Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, gen­na­io 2014

Outrage è la rubrica che anni fa la rivista inglese Architectural Review proponeva ai suoi lettori atta a denunciare gli oltraggi compiuti ad edifici storici, demoliti o abbandonati. 

Data di pubblicazione
25-02-2014
Revision
15-10-2015

Outrage è la rubrica che anni fa la rivista inglese Architectural Review proponeva ai suoi lettori. Pur afflitta da un certo, come dire, populismo architettonico, inevitabile in simili faccende, denunciava e commentava gli oltraggi compiuti, gli edifici storici – specie del Moderno– demoliti o sfigurati o dimenticati e in stato di abbandono, quelle architetture insulse o arroganti che insultano monumenti e spazi urbani e città e paesaggi. E l’incuria in cui sono piombati luoghi di valore. Outrage.

Outrage: passerella autostradale a Sevelen

La passerella pedonale che attraversa l’autostrada a Sevelen, sull’A13 all’altezza di Vaduz, realizzata nel 1990 e lunga 103 metri, è un’opera giovanile degli architetti basilesi Miller e Maranta. A loro si devono poi lavori come la scuola Volta a Basilea (2000), la Markthalle a Aarau (2002), il complesso residenziale Schwarzwald a Basilea (2004), la Villa Garbald a Castasegna (2004), l’Ospizio sul Passo del San Gottardo (2009).

In questo progetto della prima gioventù (con Christoph Mathis e l’ingegnere Walter Bieler) l’autostrada è scavalcata da un’architettura in cemento armato e legno, una passerella dove in cemento armato sono le torri di accesso ai due estremi, i due pilastri intermedi e le travi di collegamento, mentre in legno è la parte superiore che dà forma e chiude e copre lo spazio di percorso. La torre d’accesso – quasi fosse un faro o una torre d’avvistamento – ha una base a pianta di ottagono allungato, rastremata verso l’alto, e oltre a costituire l’appoggio alle travi del ponte è anche l’origine della lunga fitta struttura in legno e vetro, che dà luogo, al riparo dalle intemperie, a un affascinante spazio di percorso che si conclude nella torre posta sull’altro lato dell’autostrada. Nella prospettiva in movimento di chi viaggia in automobile, la lunga passerella costituisce un momento di riconoscibilità e si qualifica per la semplicità e «leggibilità» del suo impianto progettuale.

Oggi chi scende verso sud e si ferma per una pausa è accolto da Warme Küche 6-22 Uhr: così sta scritto sul cartellone pubblicitario – appeso tutto storto perché per sua sfortuna la parete su cui è appiccicato è inclinata – che fa bella mostra di sé all’entrata della Rheintal Raststätte. È il degno emblema di un indegno intervento: questa Raststätte non è un edificio, è un’accozzaglia di vetrate, di montanti e porte, di muri intonacati, di volumi color grigio o caffelatte, di griglie di ventilazione, di lamiere di raccordo. Il tutto addossato alla rinfusa contro l’esistente, contro le belle pareti in cemento armato che danno forma alla rastrematura della torre d’accesso alla passerella e contro le travi stesse in legno della parte superiore. Se al momento di partire guardate nello specchietto retrovisore avrete la fortuna di leggere un Danke für ihren Besuch! su un cartello simile a quello precedente...

Outrage: portale della galleria autostradale a Melide

... e nel viaggio verso sud avrete anche la fortuna di ammirare con quale delicatezza le autostrade risolvono i loro problemi. Certo, il volume del traffico si è impennato da quegli anni Sessanta quando nel Ticino l’autostrada fu costruita, certo in parallelo sono aumentate in modo esponenziale le misure di sicurezza, e quindi si sono dovuti aggiungere nuovi guard-rail, semafori, cartelli, avvisi, insegne. E tutti sempre più grandi e sempre più numerosi, concentrati in prevalenza all’entrata delle gallerie. Ma via, un conto è posare con attenzione tutto questo, un conto è mettere ogni cosa come capita. Così passo dopo passo in quel di Melide il più straordinario e famoso portale dell’intera autostrada – e penso all’Europa, non al piccolo Ticino – ha perso ogni suo valore architettonico e strutturale.

Rino Tami, dopo innumerevoli incontri con gli ingegneri per discutere di strutture e impiantistica, aveva disegnato un progetto in cui si integrano le esigenze degli uni e quelle degli altri, e risolto in un’unica architettura le questioni inerenti la statica, la ventilazione e – naturalmente – l’inserimento nel paesaggio. Un progetto fondato su due forti elementi formali posti in croce: il primo è una spina verticale addossata alla ripida montagna che precipita tra i due sensi di marcia dell’autostrada, mentre il secondo è un asse orizzontale determinato dalla parete che, netta come una lama, definisce l’accesso alla galleria. A sua volta, la spina verticale è articolata in alto con un piano inclinato che dà luogo agli imbocchi della ventilazione, mentre in basso si risolve in un sussulto improvviso, in un gesto dalla valenza scultorea che esalta il raccordo tra la linea inclinata della montagna e il piano orizzontale dell’autostrada.

Questi valori squisitamente architettonici e strutturali sono oggi cancellati. Annullati dagli interventi che, uno dopo l’altro, sono stati fatti in questi ultimi anni. Certo, semafori e insegne luminose e cartelli e quant’altro sono necessari per la sicurezza: ma un conto è porli a una distanza adeguata su dei loro supporti, un conto invece è attaccarli e appenderli e incastrarli nel cemento armato a facciavista dell’opera architettonica. Questa lenta cancrena ha poi trovato la sua apoteosi di recente, dapprima con la posa dei ripari fonici laterali che sbattono malamente contro la parete dell’imbocco, oggi con la maldestra costruzione, tra i due sensi di marcia, di un’altra parete: una lamiera ritagliata senza arte né parte che va a occultare il punto focale dell’intera composizione formale di Rino Tami. Ad annullare proprio quel gesto dalla valenza scultorea che non traduce solo il piacere di chi lo ha disegnato, ma che dà significato all’insieme. Outrage.

Outrage: Cretto di Gibellina

Nel gennaio 1968 un violento terremoto distrusse il paese di Gibellina e devastò la valle del Belice, in Sicilia. Anni dopo fu avviata la ricostruzione del villaggio a oltre venti chilometri più a valle, cui parteciparono anche Ludovico Quaroni, Francesco Venezia, Alessandro Mendini, Laura Thermes e Franco Purini, e negli spazi urbani furono inserite opere di artisti come Pietro Consagra, Mario Schifano, Andrea Cascella, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Franco Angeli. Le macerie dell’antico villaggio rimasero lassù, tra le colline della valle del Belice. Ed è proprio tra queste macerie che l’artista Alberto Burri, a differenza dei suoi colleghi, volle realizzare la sua opera. In memoria delle 1150 vittime.

La visita di quest’opera è impressionante: Burri ha avvolto le rovine dell’intero villaggio con una colata di cemento bianco, ha creato volumi alti quasi due metri che ricalcano le fondamenta degli edifici di allora, ha ricoperto con lo stesso cemento bianco le antiche strade e ha realizzato sul pendio rivolto a sud un monumento di oltre 65 mila metri quadri. Uno sconvolgente monumento alla morte costituito dalla stessa Gibellina di allora. È una scultura è una land art è un’architettura che nel silenzio di quella collina configurano l’impianto urbanistico di quel tempo e dove è sepolta la memoria di ciò che fu, le stanze e le cantine e le vie e i lastricati. Ammirare da lontano il Cretto di Burri non significa rivivere Gibellina, no: è comprenderne la forma ed emozionarsi dell’enormità della tragedia, è l’astrazione di una realtà che più non esiste. Si è fatta opera d’arte. Così, il percorrere gli spazi tra i cubi bianchi è certamente ricalcare le vie e i ripidi vicoli di allora, ma soprattutto significa entrare dentro questa enorme scultura, intravvedere verso valle il paesaggio lontano, sentire il silenzio profondo di questo luogo isolato.

Se oggi scrivo queste due righe per ricordare quest’opera di quasi trent’anni fa non è solo per invitare chi ancora non la conosce ad andare a visitarla, ma soprattutto per denunciare l’incuria in cui oggi si trova. Non solo erba e arbusti e alberi crescono tutt’attorno e quasi la nascondono alla vista, ma questi stessi arbusti e rovi e alberi spuntano oramai tra le crepe del cemento, enormi ferite dentro le quali penetra l’acqua, minacciosi rigonfiamenti del manto cementizio in parte già crollati. Uno stato di abbandono cui l’Italia ricca di moltissimi monumenti ci ha abituati, ma che dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – trovare soluzione nei progetti decisi di recente.

Dopo un appello sottoscritto da centinaia di intellettuali (tra cui Claudio Abbado, Ennio Morricone, Andrea Camilleri, Mario Martone, i direttori del Museo Guggenheim di New York e del Centre Pompidou di Parigi) si è mossa la Regione Sicilia, che nel 2012 ha stanziato oltre 3 milioni di euro per il recupero dell’opera entro il 2014. Nel giugno 2013 si ribadisce che il restauro si farà e che i lavori inizieranno nella seconda metà del 2013. Per essere terminati nel 2015, centenario della nascita di Alberto Burri.

Di notizie più recenti non ne ho: ma al Cretto di Burri ci sono stato martedì 29 ottobre, e nel silenzio di quel luogo tutto giace com’era e com’è. Un silenzio rotto solo dal rotare delle pale eoliche che degli ignoranti (architetti, paesaggisti, funzionari ) hanno posto proprio in cima alla collina che sovrasta questa straordinaria opera d’arte. Outrage.

Outrage: Terminal TWA all’aeroporto di New York

Tra il 1956 e il 1962 Eero Saarinen ha realizzato il Terminal della TWA nell’aeroporto JFK di New York. Un’opera che all’inizio non aveva fatto l’unanimità della critica, ma poi riconosciuta per essere un progetto straordinario, un’architettura organica di grande qualità, espressionista nelle forme e negli spazi interni. Un’architettura che proprio nel suo espressionismo voleva significare nel peso del cemento armato la leggerezza e la dinamica del librarsi in volo. Saarinen realizza «... un progetto ricco di tensioni, uno dei più originali terminal aeronautici mai realizzati», come scrive Massimiliano Fuksas sul settimanale «L’Espresso» del 3 ottobre 2013 nella sua consueta rubrica di architettura.

Ma dopo aver ricordato come l’edificio di Saarinen, nonostante la sua straordinaria empatia, oggi appaia assai modesto di proporzioni e perso tra i grandi volumi che lo circondano, Fuksas denuncia che «... dopo anni di abbandono e di tentativi di distruzione il terminal TWA è soggetto a un nuovo attacco: l’idea «geniale» è di trasformarlo in albergo [...] 150 camere di lusso con annesso centro commerciale. Per rendere meno tozza la proposta, l’albergatore ha deciso di costruire anche un Museo del Volo e un Centro Benessere. Sembra che le trattative tra l’Autorità Portuale e l’imprenditore siano lontane da una conclusione che sarebbe terribile: la trasfigurazione dell’opera di Saarinen.» Outrage.

Outrage: progettarci dentro

Sevelen, Melide, Gibellina, New York: esempi di architetture del Dopoguerra minacciate dall’incuria e dall’ignoranza. Ma non mi va di chiudere questo Diario in veste di difensore a oltranza del tempo che fu. Perché sono dell’idea che se è difficile salvare l’architettura della nostra storia – nostra nel senso che è di tutti – altrettanto difficile, anzi molto più difficile è costruire il nuovo: difficile è progettare della buona nuova architettura, difficile è agire dentro un territorio fortemente urbanizzato, dentro un paesaggio deteriorato, dentro una società che ignora i valori esistenti né ambisce a crearne dei nuovi. Difficile è progettare dentro questo outrage globalizzato. Come scrisse Jacques Brel: «Le futur? Ce qui me fait peur ce n’est pas de ne plus avoir des idées – c’est inévitable – mais c’est d’avoir des mauvaises idées.»

 

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