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Dalle pubblicità vintage al Seagram Building, fino alle mura in mattoni di Heineken, Gabriele Neri racconta con Paralleli gli insospettabili intrecci tra alcool e architettura.

Data di pubblicazione
10-06-2025
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

Negli anni Settanta, in Italia, una réclame raccomandava agli architetti di bere del whisky per svolgere al meglio la professione. Niente miracoli, sia chiaro («C’è poco da fare. Le Corbusier si nasce. Non si diventa»); tuttavia l’alcolico nettare poteva offrire «quel pizzico di estro in più, quello di cui si può aver bisogno quando c’è un problema da risolvere o un ostacolo da superare in modo brillante».
La pubblicità è in effetti piuttosto bizzarra, tanto che allora lo storico Cesare De Seta volle pubblicarla su «Casabella» per ragionare sui meccanismi mediatici dell’architettura. A noi, invece, oggi la curiosa pubblicità fa pensare alle tante storie che hanno collegato alcool e arte del costruire. Partiamo dalle più celebri. Sebbene amasse ripetere che «l’architettura non è un Martini», Mies van der Rohe s’impegnò a lungo sul tema, progettando per la Bacardi a Cuba e ovviamente il Seagram Building di New York, sede dell’omonima compagnia canadese di distillazione, in cui il colore ambrato dei vetri ricorda il whisky. Ma la lista di simili edifici sarebbe lunga: ricordiamo almeno le belle cantine di Mario Botta, e la più recente Cantina dei 5 Sogni a Monforte d’Alba dello studio milanese Fondamenta. Meno raffinate, ma di certo divertenti, sono le sedi di due aziende cinesi di liquori (Daohuanxiang e Wuliangye) a forma di enormi bottiglie di baiju, la grappa locale.
Ancora più curiosa è la prospettiva fornita dalla birra. Nel 1963, infatti, Alfred Heineken volle realizzare una bottiglia che potesse servire anche da «mattone» per zone del mondo dove i materiali da costruzione scarseggiano (ma la birra no). L’idea gli venne su una spiaggia delle Antille Olandesi, deturpata da centinaia di bottiglie vuote. Chiamò l’architetto John Habraken: insieme crearono una bottiglia squadrata che poteva essere impilata e connessa con malta o cemento. Il progetto trovò ostacoli e non fu messo in commercio; da allora, tuttavia, molti altri hanno seguito quella ricetta, cercando di coniugare consumo e costruzione.
Torniamo a Corbu, che per descrivere la sua celebre Unité d’Habitation marsigliese faceva l’esempio di una rastrelliera dove inserire delle bottiglie di vino (le cellule abitative). Scopriamo che la sua fama ha ispirato varie iniziative legate all’alcool: ad esempio la cristalleria toscana Colle­Vilca produsse una bottiglia per whisky con il suo nome (design di Filippo Alison), mentre lontani discendenti del nostro Charles-Édouard Jeanneret-Gris hanno fondato nel 1992, in Australia, la cantina Jeanneret Wines, che ha una linea di vini chiamata Le Corbusier Range. Il suo nom de plume aveva del resto una chiara assonanza con Courvoisier, noto marchio di cognac francese apprezzato da Napoleone Bonaparte.
Sull’utilità e il danno dell’alcool per la progettazione, si potrebbero evocare innumerevoli altre storie. Quella di Alvar Aalto, ad esempio, che in studio alzava il gomito divenendo piuttosto molesto verso i suoi collaboratori. Oppure di Louis Sullivan, che com’è noto ebbe seri problemi d’alcolismo nelle ultime fasi, declinanti, della carriera. Il suo allievo migliore, Frank Lloyd Wright, che all’età di 89 anni si concedeva un bicchiere di whisky irlandese prima di cena, affermò: «Un uomo è uno sciocco se beve prima di aver compiuto 50 anni, ed è uno sciocco se non lo fa dopo quell’età». Un detto simile è attribuito anche a William Faulkner.
Chiudiamo con le parole di un grande ingegnere, l’estone August Komendant. Riferendosi alle orazioni del suo amico architetto Louis Kahn, memorabili ma pure piuttosto astruse, diceva: «Lou, senza vodka, proprio non riesco a capirti!». Come biasimarlo?

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