problematici da tempo presenti nel dibattito architettonico elvetico.

In un’analisi sui recenti sviluppi del territorio, focalizzata su alcuni autori particolarmente attenti a questi aspetti (da Gion Caminada a Peter Zumthor e da Miller & Maranta a Bearth & Deplazes), Anna Ross ha ribadito come un tratto ricorrente della cultura svizzera contemporanea sia la continua oscillazione tra cosmopolitismo e valori locali, rilevando come gli «intricati confini linguistici e culturali» della Confederazione causati dalla «varietà della sua architettura vernacolare» sia­no spesso controbilanciati dall’influenza del dibattito internazionale.2 Un punto di vista analogo emerge dalle parole di un osservatore esterno come Niall Mc Laughlin, che sottolinea come una parte non trascurabile dei progetti di questa selezione riguardi circostanze in cui l’intervento consiste nella trasformazione di un edificio esistente, secondo un approccio tipicamente locale in cui l’idea del primitivo è «messa in scena» ma allo stesso tempo «negata»,3 e in cui il gesto architettonico assume quindi un ruolo fondamentale nella mediazione tra passato e futuro.

Questa tendenza porta a esiti formali e figurativi che ancora oggi possono essere ricondotti a due modelli complementari, già opportunamente individuati da Carlo Prati in un esame dell’architettura svizzera dei primi anni Duemila: da una parte l’architettura del cristallo, caratterizzata da volumi radicali e autoconclusi, dal valore prioritario attribuito all’involucro esterno, dall’accantonamento del virtuosismo plastico in favore dell’esplorazione delle proprietà fisiche dei rivestimenti che, come negli edifici di Betrix & Consolascio o Diener & Diener, si traduce in un’architettura «estroflessa e osmotica» rispetto al contesto circostante; dall’altra l’architettura del frammento, che si concentra invece sulla dimensione privata e personale, sull’indagine tipologica (particolarmente nell’ambito dei luoghi dell’abitare e del lavoro), sul significato del costruire e che, come nelle opere di Miller & Maranta o EM2N, si manifesta in un’architettura «introflessa e archetipica» non di rado caratterizzata da configurazioni plastiche e scultoree.4

Analizzare l’attività di alcuni studi emergenti di diversa provenienza – Inches Geleta (Locarno), Conen Sigl (Zurigo), Kunik de Morsier (Losanna), Scheibler & Villard (Basilea) e Leopold Banchini (Ginevra) – che in questi anni si sono distinti per sensibilità ai valori della memoria ma allo stesso tempo per attitudine alla sperimentazione, permette di comprendere come l’immaginario storico verso il quale la nuova generazione indirizza il suo sguardo sia molto più articolato e sfaccettato per poterne esaurire la complessità riducendolo a un’unica fonte indistinta.

La città, il territorio, i maestri

Il lavoro di Inches Geleta prende origine da un processo di conoscenza e assimilazione dell’architettura del passato, di quei «modelli architettonici intesi come riferimento per le scelte formali e compositive»5 che si ritrovano sia nella rilettura dell’opera dei maestri che nell’analisi delle preesistenze della città e del territorio con le quali il progetto interagisce.

Questa modalità di radicamento trova un riscontro nel percorso di formazione, nel quale rientrano le esperienze universitarie – nell’atelier di Miller & Maranta, con cui Matteo Inches studia all’Accademia di Mendrisio, e nel corso di Lukas Meyer sui maestri del Razionalismo frequentato da Nastasja Geleta alla SUPSI – poi le collaborazioni didattiche – particolarmente con Roberto Briccola, di cui Matteo Inches ricorda «la ricerca sulle possibilità di intervento nel territorio ticinese dal punto di vista del miglioramento qualitativo del costruito» – e infine gli ulteriori approfondimenti su alcuni autori dell’architettura svizzera (innanzitutto Livio Vacchini, «per l’integrità e la modalità di approccio al progetto»6) e internazionale (tra questi Le Corbusier e Frank Lloyd Wright).

La consapevolezza che un’architettura possa allo stesso tempo «integrarsi nel tessuto esistente» e «generare un luogo», infondendo nella collettività «un sentimento di appartenenza più lento e progressivo»,7 sembra diretta conseguenza dell’eterogeneità dei contesti con i quali lo studio si è nel tempo misurato.

In alcune circostanze, come nel Padiglione Museo MeCrì a Minusio (2012-2016), il confronto avviene con insediamenti esistenti. La ricerca di continuità si attua in questo caso nella scelta di una copertura a falde e nel proporzionamento di un volume coerente con il costruito circostante, mentre la definizione della differenza deriva dall’interpretazione dei materiali e della luce: il rivestimento esterno è in lastre di gneiss locale, l’involucro che ripristina la cinta muraria (intesa come «testimonianza futura»8 dei muri in sasso, in previsione di possibili futuri cedimenti) è in beton lavato, lo spazio interno è illuminato zenitalmente da un taglio di luce.

In altre occasioni, come il Palazzo Pioda a Locarno (2015-2018), emerge con maggiore nitidezza l’influenza dei maestri dell’architettura ticinese. Da una parte infatti l’edificio si relaziona al carattere semindustriale del quartiere attraverso l’introduzione di sistemi prefabbricati e superfici metalliche, dall’altra si distingue grazie all’esposizione dell’ossatura strutturale in facciata, con una scelta in cui riecheggia la lezione di Livio Vacchini sul rapporto tra tettonica e architettura e sulla stretta dipendenza, come in questa raffinata rielaborazione, tra la forma dell’edificio e quella delle sue componenti costruttive.

L’approccio al progetto per la Casa Zanini-Porta a Contone (2019-2021), infine, mostra una profondità di campo ancora maggiore, grazie all’adozione di una focale larga che permette di dilatare l’interpretazione del contesto a una scala geografica. L’edificio dialoga infatti sia con l’immediato intorno, con scelte geometriche e formali che richiamano la costellazione di insediamenti industriali che compongono il tessuto frammentato del fondovalle, sia con la fisionomia longitudinale del territorio il cui andamento suggerisce uno sviluppo orizzontale per la configurazione del volume e la concatenazione degli spazi interni.

Addizioni coerenti

La linea di ricerca di Conen Sigl mira alla determinazione di alcuni principi di coerenza tra nuovo ed esistente nell’ambito di una serie di interventi di natura additiva.

L’apprendistato si svolge negli atelier dell’EPFL e dell’ETHZ – con Hans Kollhoff, Peter Märkli, Markus Peter e Luigi Snozzi9 – dove Maria Conen e Raoul Sigl danno vita alla loro collaborazione e mettono a fuoco un comune interesse verso il rapporto tra architettura e città e verso i mae­stri del passato, da Palladio – per gli schemi spaziali della pianta a nove stanze e per la concezione della sala centrale come fulcro distributivo per gli ambienti circostanti, su cui si incardina il progetto di ampliamento di un edificio in Fliederstrasse – a Oswald Mathias Ungers, nella definizione di architettura come condizione di equilibrio «tra interno ed esterno, tra corpo e spazio, tra elementi che delimitano ed elementi che sono delimitati».10 L’interesse verso queste opere – come dichiarato in una recente esplorazione sugli orizzonti tematici di trenta studi emergenti – «non deriva mai da uno stile, ma da un’idea di spazio», generando «un repertorio di idee che possono essere adattate a diverse situazioni e circostanze».11

Queste esperienze spesso si svolgono nell’ambito dell’architettura residenziale, con trasformazioni anche contenute che richiedono però una mediazione tra necessità dell’abitare contemporaneo e integrazione con l’esistente. L’intervento in Mühlezelgstrasse a Zurigo (2013-2015), che consiste nell’ampliamento di un edificio attraverso l’introduzione di una serie di generose logge, sviluppa questa continuità attraverso il mantenimento dell’orientamento, del ritmo compositivo in facciata e della profondità degli elementi in aggetto, ma allo stesso tempo si distingue nelle scelte cromatiche e di dettaglio con la messa a punto di un telaio strutturale contrapposto alla struttura muraria cui si connette. La trasformazione di un edificio in Fliederstrasse a Zurigo (2014-2016), analogamente al caso precedente, riprende gli allineamenti e il ritmo delle aperture del corpo di fabbrica originario grazie al prolungamento della griglia strutturale interna ma, differenziandosi da esso, concede più superficie alla luce naturale grazie all’allargamento delle aperture e all’alleggerimento delle facciate dagli inserti ornamentali.

Un’occasione più recente riguarda invece il rinnovamento di uno spazio espositivo come la Kunsthaus a Glarona (2017-2019), progettata da Hans Leuzinger nel 1952, costituito da una serie di interventi mirati e poco invasivi che migliorano la funzionalità e l’accessibilità degli spazi senza compromettere il valore storico dell’edificio.

Tra sperimentazione tipologica e ricerca di relazioni

Nell’approccio di Kunik de Morsier la capacità di coniugare la ricerca di relazioni con la sperimentazione tipologica sui luoghi dell’abitare e del lavoro mostra una diretta influenza di una scuola di architettura.

Pur se non negli stessi corsi, i due fondatori dello studio hanno infatti entrambi studiato all’EPFL, in un momento culturale caratterizzato da un dialogo sempre più fertile tra dimensione scientifica e dimensione artistica, tra l’architettura e le altre materie tecniche. Una rappresentativa declinazione di questo scenario è l’insegnamento di Patrick Berger e Kees Christiaanse, con cui Valentin Kunik e Guillaume de Morsier si sono rispettivamente laureati. Il metodo del primo traspare nell’attenzione dedicata alle possibili interazioni tra l’architettura e altre discipline come la biologia, la genetica e la pianificazione dei trasporti, mentre dal secondo prende origine quel ripensamento di temi e obiettivi che deriva da una nuova concezione della professione, in cui l’architetto è visto non più come progettista di spazi ma come progettista di interazioni.12

La formazione politecnica e il ruolo di alcuni maestri non esaurisce l’articolazione metodologica su cui si fonda il modus operandi dello studio, che mostra un’attitudine sperimentale in diverse circostanze. Dello sviluppo di un rapporto con il paesaggio naturale è emblematico il Cabane a Le Pont (2014), caratterizzato da una riconfigurazione dello spazio interno che supera il binomio «zona giorno-zona notte» favorendo connessioni più libere e interazioni accidentali. L’integrazione col luogo, inteso nei suoi aspetti tangibili e intangibili, si concretizza nel trattamento del piano terra, che si scompone in quattro livelli per assecondare la leggera pendenza del terreno e assicurare la massima permeabilità visiva tra interno ed esterno, e nell’adozione di una copertura a falde e di una struttura in larice in cui riverberano le specificità tipologiche e il repertorio materico locale. Un esempio di un legame con il paesaggio urbano è invece l’Edificio residenziale a Losanna (2016), il cui volume si pone in continuità con la morfologia urbana del quartiere (dal quale riprende gli allineamenti in orizzontale e in verticale) e con l’adiacente ostello di Atelier Cube, al quale si relaziona nella scelta del tipo a corte, nella neutralità delle scelte cromatiche e nella grammatica elementare della composizione.

Il nuovo stabilimento della Audemars Piguet a Le Locle (2021) articola ulteriormente questi temi. Dal punto di vista del comfort sensoriale questa «architettura della luce»13 mira alla definizione di un adeguato microclima interno e alla modulazione dell’illuminazione secondo il tipo di attività svolta. Rispetto alla innovazione tipologica l’edificio esprime invece una posizione antitetica rispetto alla concezione dei luoghi del lavoro dell’architettura moderna (organizzati per attività specifiche e poco aperti alle trasformazioni) offrendo spazi aperti a molteplici usi nel breve e lungo termine. Pur nell’articolazione complessa della forma, l’edificio cerca un dialogo col contesto attraverso l’adattamento all’orografia, seguendone con un piano terra su più livelli la leggera curvatura e rivolgendosi con un’aggregazione più compatta verso la città e con un sistema di volumi a raggiera verso il paesaggio circostante.

Luogo, costruzione, sensorialità

Incentrato prevalentemente sul tema residenziale, il lavoro di Scheibler & Villard è il frutto di un’indagine sullo spazio fisico e sociale in cui si cristallizzano alcuni principi fondamentali: l’attenzione ai bisogni e alle aspettative dei fruitori nella definizione del programma, la composizione basata sull’alternanza tra regola ed eccezione e l’intensificazione delle relazioni con il paesaggio naturale e urbano.

Gli studi compiuti presso la FHNW di Muttenz e Basilea, indirizzati al perfezionamento di un approccio razionale imperniato sulla consequenzialità della fase di analisi, progetto e costruzione («Analyse, Entwurf, Konstruktion») si sono arricchiti nel tempo, distillando la lezione dei due studi con i quali Maya Scheibler e Sylvain Villard hanno intrapreso le prime esperienze: Burkard Meyer, per la concezione dei dettagli costruttivi come espressioni identitarie dell’edificio, e Miller & Maranta per la «ricerca della componente sensoriale nell’esperienza dello spazio».14

I diversi ambiti di intervento in cui lo studio di Basilea ha lavorato in questi anni hanno richiesto l’affinamento di una strategia capace di intessere relazioni a più livelli. Alcune opere, come l’Edificio residenziale ad Arbaz (2017), si confrontano con luoghi isolati o tessuti a bassa densità. In questo caso il volume, costituito da una serie di piani a differenti altezze, instaura un dialogo in termini tipologici e costruttivi con l’architettura locale grazie alla scelta della copertura a doppia falda e del rivestimento in legno per le superfici interne ed esterne. I progetti di concorso elaborati negli stessi anni – come quello per l’edificio residenziale Zurlaubenhof a Zugo (2014) o l’edificio in Bruderholzallee a Basilea (2018) – mostrano invece la capacità di misurarsi con le molteplici modalità di aggregazione della città consolidata. Nel primo caso l’insediamento asseconda il tracciato mistilineo della storica Zugerbergstrasse grazie alla ripetizione di corpi di fabbrica uguali ma diversamente orientati e la scelta di un profilo a losanga che meglio si adatta alle sue variazioni. Nel secondo caso il volume è invece concepito come dispositivo di ricucitura di un tessuto residenziale sfrangiato e irregolare, di cui sembra assorbire le stratificazioni attraverso la geometria irregolare.

Queste occasioni sono il preludio per l’ampliamento del centro di competenza a Langnau am Albis (2014-2021), costituito da due volumi dalla pianta poligonale a linee spezzate che da una parte cerca una relazione con il luogo sul piano morfologico, interpretando i nuovi edifici come «ingrandimento localizzato della grana urbana» e come ricucitura tra l’agglomerato rurale di cui fa parte e il costruito esistente, dall’altra proclama la sua autonomia attraverso le scelte formali, materiche e funzionali, con l’obiettivo di fondo che l’orientamento dello spazio avvenga  – come riportato in Ort der Sinne, manifesto metodologico dello studio – «grazie all’ausilio di tutti le capacità sensoriali».15

Verso un’architettura neovernacolare

Leopold Banchini è tra i progettisti che in questi anni hanno dimostrato con maggiore chiarezza la capacità di travalicare i confini nazionali e operare in ambiti geografici anche al di fuori della Confederazione. Questo percorso nomade e indipendente, sviluppato con un approccio non dogmatico, affrancato da un’idea di architettura come adesione a stili e tendenze16 e fondato invece sulla ricerca di un’intersezione tra cultura popolare e contemporanea, interpreta l’identità del luogo come sintesi tra componenti tangibili e intangibili, secondo un principio che lo stesso architetto di Ginevra definisce – nell’intervista con Jacques Lucan pubblicata nel numero monografico di «2G» dedicato alla sua opera – come «architettura neovernacolare».17

Pur se interessato negli anni della formazione da alcuni docenti dell’EPFL come Vincent Mangeat (per la sua visione dell’architettura come strumento di natura anche politica utile ad accompagnare i mutamenti della società) o da autori come Herzog & de Meuron (per il richiamo dell’immaginario del neovernacolare dei primi lavori e la capacità di mettere a punto dettagli costruttivi sempre originali ma allo stesso tempo appropriati18), Banchini elabora successivamente un metodo progettuale personale che prende vita da processi di rielaborazione della memoria fondati sulle specificità materiche e tipologiche delle preesistenze ma lontani dal rischio di un mimetismo nostalgico o acritico19

Un esempio di rilettura dell’architettura industriale è la Casa CCFF (2017) a Ginevra. Questo edificio, collocato al margine di un tracciato ferroviario in un’area periurbana, si allontana in modo esplicito dallo stereotipo della «Swiss box», riprendendo il vocabolario costruttivo degli spazi produttivi tramite la rivisitazione di alcuni dettagli come la copertura a shed, la facciata cieca e il rivestimento corrugato esterno.

La Casa Do Monte a Lisbona (2018) è invece un caso emblematico di trasformazione di un edificio storico. Da una parte infatti l’intervento mira al miglioramento del comfort abitativo attraverso la creazione di grandi vuoti, con stanze a doppia altezza che permettono la comunicazione visiva tra i piani, dall’altra cerca ancora una volta un legame percettivo e simbolico con l’esistente tramite la composizione di un repertorio materico legato alla disponibilità locale: i rivestimenti interni sono realizzati con il marmo rosa e bianco della vicina cava di Estremoz, mentre i muri del patio sono impreziositi dai tradizionali azulejos prodotti sul posto.

Il Marramarra Shack nel Nuovo Galles del Sud (2020) è un’altra prova eloquente dell’attenzione rivolta da Banchini alla cultura materiale. Questa piccola costruzione, situata in una zona dove i coloni hanno istituito all’inizio dell’Ottocento una piccola comunità ancora oggi off the grid, è realizzata con alcuni tipi di legno facilmente reperibili nella regione: le colonne sono in Eucalyptus crebra, le travi e i soffitti in Corymbia maculata, l’arredo in Syncarpia glomulifera recuperato dal molo presso il vicino fiume.

Le espressioni della storia

Gli aspetti più rilevanti che questo breve percorso nell’architettura della Confederazione si è proposto di mettere in luce sono principalmente due. La prima riguarda il buono stato di salute degli studi emergenti e il ritorno di una fase di sviluppo quantitativo e qualitativo in cui il modello della «Swiss box» – come testimoniato dal legame tra costruzione della forma e forme della costruzione di Inches Geleta, dall’indagine tipologica e costruttiva di Conen Sigl, dalla complessità dello spazio interno di Kunik de Morsier, dagli approfondimenti sulla sensorialità di Scheibler & Villard e dall’architettura neovernacolare di Leopold Banchini – sembra in alcuni casi oggetto di rielaborazione, in altri pienamente superato. La seconda, che riprende il tema di fondo di queste righe, consiste nella molteplicità delle espressioni della storia a cui questi studi hanno saputo finora ancorarsi. Le opere qui selezionate mettono infatti in evidenza da una parte la capacità di individuare le varie declinazioni dei riferimenti (in alcuni casi i valori tangibili e intangibili del luogo, in altri l’insegnamento dei maestri, in altri ancora i caratteri di uno specifico tipo edilizio), dall’altra quella di saperli rielaborare in modo coerente in ambiti diversi del progetto, dalla scelta dei materiali all’interpretazione di una tecnica costruttiva, dal proporzionamento dei volumi alla definizione delle forme insediative.

La ricchezza di temi e risultati ha reso non semplice effettuare una selezione, individuando un campione limitato ma rappresentativo che permettesse di tracciare un ritratto tematico complessivo. Questo conferma la qualità della produzione più recente ma suggerisce per il futuro ulteriori approfondimenti, che permettano di documentare gli esiti di ricerche già oggi meritevoli di attenzione, e dar conto dell’evoluzione di una tra le culture architettoniche più vivaci nel panorama europeo.

Note
 

1. Su questo aspetto risulta particolarmente attuale una riflessione di Roman Hollenstein, secondo il quale la ricchezza dell’architettura svizzera, costituita da strategie progettuali a volte anche antitetiche (particolarmente nell’approccio alla forma, alla tipologia e al rapporto con il tessuto urbano) è diretta conseguenza dell’eterogeneità culturale del Paese. Cfr. R. Hollenstein, An Overview, in M. Daguerre, Birkhäuser Architectural Guide Switzerland, Birkhäuser, Basel, Berlin, Boston 1995, p. 405.

 

2. A. Roos, Foreword, in Id. (a cura di), Swiss sensibility. The culture of architecture in Switzerland, Birkhäuser, Basel 2017, p. 3.

 

3. N. McLaughlin, Swiss Architecture from elsewhere, in A. Roos (a cura di), Swiss sensibility, cit., p. 3.

 

4. C. Prati, Itinerario svizzero, «L’industria delle costruzioni», 2005, 385, pp. 15-16.

 

5. Inches Geleta, in «a+u Architecture and Urbanism», 2019, 580, p. 180

 

6. Il proposito di tratteggiare un contesto culturale e tematico delle opere selezionate e di scandagliare più in profondità la formazione, i riferimenti e l’approccio al progetto dei rispettivi autori, unito a una letteratura non sempre sistematica su realtà emergenti che stanno mostrando ramificazioni sempre più interessanti della loro ricerca, ha suggerito l’organizzazione di una serie di interviste tematiche sul legame tra storia e progetto. Quella con Matteo Inches, da cui è tratta questa riflessione, è del 12.09.2022.

 

7. O. Broggini, A. Felicioni, M. Inches, Sulle trasformazioni, in Id., Trasformazioni, Transformations, Transformationen, Cura books, Roma 2017, p. 12

 

8. H. Wirz, Inches Geleta, Quart, Luzern 2019, p. 16

 

9. Da un’intervista con lo studio Conen Sigl, 14.09.2022.

 

10. O. M. Ungers, Sieben Variationen des Raumes über die Sieben Leuchter der Baukunst von John Ruskin, Gerd Hatje, Stuttgart 1985, p. 5.

 

11. Dall’intervista a Conen Sigl in Carnets (a cura di), Architecture is just a pretext, Anteferma, Conegliano 2019, p. 103.

 

12. Da un’intervista Valentin Kunik, 09.09.2022.

 

13. M. Frochaux, Licht ins Uhrwerk, «TEC21», 2021, 37, p. 28.

 

14. Da un’intervista con Sylvain Villard, 08.09.2022.

 

15. Scheibler & Villard, Ort der Sinne. Erweiterungsneubau Tanne, Birkhäuser, Basel 2021, p. 10.

 

16. Intervista a Daniel Zamarbide e a Leopold Banchini, in «a+u Architecture and Urbanism», 2019, 580, p. 142.

 

17. J. Lucan, Soft architecture. A Conversation

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