Il ruo­lo del co­lo­re

Editoriale archi 2/2014

«Il colore fa parte dei mezzi dell’architettura come la pietra, il cemento armato e il legno.» Bruno Taut, 1926

Data di pubblicazione
24-04-2014
Revision
08-10-2015

La critica e la storiografia architettonica ci hanno per lo più convinto che il bianco sia il colore degli edifici della modernità. E che al bianco degli intonaci sia poi succeduto, con l’avanzare della tecnologia edilizia, il grigio del cemento armato. Chi ha avuto, invece, l’occasione di scoprire la grande complessità e polifonicità del Movimento Moderno (che chi scrive ritiene ancora una miniera di risorse culturali la cui forza rinnovatrice non è affatto esaurita), ha compreso anche il rilievo che la questione del colore ha giocato nella sua evoluzione. La figura di Bruno Taut, da questo punto di vista, è importante  per le opere che ha lasciato in Germania, e anche per le sue riflessioni.

La visita della Grosssiedlung di Berlin-Britz, la sua opera forse più nota, lascia allibiti i giovani architetti freschi di studi. Alle spalle del lungo edificio bianco a ferro di cavallo, che all’ingresso della Siedlung stabilisce la relazione con la Fritz Reuter Allee, le doppie cortine continue di piccole case gialle e rosse sono annunciate, sugli angoli delle strade, da una coppia di case leggermente arretrate colorate di viola-lilla. E a Magdeburg, nella Siedlung Reform, ogni casa è colorata non solo per settori verticali corrispondenti alla divisione tra una proprietà e l’altra, ma anche per settori orizzontali, corrispondenti a diversi livelli dell’abitazione. E sempre con colori saturi, dal forte impatto ambientale.

Il colore dell’intonaco era pensato come un elemento fondamentale del progetto, la sua efficacia era misurata in funzione dell’effetto spaziale ricercato. E la ricerca tecnologica per realizzare un supporto capace di accogliere un colore saturo e durevole era una questione rilevante nella cultura tecnica del tempo. …Il colore ha la capacità di diminuire o aumentare le distanze fra le case: di influenzare le proporzioni degli edifici facendoli apparire più o meno grandi: di metterli in relazione con la natura o con gli altri elementi. Il colore non può essere escluso dal processo costruttivo: si deve lavorare con esso in maniera logica e conseguente come con qualsiasi altro materiale…

In realtà anche a quel tempo c’erano le mode e c’era chi imitava malamente le opere di Taut, svalutando le sua innovazione. Di questo Taut si lamenta in uno scritto del 1926, nel quale sostiene che l’esito e l’effetto di ogni nuova idea sono governati da una legge per cui all’inizio l’idea è rifiutata dal grande pubblico e raccolta da pochi appassionati. Successivamente, la nuova idea si diffonde e conquista il grande pubblico, ma arriva a questo stadio così diluita che delle sue qualità principali rimangono solo le caratteristiche esteriori. La riduzione della sua portata è tale da indurre gli autori dell’innovazione a non riconoscerla e a dovere sobbarcarsi il carico di tutti i «deragliamenti» che ingiustamente l’opinione pubblica imputa a loro. Così è avvenuto per l’uso del colore in architettura. Taut racconta che all’inizio della guerra  lo ritennero  degno di essere arrestato perché aveva costruito la colonia colorata di Falkenberg, vicino a Berlino. Poi il colore diventò di moda e …oggi si considera già un risultato quello di tingere le case con toni da pappagallo. Il colore è separato dal resto degli strumenti artistici e come elemento autonomo crea, in fondo, un nuovo kitsch che deve essere rifiutato con maggior rigore della uniformità precedente perché, rispetto a questa, colpisce l’occhio molto più «rumorosamente» e più fortemente.

Un tema difficile, quindi, al pari delle altre questioni che nel moderno progetto integrato della costruzione determinano la sua qualità. Nella modernità ticinese il colore non c’è, o,  più precisamente, il colore è quello proprio dei materiali per come si presentano in natura. Nella prospettiva, tuttavia, delle ricerche e delle innovazioni tecnologiche in atto, la «natura» dei materiali diventa un concetto sempre più complesso e ambiguo. Ai tempi di Taut il colore dell’architettura era una tinteggiatura dell’intonaco, a base di calce oppure  di silicati alcalini. Oggi i materiali degli involucri, e in generale delle superfici,  sono infiniti, e consentono di realizzare le texture più diverse per ottenere gli effetti più originali e spettacolari. Non ci sono più limiti, si può utilizzare, come ci ricorda Katia Gasparini, il cemento termocromico o quello traslucente, si possono realizzare facciate liquide e affreschi digitali, urban screen e mille altre diavolerie, di cui sono piene le riviste internazionali, e che stanno trasformando l’architettura in un grande oggetto di comunicazione e di consumo.

Archi 2/2014 illustra diversi modi di utilizzare il colore nell’architettura, offrendo ai lettori il materiale necessario per riflettere sulla sua necessità. Anche la copertina è eccezionalmente colorata, ma dal prossimo n. 3 tornerà certamente in bianco e nero, per rappresentare la nostra consapevolezza che il colore non è un orpello da usare per scopi scenografici, e che opponiamo resistenza al ritorno dell’ornamento, che sia tradizionale o digitale.

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