Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, mar­zo 2012

Quasi brutale

Data di pubblicazione
10-02-2013
Revision
19-08-2015

Questo Diario era destinato al commento delle architetture che hanno vinto o partecipato al Premio SIA 2012 edizione architettura. E finalmente scrivere sul progettare l’architettura, dopo molti Diari dedicati al paesaggio, al territorio, alla città. E invece ci sono cascato di nuovo dopo aver letto il testo Progetti che fanno pensare scritto da Alberto Caruso nel catalogo che accompagna il Premio SIA: merita attenzione per l’intelligenza delle sue considerazioni e per la chiarezza con cui sono espresse. Mi limito al primo paragrafo, quello diciamo introduttivo e di premessa ai successivi commenti puntuali sui progetti premiati. È un testo quasi brutale. In sedici righe contiene la sintesi di tre (amare) considerazioni. Primo, che nel loro insieme i progetti presentati al premio 2012 non differiscono molto da quelli dell’edizione precedente del 2007, e sostanzialmente ripropongono le stesse tipologie «... con la prevalenza assoluta delle abitazioni unifamiliari, la presenza minima di progetti di recupero e trasformazione e di progetti di opere pubbliche, e nessun progetto di spazi aperti, piazze, strade, verde». Secondo, che «... sono assenti elementi di novità che segnalino (...) un modo diverso di abitare il territorio». Terzo, «... la necessità di una svolta nella cultura dell’abitare, che limiti e recuperi la diffusione insediativa, rimane un’aspirazione teorica». Più chiari di così: per questo ho definito «quasi brutale» il testo di Caruso.

Le aree di pertinenza della collettività

La prima constatazione di Caruso è la prevalenza di case unifamiliari e l’assenza di progetti di spazi pubblici. Se il Premio sia è lo specchio della (migliore) produzione architettonica di questi ultimi anni in Ticino, allora ciò che riflette è un territorio in frantumi affastellato di singoli micro interventi dentro micro parcelle, ognuno dedicato all’individualismo del singolo, dove assenti sono le infrastrutture dedicate al sociale e al collettivo. Lungo le strade, su per le colline, villa dopo villa e posteggio dopo posteggio e siepe dopo siepe la città allunga i suoi tentacoli e si stempera nell’anonimato più assoluto. La città – intesa come luogo della collettività – è malinconicamente presente nel marciapiede a fianco della strada, nell’asfalto che la ricopre, nelle tubazioni sotterranee, nei lampioni dell’illuminazione. Ma con ville e marciapiedi e lampioni non si disegnano gli spazi collettivi. La città – grande o piccola che sia – oggi è fatta dal privato: è il privato che costruisce il muro di sostegno al proprio giardinetto, è il privato dell’immobiliare di turno che costruisce la casa d’appartamenti e disegna e decide materiali e forme e contenuti dello spazio tra l’edificio e il marciapiede della strada. Fuori dai suoi luoghi storici – di una storia intesa fino alle soglie del dopoguerra – la città rinuncia al ruolo di creare qualità nei luoghi di sua competenza – gli spazi pubblici – e si consegna al privato e si affida (o se si vuole si nasconde) al disegno determinato dalle sole normative viarie, che come ovvio si occupano di dimensioni, non di spazio urbano. Salvo rare e lodevoli eccezioni, la città in queste periferie prossime o lontane non disegna strade di qualità, viali e luoghi di valore in cui è bello passeggiare, e assenti sono parchi e giardini e percorsi pedonali e sentieri e viottoli e scorciatoie. A qualcuno darà fastidio, ma la realtà è che l’ente pubblico oggi gestisce città e borghi nella passività delle sole regole e normative e dati quantitativi, e affida la realizzazione del proprio territorio ai soli privati. Che come ovvio fanno i loro privati interessi e la qualità, se la creano, la fanno all’interno della loro proprietà. È vero, è giusto riconoscere che negli ultimi anni qualcosa si muove tra progettazione e realizzazione, ma si tratta di «grandi progetti»: opere che durano decenni tra gestazione e realizzazione. Qui intendiamo invece le opere minute, quelle che portano o sono dentro i quartieri.

Un modo diverso di abitare il territorio

La seconda constatazione di Caruso riguarda la necessità di «... una modifica significativa della produzione architettonica, l’affermazione di un modo diverso di abitare il territorio». Uno stop alla diffusione del costruito. Ma prima di pensare a un modo diverso di abitare il territorio occorre riflettere perchè la gente abita il territorio in questo modo. Chiedersi cosa stanno diventando – o sono diventate – le nostre città: luoghi dove è il mercato immobiliare a fissare i prezzi, con le sue (senz’altro giuste) regole economiche, ma dove questo mercato è dettato da convenienze che nulla hanno a che fare con la realtà economica degli abitanti della città. Ma piuttosto con l’irrealtà e l’astrazione della gestione di capitali. Ne consegue che i prezzi per abitare (in proprietà o un affitto) non hanno più alcun legame o riferimento con gli abitanti, che in pratica dalle città – dalle sue parti migliori e più centrali – se ne devono andare. E dove vanno, se non su per lontane colline o nei fondovalle? Occorre quindi non solo versare lacrime per un paesaggio progressivamente corroso da una cancrena edilizia senza limiti, ma anche riflettere sulle sue cause. Dove possono infatti andare ad abitare i giovani che oggi mettono famiglia se non lontano dalle migliori zone della città, lontano dai tradizionali quartieri residenziali, per approdare in luoghi ben distanti dal centro delle città. Queste le ragioni dell’assedio ai villaggi che contornano le città e l’invasione di case a schiera e ville sulle colline. Certo, qualcuno ha realizzato il sogno della «sua» villetta con giardinetto e barbecue, ma molti ci sono andati per necessità, non per scelta, costretti a «emigrare» ai margini o fuori della città perchè premuti da un processo economico-immobiliare che si sviluppa con proprie leggi di mercato. Tutto legittimo, ci mancherebbe, ma socialmente giusto? E ancora: giusto per la città stessa e il suo modo di essere vissuta? Non credo. Occorre un altro modo di abitare, reclama con ragione Caruso. Un problema che richiede valutazioni e risposte e idee articolate, esige un progetto globale nel quale hanno voce non solo l’architettura e le tipologie abitative, ma anche la pianificazione del territorio e soprattutto l’offerta di altre e diverse occasioni abitative. Le associazioni SIA, OTIA, FAS, FUS, GEA (purtroppo spesso trascurata), il Cantone, le Città dovrebbero urgentemente riflettere assieme, coinvolgere i politici, i funzionari pubblici, i pianificatori con i loro Piani Regolatori e i privati stessi, quelli che investono e mettono i soldi.

È la città che deve costruire se stessa

Gli esempi per possibili soluzioni esistono, promosse principalmente dalle grandi città, che per prime hanno conosciuto questi problemi e cercato delle soluzioni già parecchi anni fa. Non occorre andare molto lontano. Una possibile soluzione è che la città stessa realizzi le case d’appartamenti e i quartieri e i relativi spazi pubblici in luoghi qualificati della città, investendo così soldi pubblici non più nel realizzare (costose) nuove strade e allacciamenti fognari su per lontane colline o per prolungare (costose) linee di trasporto pubblico, ma per creare luoghi per abitare dentro la città. Insiemi abitativi capaci di offrire agli abitanti la possibilità di scegliere: o restare nel quartiere dove sono cresciuti e dove hanno conoscenze e amici, o andare ad abitare su in collina. Il secondo modo possibile è una collaborazione tra ente pubblico e privato. Rispettando i reciproci interessi. Certo, il Ticino storicamente non conosce le abitazioni collettive realizzate sin dagli anni Venti e Trenta in molte città della Svizzera, né la presenza dell’ente pubblico nel mercato immobiliare, come ad esempio a Zurigo. Qui l’ente pubblico è estremamente propositivo: non solo per le abitazioni che la città stessa costruisce, ma soprattutto per quanto promuove e collabora con i privati, sia con un ruolo di consulente, sia nel coordinare tra loro proprietari e promotori e i rispettivi interessi economici e finalità di investimento (abitazioni, negozi, supermercati, alberghi), sia nel fondere gli interessi dei privati con quelli degli enti pubblici. Fino a coordinare e promuovere concorsi di architettura: tra il 1998 e il 2008 sono 30 i concorsi organizzati dalla città in collaborazione con i privati per un totale di 2600 abitazioni. Ma non solo Zurigo. Anche città come Milano ad esempio, che virtuosa come Zurigo non lo è di sicuro, ha promosso in questi ultimi anni la costruzione di nuovi quartieri di grande interesse. Nati anch’essi dalla collaborazione città e investitori, progettati tramite concorsi di architettura e realizzati da privati, fondono gli interessi degli uni con quelli degli altri. Nel senso che in questi nuovi quartieri trovano spazio sia dei contenuti misti come le abitazioni e i commerci, sia tipologie diverse di appartamenti, da quelli di grande lusso a quelli più semplici, sia ancora la creazione di parcheggi sotterranei e percorsi pedonali e piazze aperte al pubblico.
E dove l’investitore privato ha comunque il suo tornaconto economico nell’alta densità edificatoria e potendovi inserire non solo abitazioni ma anche negozi e supermercati. Luganese e Mendrisiotto e Locarnese e Bellinzonese – per non parlare della «Città Ticino» – sono oramai dei grandi agglomerati e devono trovare nuove strade di sviluppo. Diverse, complementari ma non alternative, ai Piani Regolatori. Attive, e non passive: per far sì che l’osservazione scritta da Alberto Caruso «... la necessità di una svolta nella cultura dell’abitare, che limiti e recuperi la diffusione insediativa... trovi una possibile risposta e non rimanga ... un’aspirazione teorica».

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