Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, mag­gio 2014

Ciò che verrà

7 maggio 2014: L'arte tra mondi immaginari, spazi, urbano e paesaggio che verrà.

Data di pubblicazione
20-06-2014
Revision
08-10-2015

Il mondo che verrà: Luigi Rossini e Du Zhenjun

Il primo, Luigi Rossini (Ravenna 1790 – Roma 1857), di formazione architetto, ha operato soprattutto come incisore, conoscendo grande notorietà per le sue illustrazioni delle antichità di Roma - esposte in una bella recente mostra al m.a.x. museo di Chiasso. Tra le sue incisioni una in particolare mi ha colpito: Parte del Foro Romano e Monte Capitolino col Tempio di Giove, del 1827-1829. È la visione di una Roma immaginaria, nella quale le architetture di decine di templi, di loggiati e porticati, di possenti archi di trionfo e mura fortificate si accatastano a costruire una città ideale. Ma a ben guardare l’immagine, un’orda di guerrieri invade piazze e strade, precipita da scalinate, penetra dentro gli alti portali delle mura, osserva dall’alto dei terrazzi la trucida battaglia che si svolge là sotto. È l’invasione di Roma da parte dei barbari.

Il secondo, Du Zhenjun, nato a Shanghai in Cina nel 1964 e diplomatosi all’Ecole des beaux-arts della stessa città, è un artista che oggi vive tra Parigi e Shanghai. Era presente a Lugano sabato 12 aprile 2014 al seminario sul tema La folla organizzato dall’associazione NEL, fare arte nel nostro tempo. Tra i molti lavori di Du Zhenjun voglio citare Destruction (2010), della serie Babel. Realizzato con uno straordinario uso della tecnologia computeristica, «costruisce» un mondo immaginario con ritagli di immagini fotografiche scovate in Internet – il reale – e inserendole poi in un incredibile multiforme collage – il virtuale – a rappresentare un’immensa folla di persone che si aggroviglia ai piedi di un accumulo di frammenti architettonici a formare un’improbabile torre di Babele. E a ben guardare mescolati in quella moltitudine di anonimi si riconoscono le figure e i volti e le statue di famosi personaggi storici.

A distanza di 190 anni l’uno dall’altro, entrambi mostrano una città – un territorio, un mondo – che implode (o esplode ) dentro una profonda trasformazione. O autodistruzione. La Roma invasa dai barbari rappresentata da Luigi Rossini significa la fine della città classica. Il delirio da Photoshop di Du Zhenjun non è solo il crollo dei miti – la Torre di Babele, i protagonisti della storia – ma smaschera anche la confusione di una città senza limiti, di mondo globalizzato. E anche l’Europa c’è dentro tutta.

Gli spazi che verranno: Jacques Lévy

Per capire qual è la città di oggi, occorre allora capire quell’orda disegnata da Rossini e questa moltitudine rappresentata da Du Zhenjun. Nella stessa giornata del seminario sul tema La folla, il geografo Jacques Lévy ha proposto le sue riflessioni sul rapporto tra individuo e società. E ha identificato tre momenti di questo rapporto. 

Il primo momento è proprio la folla, vale a dire quello degli assembramenti di individui, che sfociano nei concerti all’aperto, negli spettacoli, nelle feste popolari, nelle celebrazioni, nelle manifestazioni di protesta, anche. Sono occasioni che rinforzano la democrazia – o le spinte rivoluzionarie. Situazioni anche forti, ma che comunque sempre rientrano in una positiva appartenenza a una società.

Il secondo momento del rapporto tra individuo e società è quello della massa. Qui gli individui non si riuniscono per un fine, ma si accalcano senza perseguire uno scopo comune, dove nessuno si conosce e nessuno si relaziona con chi sta accanto. La massa è fondamentalmente passiva, è manovrabile – come ben sanno i sistemi totalitari – e i singoli individui tendono a restare isolati, chiusi nel proprio nido, passivi verso l’esterno.

Il terzo momento è quello della società degli individui, dove il singolo interagisce con gli altri singoli. Occupa il posto della società comunitaria, è il rifiuto di un organismo comune, di un Ente che accorpa, delle associazioni e come ovvio dei partiti politici. Ma questo interagire tra gli individui è per Jacques Lévy un fatto rilevante e positivo, è un nuovo tipo di società che avvalora le relazioni sociali, è insomma arricchente. E i luoghi di tale interagire sono gli spazi pubblici, specie quelli delle grandi città e metropoli, che presentano un dinamismo che non si trova altrove.

L’urbano che verrà: Fuksas

È nel Dopoguerra che l’urbanesimo ha assunto una dinamica inarrestabile. Anzi, è solo in questi ultimi anni che molte città hanno un numero di abitanti spropositato. Massimiliano Fuksas, in un articolo pubblicato da «Il Caffè» oltre dieci anni fa, nel 2003, cita Kuala Lumpur – capitale della Malaysia – che da piccola città di poche decine di migliaia di abitanti in pochi anni è diventata una metropoli di oltre sedici milioni. Nelle grandi città di oggi l’urbanizzazione ha assunto una dimensione che appare incontrollabile e ingestibile. Per Fuksas occorre allora riacquistare una coscienza critica per «costruire un paesaggio differente e difendere la qualità della vita (...) Dove lavorare, e dove abbiamo moltissimo spazio, sono soprattutto le grandi periferie urbane (...) i luoghi non luoghi, i luoghi che non hanno un’entità né, più precisamente, un’identità geografica. Sembra che l’uomo abbia perso la geografia, ovvero l’identità dei luoghi. Prima di fabbricare un paesaggio bisogna ricostruire la geografia, con l’intento di creare un luogo che abbia una sua identità. La città del futuro sarà ovviamente sempre più grande, sempre più densa, sempre più contraddittoria. Tuttavia la città non è unicamente un fatto drammatico. È a un tempo il luogo della massima contraddizione e della massima accumulazione culturale di idee, di incontri, di sconfitte e di vittorie». 

Il paesaggio che verrà: Claudio Ferrata

Fuksas scrive di identità geografica. Il geografo Claudio Ferrata nel suo recente libro L’esperienza del paesaggio. Vivere, comprendere e trasformare i luoghi (Carocci, Roma 2013), titola un capitolo Nelle vie di Cecilia. Si riferisce a una delle città invisibili di Italo Calvino, dove Marco Polo afferma «io riconosco solo le città e non distinguo ciò che è fuori», mentre un capraio che ha incontrato a Cecilia gli risponde «le città per me non hanno un nome: sono luoghi senza foglie che separano un pascolo dall’altro».

Ferrata evidenzia la visione interstiziale del pastore, opposta a quella urbanocentrica di Marco Polo. E scrive: «Un’operazione di questo genere potrebbe forse permetterci di meglio descrivere le trasformazioni e di superare quella crisi di rappresentazione che caratterizza i discorsi sulla città contemporanea. Se capovolgiamo lo sguardo e lo rivolgiamo verso la periferia e gli interstizi piuttosto che verso i centri del territorio, davanti ai nostri occhi si presentano nuove possibili letture. Supereremmo una prospettiva che valorizza essenzialmente l’urbano, il pieno o l’infrastruttura e porteremmo l’attenzione sugli spazi periurbani, sugli spazi intermedi, sui terrains vagues situati alle porte della città. Un complesso intreccio difficilmente rappresentabile con le sole categorie di città e campagna che abbiamo utilizzato sinora». Per Ferrata occorre «attribuire al paesaggio un ruolo di attore e non di comprimario nella pianificazione delle nostre città».

Ciò che verrà

Nessuna conclusione, per carità. Però tre considerazioni. La prima: le grandi città e metropoli hanno spazi pubblici che «presentano un dinamismo che non si trova altrove» (Lévy) e che sono «il luogo della massima contraddizione e della massima accumulazione culturale di idee, di incontri, di sconfitte e di vittorie» (Fuksas). La seconda: «prima di fabbricare un paesaggio bisogna ricostruire la geografia, con l’intento di creare un luogo che abbia una sua identità» (Fuksas) e occorre «attribuire al paesaggio un ruolo di attore e non di comprimario nella pianificazione delle nostre città» (Ferrata). La terza: le aree verdi, i terrains vagues, gli ultimi lotti agricoli e i resti non edificabili che circondano le città non devono essere trattati come degli zoo da recintare e isolare, ma sono parte integrante di un insieme. Separare l’urbano dal territorio e dal paesaggio non ha più senso, e la pianificazione come è fatta oggi è errata.

Occorre pensare al futuro, non piangere sul passato: ridare all’architetto la matita e metterlo assieme ai geografi, ai sociologi, agli storici, ai paesaggisti per pensare questa «città infinita» che si confonde con il paesaggio circostante, dove materiale e naturale, pieni e vuoti, edifici e spazi pubblici, centro e periferie e villaggi e valli e boschi formano un’unica entità. E in cui anche il Ticino c’è dentro tutto.

Du Zhenjun all'esibizione tenutasi al ZKM di Karlsruhe spiega il suo «Babel World».

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