Il viag­gio ame­ri­ca­no di An­dré Cor­boz

A metà degli anni Ottanta, André Corboz fece un viaggio a Los Angeles. Lo studio dei carnets di viaggio e delle fotografie conservati alla Biblioteca dell’Accademia di Architettura di Mendrisio getta nuova luce sul suo viaggio in America.

Data di pubblicazione
09-04-2018
Revision
09-04-2018

Nel 1986, André Corboz (1928-2012), che aveva già esercitato per sei anni la cattedra di Storia dell’urbanistica presso il Politecnico federale di Zurigo, è stato invitato per un anno al Getty Research Institute1 in qualità di borsista. Il viaggio di Corboz in America tra il settembre 1986 e il giugno 1987 fa parte di una lunga storia di scambi di modelli e di discorsi architettonici tra il vecchio continente e il nuovo mondo: l’americanismo.2 Per gli architetti e i critici europei della prima metà del Novecento, New York (Le Corbusier) e Chicago (Siegfried Giedion) sembrano essere i campi privilegiati di scoperta di una modernità americana a volte disprezzata, a volte idealizzata. Negli anni ‘60, la costa occidentale, e Los Angeles in particolare, divenne un’altra meta di road trips di architettura, grazie in gran parte al libro di Reyner Banham: Los Angeles, The Architecture of Four Ecologies (1971). È quindi come il critico di architettura britannico che afferma di aver «imparato a guidare per leggere Los Angeles» che Corboz, anch’egli al volante di un’auto, dotato di una macchina fotografica e notebook solchi «Autopia» per incontrare la sua architettura.

L’eredità del viaggio di Corboz a Los Angeles si riduce a un articolo scritto durante il suo soggiorno e pubblicato sotto il titolo “Non City” Revisited in Le Temps de la réflexion del 1987 (cfr. espazium.ch).3 In questo testo, Corboz identifica «i difetti» e poi decostruisce i «criteri irrilevanti» delle «descrizioni europee della città americana» utilizzate dai suoi predecessori.4 Conclude il suo articolo rovesciando lo sguardo rivolto alle «nostre città (europee)», che, osserva, «come città sono già finite». Negli anni Novanta e Duemila Corboz ha scritto sulle dimensioni utopiche e culturali della rete territoriale americana e del suo istigatore Thomas Jefferson.5 Così, se il suo pensiero sulla materia territoriale e urbana americana è ben documentato, non pubblica più scritti sulla città di Los Angeles, né sui suoi architetti. Eppure la consultazione delle sue fotografie conservate nel fondo d’archivio presso la Biblioteca dell’Accademia di architettura di Mendrisio6 e la lettura dei suoi taccuini7 rivelano se non una passione, un forte interesse per Los Angeles e i suoi architetti e chiariscono così il singolare americanismo di Corboz.

Fotografie architettoniche

Durante il suo periodo in California, Corboz ha scattato quasi 2000 fotografie. La consultazione dei suoi scatti, accuratamente titolati, datati e catalogati, permette di tracciarne l’itinerario in modo preciso. Ha visitato le case pioniere dell’architettura domestica californiana progettate da Greene & Greene e Irving Gill, le opere della «fase californiana» di Frank Lloyd Wright, le case dei suoi allievi Rudolf Schindler e Richard Neutra, e i primissimi esperimenti di Frank O. Gehry, allora poco conosciuti al di fuori della California.

La quantità e la distribuzione dei soggetti fotografati forniscono informazioni sulla singolarità del punto di vista di Corboz sull’architettura di Los Angeles. Così, l’assenza di Case Study Houses # 8 e # 22 rispettivamente di Ray & Charles Eames (1949) e Pierre Koenig (1960), sebbene comunemente associate all’immaginario dell’architettura di Los Angeles, contrasta con la profusione di fotografie di architettura fai-da-te di Gehry, come per la sua casa (1978), Il linguaggio «Maya» di Wright in Hollyhock House (1919-1921) o la sua sperimentazione con l’architettura vernacolare americana nella casa in stile usoniano, la Sturges House del 1939. Corboz visita e fotografa più volentieri le esperienze pionieristiche dell’architettura moderna californiana a scapito delle icone dell’asettico stile californiano internazionale, ampiamente divulgato dai cliché di Julius Shulmann.

Talvolta presta particolare attenzione al titolo dei suoi scatti: «le téménos de la Science» per una foto della spianata centrale del Salk Institut (1962-1963) di Louis Khan; «structure et vérité» per una vista incorniciata dalla struttura portante in calcestruzzo grezzo della Lovell Beach House (1926-1929) scattata da Schindler.

L’umorismo non è trascurato: la foto di una qualsiasi automobile americana si intitola «Caprice Classic, 4e auto»; la vista di una fila di palme che si incurvano verso l’alto è titolata «Omaggio a Bernini». Se l’abbondanza di fotografie e il metodo di classificazione rivelano un’innegabile volontà documentaria da parte di Corboz, la scelta dei soggetti e la volontà di titolarli indicano un interesse più specifico per lo strumento fotografico.

Corboz, letterato, insegnante, storico e critico dell’urbanistica e dell’architettura, è anche un fotografo di architettura? Solo la raccolta di testimonianze dei suoi contemporanei e uno studio più approfondito delle fotografie scattate durante altri episodi della sua carriera professionale potranno stabilirlo. Tuttavia, il singolare corpus fotografico del suo viaggio in America ci porta a non rigettare l’ipotesi.

Quaderni americani

Oltre alla sua indagine fotografica, Corboz ha riempito sette taccuini intitolati «America» che coprono la durata del suo soggiorno in California. I taccuini adottano la forma del genere letterario del taccuino di viaggio. Così, tra le pagine manoscritte, ci sono, ad esempio, il disegno di sezioni trasversali che confrontano l’organizzazione del Salk Institute di Khan e della Neue Nationalgalerie di Ludwig Mies van der Rohe, un ritaglio di giornale in italiano, uno schizzo di Gehry o la fotocopia di una pianta di una casa di Wright.

Quasi quotidianamente, Corboz annota gli indirizzi esatti degli edifici che visita, i loro autori e le date di progettazione. Descrive poi queste architetture, il più delle volte dall’esterno. Le frasi sono spesso brevi e precise. Le descrizioni di alcuni dettagli sono minuziose.

Se il censimento delle fotografie suggerisce una preferenza di Corboz per alcune architetture, i taccuini di studio ne danno conferma. Dedicherà lunghe pagine alla descrizione dell’architettura di Wright e della sua influenza sui suoi contemporanei e sugli allievi. Così, tra gli «archi spagnoleggianti» dell’Horatio West House (1919) di Irving Gill, nota i «tratti wrightiani» nelle geometrie delle finestre. In un’altra pagina, ipotizza che la pianta a V della Kings Road House (1921-1922) di Schindler sia un’emanazione di quella della Hollyhock House disegnata da Wright un anno prima. Egli descrive la casa di Schindler come «hollyhock dei poveri». Sapendo che fu Schindler a seguire parte del lavoro sul progetto del maestro, il confronto di Corboz prende la forma di una dotta interrogazione scientifica sulle origini della tipologia dell’architettura domestica californiana. In altre pagine, mette in discussione l’architettura insolente della casa di Gehry mettendola a confronto tra Maillol e Rodin. Altrove, durante una lunga visita alla Gamble House costruita all’inizio del secolo, notò le influenze giapponesi sugli architetti Greene & Greene, e incollò su una pagina del suo taccuino la pianta del palazzo Katsura.

I taccuini di Corboz sono densi di rimandi e confronti tra oggetti architettonici, che a volte possono essere molto distanti. Spesso inaspettati all’inizio, si rivelano sempre molto acuti alla fine della riflessione. Egli si limiterà sempre a guardare l’architettura di Los Angeles interrogandosi sulle sue fonti, le sue influenze o le allusioni senza mai prendere le distanze o essere sedotto dall’oggetto che osserva. Senza stancarsi, interpreta ciò che guarda.

Una frase del quaderno, sotto forma di avvertimento, illustra perfettamente questo metodo: «Regola d’interpretazione n.1: Che ogni opera sia sempre diversa da ciò che se ne può dire». È forse questo il tratto caratteristico dell’americanismo di Corboz.

 


Testo originale francese qui.


Note

  1. Corboz è invitato dallo zurighese Kurt Forster, fondatore del Getty Research Institute nel 1986-87. È poi nuovamente invitato nel 1993 da Stanislaus von Moos, allora ricercatore al Getty.
  2. Jean-Louis Cohen e Hubert Damisch, Américanisme et modernité: l’idéal américain dans l’architecture et l’urbanisme, Flammarion, Paris 1992.
  3. Nel 1992, il Getty Research Institute traduce il testo in inglese, lo arricchisce con le fotografie di Dennis Keeley e lo pubblica in un libro di Bruce Mau dal titolo Looking for a city in America: down these mean streets a man must go. Il testo è reperibile su espazium.ch. Si ringraziano Yvette Corboz e le edizioni Gallimard che ci hanno inviato la versione originale del testo per la pubblicazione. Le diapositive si trovano presso il fondo André Corboz della Biblioteca dell’AAM.
  4. Si oppone alla critica di Jean Baudrillard secondo cui Los Angeles non sarebbe «une ville à l’européenne». Vista dall’Europa, ma anche dagli «américains eux-mêmes» la diagnosi di Corboz è fonte di dibattito. Ha anche giudicato severamente Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour (Learning from Las Vegas, 1977) così come Colin Rowe (Collage-City, 1978), che «se contentent de jouer avec quelques reflets».
  5. Les dimensions culturelles de la grille américaine, «Faces», 46, estate 1999, pp. 60-63 e La dimension utopique de la grille territoriale américaine, «Architecture Canada», 28, 3-4, 2003, p.63-68.
  6. Angela Windholz ed Elisabetta Zonca lavorano alla Biblioteca dell’Accademia di architettura di Mendrisio e ci hanno molto aiutati nella consultazione delle fotografie di Corboz. Cfr. Archi 1/2018 pp. 8-9.
  7. Yvette Corboz ci ha cortesemente autorizzato a consultare i carnets californiani di André Corboz.
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