Dal ci­clo ai ci­cli di vi­ta: pro­ble­mi di sca­la

Data di pubblicazione
21-04-2023

Nel 1977 la coppia di designer Charles e Ray Eames realizza il breve film I multipli di dieci:1 da un’immagine aerea di un picnic a Chicago l’occhio di un’ipotetica videocamera si allontana alla potenza di dieci ogni dieci secondi. In meno di un minuto l’immagine abbraccia il Nordamerica e solo dopo un minuto e mezzo l’intero pianeta terra. Ogni anno questo filmato dal sapore didattico e in parte aneddotico viene mostrato a migliaia di studenti in scuole sparse in tutto il mondo. Se l’immagine della terra vista dall’alto non rappresenta una novità dopo quella famosa catturata da Apollo 17 nel 1972, il film degli Eames riesce per la prima volta a dare continuità di scala dalla nostra percezione umana a quella dell’intero pianeta come sistema finito nello spazio. Google Earth ha portato questa esperienza nel nostro quotidiano mostrandoci il globo terrestre galleggiante nel buio cosmico ogni qual volta cerchiamo un luogo o un tragitto tra due punti. È quindi accertata la nostra familiarità su schermo con questi passaggi di scala, ma sembra corretto chiedersi quanto questa abbia realmente modificato la nostra percezione del rapporto tra l’agire come singoli in rapporto al sistema terra. Non si può rispondere a questa domanda senza differenziare tra generazioni. Se infatti quelle meno giovani2 conoscono questo rapporto in modo concettuale, avendo visto il filmato degli Eames a scuola, le generazioni più recenti,3 invece, lo vivono in prima persona. Sono infatti proprio queste ultime a vedersi inevitabilmente proiettate in un futuro non lontano nel quale esse stesse soffriranno dei cambiamenti climatici globali causati dalle nostre azioni quotidiane. Questa percezione, oltre ad aver generato proteste pacifiche su grande scala, ha qualcosa di rivoluzionario nell’instaurare una consapevolezza tra le diverse scale, o per usare la definizione molto più precisa proposta da Peter Haff, di «Strata».4 Nella visione di Haff uno dei maggiori problemi della crisi climatica che stiamo vivendo è il suo funzionamento su diverse scale («Strata») interrelate nei fatti, ma dissociate nella nostra percezione. Tutti sappiamo che le nostre azioni hanno un influsso su scala planetaria attraverso la produzione di CO2 o la riduzione di risorse, ma non – ancora forse – tutti percepiamo la necessità di mutare le nostre decisioni su scala particolare in favore di fenomeni planetari.

Ed eccoci all’architettura. La costruzione di un edificio è in sé una necessità imprescindibile, dettata da basilari ragioni di protezione, nell’abitazione, o da quelle della necessità dell’insegnamento, del lavoro o dello svago. Nella loro somma queste ragionevoli decisioni su piccola scala hanno sull’intero pianeta (quindi saltando di «Strata») un impatto critico. Disboscamenti per nuovi quartieri minacciano l’ecosistema, le consistenti emissioni di CO2 del settore della costruzione, pari a più del 30% delle emissioni mondiali,5 intaccano gli equilibri climatici, costruzioni in materiali anorganici riducono le nostre risorse future. Tutte narrazioni più che conosciute e che hanno per esempio motivato lo sviluppo di nuovi standard energetici, riducendo sensibilmente il consumo dal 1980 al 2020 del 75%,6 e portando una generazione di committenti, pianificatori, architetti e ingegneri a convincersi – in buona parte a ragione – di aver così dato il proprio contributo alla riduzione del riscaldamento climatico globale. La percezione delle generazioni più recenti è invece ben diversa. Ai loro occhi il lavoro fatto finora è stato necessario, ma non sufficiente, siccome il riscaldamento globale sembra ancora inevitabile. Ecco, dunque, che le giovani generazioni cercano ogni via possibile per ridurre emissioni e uso di risorse, puntando il dito proprio verso queste ultime. Costruiamo con meno materiale! Usiamo risorse rinnovabili! Non distruggiamo gli edifici esistenti! Seguendo queste richieste negli ultimi decenni il mondo della costruzione si è reso conto di non poter costruire unicamente in materiali organici come il legno e l’argilla; sappiamo infatti che le nostre risorse non lo permetterebbero. Volgendo lo sguardo ai materiali che abbiamo utilizzato per costruire le nostre città scopriamo di poter sfruttare il reimpiego di elementi costruttivi nell’ottica di una economia circolare, riducendo consistentemente la percentuale di CO2 per metro cubo di edificio nuovo.7

Nonostante sembri questa una via promettente, è ancora logisticamente molto complicata. Osservando ciò che ci è più vicino possiamo comprendere gli edifici esistenti come grandi collettori di materiale, energia grigia e CO2: ogni mantenimento significa rinunciare a nuove emissioni e all’impiego di grandi quantità di nuove risorse. La ricetta sembra quindi semplice, ma non lo è. Sappiamo che l’aggiornamento di strutture esistenti alle mutate condizioni normative (sismiche, antincendio o semplicemente di comfort) comporta un alto dispendio di energie che sembra mettere in crisi questo approccio. A uno sguardo più attento la situazione è meno univoca: le energie messe in atto sono prevalentemente di natura monetaria e strategica nella pianificazione e nella realizzazione degli interventi, per lo più puntuali, mentre quantitativamente il materiale impiegato corrisponde a una piccola percentuale di quello necessario per realizzare un nuovo edificio. Le richieste di un’azione concreta verso il mondo della costruzione nei confronti delle emissioni e dell’uso delle risorse si fanno sempre più forti. Non solo la recente mostra al museo di architettura di Basilea cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla supremazia delle demolizioni per realizzare nuove edificazioni,8 anche alcune città svizzere come Zurigo o Basilea danno fondo a ogni mezzo nell’edilizia pubblica per raggiungere i propri ambiziosi (ma necessari) obiettivi sostenendo il reimpiego e il riuso,9 sino all’appello di una moratoria sulle nuove costruzioni indetto in Germania nel 2022.10

Registrando queste informazioni l’architettura non può restare impassibile. Non si tratta di rispondere aggiungendo nuovi parametri tecnici al già onerato cahier de charge della disciplina, quanto a una sua rielaborazione critica in grado di accettare e rendere prolifiche le voci della cultura contemporanea. Se la domanda dell’urgenza di agire sembra ormai ovvia, quella dei mezzi da impiegare, del come l’architettura possa dare un suo contributo, sembra invece lungi dall’essere esaustivamente individuata. Una premessa sembra tuttavia necessaria: non è unicamente dovere della disciplina architettonica quella di ridurre il materiale impiegato e le emissioni, quanto anche e per buona parte in modo fondamentale quello delle committenze, delle pianificazioni strategiche e dell’apparato normativo. Servono pertanto committenti (pubblici come privati) e pianificazioni che abbraccino l’esistente per le loro strategie, che individuino nella sua analisi per accogliere nuove necessità un elemento imprescindibile e non pro forma per giustificarne la demolizione. Serve un’intelligente flessibilità nei confronti delle norme, per poter adeguare in parte gli standard da realizzare alle caratteristiche dell’esistente. Servono architetti e ingegneri motivati a integrare l’esistente nei propri progetti: non come male necessario, ma come una delle serie possibilità tra le tante che la disciplina offre.

A questo scopo non basta ricordare i progetti di riuso con maggior fortuna (e visibilità) degli ultimi decenni, ancora ancorati a una narrativa dell’architettura come evento eccezionale legato perlopiù a musei e a monumenti. Sembra invece più proficuo rivolgere lo sguardo ai processi che l’architettura ha sperimentato in centinaia di anni nel ripensare a ogni generazione le proprie fabbriche di ogni genere, rigenerandole in base alle nuove necessità. Quelle che a prima vista appaiono come semplici edifici sono invece il frutto di una crescita per parti nata da situazioni molto specifiche, spesso addirittura ostili agli usi a cui sono state destinate. Le possibili citazioni sarebbero innumerevoli, ne proponiamo alcune non come eccezionalità, ma come esempi di una prassi nella disciplina architettonica. Prendiamo una delle case più antiche dell’Appenzello, nata come proseguimento di una torre fortificata trecentesca e rielaborata per generazioni. Quella che oggi appare esternamente come un’architettura univoca e unitaria, rivela al suo interno rovine storiche e diverse scale di spazi, anche spettacolari. Un altro caso, esempio di una prassi storicamente molto diffusa, è il rimaneggiamento – oggi quasi invisibile –realizzato nell’Ottocento della casa cinquecentesca di Giulio Romano a Mantova, trasformandola profondamente, ma sviluppando una nuova e coerente espressione architettonica ispirata al linguaggio di quasi trecento anni prima.11 Alla luce di questi due esempi la domanda sulla durata del ciclo di vita di un edificio prende una luce inaspettata.

Sembrerebbe di dover mutare la nota asserzione «l’edificio ha completato il suo ciclo di vita» in «l’edificio ha completato uno dei suoi cicli di vita» ed è quindi pronto per il prossimo. Sono ben conosciute le indicazioni ingegneristiche sulla durata di una struttura portante, spesso nella misura di qualche decennio, in alcuni casi invece anche di un centinaio d’anni per solide costruzioni in calcestruzzo. Ma quale durata era stata indicata per la torre in Appenzello? E per la casa di Giulio Romano? Ecco che l’affaccendarsi di costruttori, architetti e ingegneri è riuscito a protrarre per generazioni la durata di vita delle pareti in sempre nuove architetture attraverso il suo rinforzo, cambiamento e riutilizzo. Da questi esempi il parallelo con la prassi contemporanea del restauro nel continuo aggiornamento di edifici esistenti sembra molto vicino. Sembrerebbe quindi opportuno armarci di curiosità e perspicacia come Robert Venturi e Denise Scott Brown in Learning from Las Vegas12 per «imparare dal restauro».

La necessaria conservazione di edifici storici d’importanza ha permesso di sviluppare una vera arte delle misure tecniche nei confronti dell’esistente che spesso restano delegate alle figure dei conservatori e non sono viste come parte delle competenze dell’architetto per rispondere a problemi attuali. Il conservare infatti presuppone il mantenimento dell’aspetto e della struttura storica esistente, mentre queste stesse misure tecniche possono essere il mezzo adeguato a un prolungamento della vita di edifici di ogni genere nella contemporaneità. Una differenza sostanziale tra conservazione e prolungamento del ciclo di vita è spesso il cambio di destinazione, oppure l’ampliamento e l’intensificazione dell’uso nella nuova condizione, che presuppone una modifica dell’edificio attraverso il progetto. Questo processo merita oggi, sia alla luce della tradizione della disciplina nella storia che di fronte all’attuale crisi climatica, una nuova valorizzazione che lo porti a pari merito con la progettazione del Nuovo. Ma quali sono i metodi a disposizione della disciplina? Nel caso del restauro e della conservazione è ben conosciuta la formula della «carta di Venezia»13 che prevede la reversibilità e la visibilità degli interventi. Con lo scopo di mantenere i caratteri fondamentali dei monumenti, la carta ha simultaneamente prosciugato la capacità critica della disciplina dell’architettura nel proseguimento dei cicli di vita all’interno di una stessa fabbrica.

Ragione per cui dovremmo oggi affondare Venezia e riscoprire i caratteri fondamentali del lavoro su edifici esistenti non monumentali. Non conterà più la distinzione tra vecchio e nuovo, quanto il nuovamente nuovo dopo la trasformazione, che non sarà più uno stato definitivo preparato ad arte per i flash delle pubblicazioni, quanto uno dei tanti stati dell’edificio nel tempo. La risposta dell’architettura alle invocazioni delle più recenti generazioni significa quindi aver fiducia nella cultura della disciplina degli ultimi secoli e rifondare il suo sistema di valutazione ora ancora legato a un oggetto mediatizzabile senza passato e senza futuro. Questo numero vuole proporre alcuni spunti presentando progetti affini a questo interesse. Ne sono rimasti esclusi, per ovvie ragioni di estensione della pubblicazione, diversi esempi, di cui vale la pena ricordarne alcuni. Nel 1984 Lina Bo Bardi si trova a San Paolo (Brasile) di fronte a una comune officina meccanica in mattoni, che un gruppo di artisti ha adibito a teatro provvisorio. Al posto di costruire in situ un nuovo edificio Bo Bardi lo mantiene e completa con strutture in metallo tinteggiate in blu. È oggi difficile immaginare che queste strutture sono state integrate in un secondo momento, tanto definiscono un insieme armonioso con l’edificio esistente. È stato a tal scopo non solo necessario ripensare la tipologia di teatro lasciandosi guidare dalle dimensioni dell’esistente, ma anche ripensare lo standard di sicurezza, permettendo l’accesso al pubblico su una struttura tubolare temporanea.

Più recentemente, nel 2017, Harquitectes condividono con Bo Bardi la necessità di costruire sul sito di un edificio dismesso e in parte in rovina. Nel loro progetto per il centro civico di Lleialtat Santsenca a Barcellona gli architetti escogitano una nuova copertura vetrata in grado di attivare circolazioni di aria naturale per i nuovi spazi realizzati in mattone e metallo. Come a San Paolo non è più possibile separare i nuovi interventi dalle strutture esistenti, fuse non solo in una nuova espressione architettonica ma anche in un coerente sistema climatico. Arrivando in Svizzera e all’attualità sembra interessante citare il progetto attualmente in esecuzione di Esch Sinztel Architekten a Basilea. Un non appariscente deposito di vino di una catena di alimentari, situato in una posizione strategica in città, viene riutilizzato come edificio di abitazioni. In questo caso il cambiamento d’uso premette un salto di scala da deposito ad abitazioni, realizzato in pareti non portanti, mentre la solida struttura viene ristrutturata e ampliata con l’aggiunta di tre piani. L’edificio non è stato progettato inizialmente per la durata e per l’uso che ha saputo raggiungere con questo rimaneggiamento, ma non sembra per nulla soffrirne: si noti come le possenti colonne sono diventate parte immancabile degli spazi degli appartamenti.

Spesso gli interventi necessari atti a correggere le strutture secondo le norme vigenti hanno un costo elevato del quale sembra difficile poter convincere qualsiasi committenza. A queste osservazioni si può obiettare che i costi saranno, come individuato precedentemente, minori di una nuova edificazione e non da ultimo che si tratta di risposte concrete agli incitamenti delle recenti generazioni nel ridurre l’uso delle risorse e le emissioni nella costruzione. Per chi è nato da pochi decenni, infatti, il contingente di CO2 di ogni persona è ben di più che uno slogan. Difficile trovare giovani disposti a viaggiare in aereo senza dover a posteriori rinunciare a futuri viaggi, avendo consumato il loro contingente di anidride carbonica. Nella vita quotidiana di queste generazioni il collegamento tra gli «Strata» di Haff o i passaggi di scala del film degli Eames sono una realtà accertata. Cosa significherà questa nuova percezione per l’architettura? Non sarà più possibile aggirare la domanda dell’energia e delle risorse immagazzinate in un edificio esistente, per cui il suo riuso o il prolungamento del suo ciclo di vita sarà una necessità più che una possibilità. Una necessità alla quale l’architettura deve essere pronta. Ma ormai sembra chiaro: la disciplina lo è già da lungo tempo, tocca alla generazione odierna di committenti, architetti e ingegneri riscoprirla.

Note

 

1 Charles e Ray Eames, Powers of ten, 1977, https://www.youtube.com/watch?v=0fKBhvDjuy0, consultato il 22 dicembre 2022.

 

2 Vengono designate come generazioni X e Y quelle nate tra il 1965 e il 1994.

 

3 Si pensi alle generazioni Z e seguenti, nate tra il 1995 e il 2009.

 

4 P. Haff, Human technology in the Anthropocene: six rules, «The Anthropocene Review», 2014, n. 1, fasc. 2.

 

5 United Nations Environment Programme, 2020 Global Status Report for Buildings and Construction, Onu, Nairobi 2020.

 

6 Mark Zimmermann, progetto EMPA/CCEM-Retrofit, EMPA, Dübendorf 2014.

 

7 Bauteile wiederverwenden. Ein Kompendium zum zirkulären Bauen, a cura dell’istituto IKE della ZHAW, Park Books, Zürich 2021.

 

8 Die Schweiz. Ein Abriss, Museo di architettura svizzero (S A M), Basilea 3 settembre-23 ottobre 2022.

 

9 Ne è un esempio iI concorso di architettura indetto nel 2019 dalla città di Basilea per la trasformazione dell’ufficio amministrativo in Hochbergerstrasse in piccoli appartamenti.

 

10 Cfr. https://abrissmoratorium.de/, consultato il 22 dicembre 2022.

 

11 Intervento di Paolo Pozzo sull’edificio del 1540 di Giulio Romano, vedasi il contributo di Franz Fallavolita alla mostra itinerante «animata.ch» del 2017. Abstract: https://www.animata.ch/single-post/2017/10/08/mantova-scenografia-urbana, consultato il 29 dicembre 2022.

 

12 R. Venturi, D. Scott Brown, Learning from Las Vegas, MIT Press, Cambridge (MA) 1972.

 

13 Carta di Venezia per il restauro e la conservazione di monumenti e siti, II Congresso internazionale di architetti e tecnici dei monumenti storici, Venezia 1964.

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