Mo­der­ni­tà ol­tre fron­tie­ra

Data di pubblicazione
01-03-2023

Come dimostra il manifesto che qui pubblichiamo, e come mostreranno le prossime pagine di questo numero di Archi, la Svizzera e la Triennale di Milano sono state spesso complici nel tentativo di rinnovare la cultura progettuale del Novecento. In questo caso, la mano è dello svizzero Ernst Scheidegger (1923-2016), già collaboratore di Max Bill e Werner Bischof, grafico, fotografo, poi docente a Ulm, editore, gallerista e regista con un’attenzione speciale per Alberto Giacometti.

Fu Scheidegger a disegnare il manifesto della IX Triennale del 1951, edizione che vide coinvolti diversi progettisti elvetici, come appunto Bill (autore del padiglione svizzero), Alfred Roth e Le Corbusier al convegno sulla Divina Proportione ospitato nel Palazzo dell’Arte a settembre di quell’anno.

Le intenzioni del manifesto, composto da un mosaico di rettangoli colorati sui quali s’inscrive un grande 9, sono chiarissime: promuovere un metodo logico-compositivo che andasse oltre la figurazione, certo, ma anche oltre l’astrattismo, per approssimarsi allo spirito di un’epoca plasmata dalla scienza. Insomma, un approccio vicino ai principi dell’Arte concreta, che proprio Max Bill andava precisando negli stessi anni.

Come spesso accade nei manuali di storia della grafica, isolare l’immagine dal suo contesto può non far comprendere appieno la carica di modernizzazione estetica e concettuale di quel manifesto, e con esso, dell’intera Triennale. È invece utile guardare gli scatti in bianco e nero dell’opera inserita nella realtà dell’epoca: colpiscono le immagini in cui il manifesto si erge solitario, nella sua astrazione grafica, di fianco a vecchie cascine dell’hinterland milanese, o al fianco di una chiesetta sull’autostrada Milano-Laghi, ancora pressoché deserta e presto coperta dalla nebbia.

Il contrasto tra la modernità promessa – per mano svizzera – dalla Triennale e la fissità neorealista di una società ancora agricola e artigianale alle porte della futura metropoli pare essere l’efficacissima rappresentazione di un processo che in pochi anni avrebbe trasformato l’Italia. Oltre alla Milano-Laghi, presto trafficata da una nuova società rifondata sull’automobile, Milano in particolare si sarebbe trasformata da città a brandelli (dopo le bombe della guerra) ad avamposto del Miracolo italiano. Tutto ciò, anche grazie al contributo elvetico, diretto e indiretto: si vedano il Centro Svizzero di Armin Meili, o più sottilmente l’eredità che l’esilio svizzero (negli anni del conflitto) lasciò a Ernesto N. Rogers, Vico Magistretti, Angelo Mangiarotti, Silvano Zorzi e molti altri. Ne abbiamo parlato più volte negli scorsi numeri di Archi.

E poi, soprattutto, la grafica: una disciplina così importante in un momento di crescita esponenziale dell’industria e dei consumi – e quindi di necessaria pubblicità e comunicazione – che a Milano trovò tra gli interpreti migliori proprio gli svizzeri, come Max Huber, Carlo Vivarelli, Walter Ballmer, Lora Lamm e Felix Humm, capaci di portare in città il rigore formale svizzero ma anche di aprirlo a licenze poetiche e narrative tutte italiane.

Fu, insomma, una contaminazione reciproca. Se la Triennale trovò nell’impaginato svizzero la giusta formula per comunicare i propri intenti di riforma estetica e concettuale delle arti e della società, per gli svizzeri la Triennale – e Milano in generale – non fu solo un palcoscenico ma piuttosto un laboratorio prioritario per monitorare, in un paese di dimensioni ben più estese della piccola Confederazione, lo sviluppo di principi culturali e artistici con i quali costruire un mondo migliore.

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