Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to

del 23 gennaio 2012

Riflessioni sulla modernità

Data di pubblicazione
08-02-2013
Revision
19-08-2015

Modernità

Nei testi che seguono è utilizzato il termine «modernità». Si scrive sui quotidiani, si sente a radio e televisione, e tutti noi lo usiamo a ripetizione. Ma occorrerebbe distinguere, perchè «modernità» ha implicazioni e significati diversi. In primo luogo la Modernità – quella con la M maiuscola – è un periodo storico legato all’evoluzione strutturale e sociale successiva alla rivoluzione industriale di fine Ottocento, all’affermarsi della razionalità e dell’innovazione tecnologica. Per poi sfociare nei primi decenni del Novecento con il Movimento Moderno e le avanguardie artistiche, che aprirono il mondo dell’arte – e come ovvio dell’architettura – a nuovi modi di immaginare gli spazi e di disegnare le forme architettoniche, di costruire con strutture inedite e con nuovi materiali, e risolvere i contenuti interni con rigore funzionale. Modernità come progresso quindi, positivo e di fiducia nel futuro. Però il termine modernità – questa volta con la m minuscola – ha anche l’accezione generica di «tempi nuovi», di nuovi modi di fare e di concepire. Dove la carica utopica e ciò che in origine di positivo comportava scompaiono: Tempi moderni era per Chaplin il film sui nuovi modi di fare nelle fabbriche e sul lavoro alla catena di montaggio e dell’invenzione di macchine per accelerare il rendimento degli operai. Tempi nuovi non solo di progresso quindi, ma anche di regresso. Moderno si intende un edificio costruito oggi, mentre antico è un edificio storico. È con questi ultimi contradditori significati che il termine «modernità» ricorre nella quotidianità dei media. E anche nei testi che seguono.

Una modernità ingovernabile

Su La Regione del 19 gennaio un breve articolo, di tema economico. Tra quello che è scritto e quello che vi aggiungo, si afferma che oggi viviamo una modernità senza confini, straripante, diffusa ovunque, planetaria. E proprio perchè così vasta e globale questa modernità si propaga ovunque senza più regole, rimbalza di paese in paese modificandosi, mutando, alterandosi a dipendenza delle singole situazioni e logiche locali. Una modernità ingovernabile, insomma. Ed è proprio per questa realtà del mondo d’oggi – priva di confini, dentro un medesimo enorme sistema, senza possibilità di incidere su quanto accade – che una crisi economico-finanziaria nata a New York si propaga in tutto il mondo come la goccia d’olio in uno stagno, dilatandosi ovunque, di continente in continente. Fino a toccare il piccolo risparmiatore di Airolo. In questa situazione non solo difficile, ma al limite del possibile, nulla si può chiedere all’economia – che ha causato il problema – e tutti chiedono aiuto alla politica. Ahimè, alla politica? Cosa può fare e come può governare dentro il sistema in cui le tocca lavorare, con strumenti e modi che sembrano oramai inattuali in questa nuova realtà di un mondo globale, dove quello che accade è deciso – se è deciso – altrove? La politica, insomma, è parte del problema, non la soluzione.

Progetto urbano e progetto territoriale

Sul Corriere del Ticino di lunedì 16 gennaio un articolo firmato da Michele Arnaboldi, professore all’Accademia di Mendrisio e responsabile del progetto Public space in the «Città-Ticino» of Tomorrow, che fa parte assieme ad altri quattro progetti del Programma nazionale di ricerca «Nuova qualità urbana» (PNR 65). È in questa veste che Arnaboldi scrive dei temi principali che il suo «laboratorio» persegue, approfondisce e dibatte. Partendo dall’assunto che il Cantone Ticino è un territorio il cui fondovalle e le colline sono coperti da un’edificazione diffusa, dove scomparsi sono i limiti territoriali tra villaggi e villaggi, il tutto mescolato e rimescolato in un insieme che quando non è disordinato è al massimo banale. A fronte della realtà oramai «globalizzata» del territorio cantonale, il progetto di ricerca indaga le possibilità di miglioramento qualitativo di questa «Città Ticino» attraverso gli strumenti del progetto urbano e del progetto territoriale, in cui urbanistica, architettura del paesaggio, progetto urbano e architettura si condensano nella sintesi dello «spazio pubblico». Inteso non solo quale luogo di identità, ma quale strumento per qualificare il territorio stesso. Aggiungo allora che questo del gruppo Arnaboldi è l’interessante tentativo di cercare e ritrovare delle regole basate sulla stessa «globalizzazione» degli strumenti disponibili (dal complessivo dell’urbanistica al piccolo dell’architettura, dal progetto territoriale al progetto urbano) per affrontare quel globale che «Città Ticino» rappresenta nel Cantone. Con tutti i rischi, va però aggiunto, che questo termine «Città Ticino» comporta. Forse l’avrei evitato, almeno nella denominazione del progetto. Perchè è un termine oggi così abusato e usato a ripetizione che rischia di scadere in un banale slogan mediatico e perdere quindi i significati veri che comporta: «Eh già, da Chiasso in su è tutto costruito, il Ticino è come una grande città». Il che è tutt’altro che vero. Certo, da Chiasso in su il territorio appare interamente costruito, ma è tutt’altro che una città. Una città è qualcosa d’altro. Oggi quello che vediamo è una successione di singole entità urbane saldate tra loro da un’edificazione diffusa, che ignora centralità e gerarchie, che ignora oltretutto il paesaggio nel suo complesso. Ciò che è stato occupata è quella parte del territorio che con un termine commerciale si definisce edificabile, risultato per certi versi fallimentare della modernità che viviamo, quella che ci siamo costruiti con le nostre mani imitando spesso il peggio degli altri, le avventure speculative del mercato immobiliare, le architetture simili agli squallidi capannoni prefabbricati sorti nella campagna veneta, agli arroganti shopping center sparsi in Lombardia, alla serie di anonime villette disseminate sulle colline del varesotto. È la globalizzazione, insomma! E qui posso riprendere tali e quali le due frasi scritte in precedenza a proposito di crisi economico-finanziaria: «... oggi viviamo una modernità senza confini, straripante, diffusa ovunque, planetaria. E proprio perchè così vasta e globale questa modernità si propaga ovunque senza più regole, rimbalza di paese in paese modificandosi, mutando, alterandosi a dipendenza delle singole situazioni e logiche locali. Una modernità ingovernabile, insomma.». E così come in conclusione ho scritto che «... la politica è parte del problema, non la soluzione», analogamente si potrebbe dire che l’architettura e gli architetti e gli urbanisti sono parte del problema, non la soluzione. Ben venga quindi il progetto di Arnaboldi, che se capisco bene vuole cercare nuovi metodi – e quindi trovare nuove regole – là dove le regole esistenti sono insufficienti e inattuali. Nella coscienza che costruire a macchia d’olio un territorio non significa affatto fare una città: che per fare questa è necessario considerare da un lato il paesaggio nel suo complesso con i suoi valori antropici e naturali e d’altro lato ritrovare – o creare – le indispensabili gerarchie al suo interno. E ripartire da queste con l’unico fattore che accomuna l’insieme, bello o brutto che sia: il «public space». In questo sono d’accordo con Arnaboldi.

I barbari

In un articolo sul quotidiano Repubblica del 26 agosto 2011 dal titolo «I barbari non ci leveranno la nostra profondità», Eugenio Scalfari commenta un precedente articolo di Alessandro Baricco «La vittoria dei barbari» con queste frasi, che voglio citare in modo sparso: «I barbari. La modernità ha concluso il suo percorso culturale durato mezzo millennio e ha aperto la strada ai nuovi barbari. Sarà compito loro porre le premesse dell’epoca nuova, del nuovo linguaggio artistico che le darà la sua impronta, dei nuovi significati che motiveranno le sue istituzioni. I barbari in questa accezione non rappresentano necessariamente una fase oscura ma un’epoca diversa da quella che noi moderni abbiamo costruito e vissuto». Per Scalfari i barbari sono quindi quelli che cercano, che propongono, che inventano il mondo nuovo. Contro gli imbarbariti, quelli invece che «... parlano ancora il nostro linguaggio ma lo deturpano; usano ancora le nostre istituzioni ma le corrompono; non vogliono affatto preservare il pianeta dalla guerra, dal consumismo, dall’inquinamento e dalla povertà, ma al contrario vogliono affermare privilegi, consorterie, interessi lobbistici, poteri corporativi, dissipazione di risorse e diseguaglianze intollerabili». E conclude affermando che occorre opporsi «... all’imbarbarimento che rischia di sovrastarci. Questa battaglia non riguarda i barbari che stanno ancora cercando se stessi. Questa battaglia riguarda noi e soltanto noi possiamo e dobbiamo combatterla».

Che tempo che fa

Nella trasmissione televisiva della rai dell’autunno 2010 «Vieni via con me», condotta dallo scrittore Roberto Saviano e dal giornalista Fabio Fazio, ai molti ospiti invitati è stato chiesto di proporre un proprio «elenco». Di cose che non vanno o di cose da fare. Questa è una sintesi di quanto proposto da Renzo Piano, «Elenco di quello che per me significa fare»:
–    Il verbo fare: fare, costruire, è la più antica scommessa dell’uomo insieme allo scoprire, al navigare, al coltivare i campi.
–    Fare bene: per fare bene occorre capire e ascoltare. È un’arte complessa e difficile perchè spesso le voci di quelli che hanno più cose da dire sono discrete e sottili.
–    Fare per gli altri: bisogna sempre ricordare che fare architettura significa costruire edifici per la gente.
–    Fare con attenzione: perchè la terra ci ha oramai avvisato della propria fragilità. Per questo non credo nell’energia nucleare e credo invece fermamente nelle energie rinnovabili.
–    Fare bellezza o almeno provarci: la bellezza è imprendibile, se allunghi la mano ti scappa, ma se la definisci, come facevano i greci, il bello e il buono, che stanno insieme, allora tutto diventa possibile. La bellezza e l’utilità messe assieme vincono il formalismo.
–    Fare silenzio: cioè costruire emozioni; talvolta l’architettura cerca il silenzio e il vuoto in cui la nostra coscienza si possa ritrovare. Il silenzio è come il buio, bisogna avere il coraggio di guardarlo, e poi piano piano si cominciano a vedere i contorni delle cose.

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