Ar­chi­tet­tu­rain­ge­gne­ria dell’equi­li­brio

Editoriale Archi 6/2015

«L’architettura dipende dal proprio tempo. È la cristallizzazione della sua intima struttura, il lento dispiegamento della sua forma. Questo è il motivo per cui architettura e tecnologia hanno una relazione così stretta. La nostra reale speranza è che entrambe crescano insieme, che un giorno l’una sia espressione dell’altra. Soltanto allora avremo un’architettura come vero simbolo del proprio tempo.» (Mies Van Der Rohe, 1950)

Data di pubblicazione
17-12-2015
Revision
07-01-2016

Passando in treno a Pisa il 4 giugno 1934, Le Corbusier scorge gli edifici di piazza dei Miracoli e schizza sul suo taccuino la sequenza del Campo Santo, del Battistero, del Duomo e della Torre Pendente. Coglie subito il poderoso equilibrio del complesso principio compositivo e rammenta che tre anni prima aveva perseguito le stesse regole nel progetto per il Palazzo dei Soviet. Sul medesimo foglio, schizza la sequenza altrettanto complessa dei corpi di fabbrica del progetto di Mosca, e a piè di pagina annota «unità nel dettaglio, tumulto nell’insieme». La massima corbusiana, una delle più note, definisce, in modo poeticamente singolare, il concetto di composizione dei diversi elementi architettonici, e la sua specificità rispetto a quello più generale di progettazione.

Il progetto del Palazzo dei Soviet è uno dei progetti più visionari e suggestivi, prova della straordinaria capacità di sintesi di Le Corbusier. E. N. Rogers l’ha definito (in Gli elementi del fenomeno architettonico, 1981) «un coacervo di memorie accumulatesi durante i viaggi del Maestro, nonché delle ricerche del Movimento in cui, oltre alla gran parte che vi ebbe egli stesso, vi sono stati altri apporti, e perfino di quelle correnti espressionistiche, antagoniste del Movimento stesso». Il processo compositivo, e il tumultuoso equilibrio raggiunto, ha interessato e coinvolto, quindi, l’intero patrimonio accumulato di conoscenze, memorie ed emozioni dell’architetto. È il concetto di equilibrio, che Nicola Baserga nella sua magistrale «divagazione» ritrova e attribuisce come finalità in ogni dimensione del progetto di architetturaingegneria – come la chiama Javier Corvalán – non solo in quella delle masse e della loro composizione nello spazio, ma anche, per esempio, nel disegno dei fronti.

I progetti pubblicati in Archi 6/2015 sono accumunati dal tema dell’equilibrio, nella sua espressione più evidente e più grave, cominciando dall’analisi strutturale del più noto e spettacolare Driving range dell’associazione paraguaiana di golf a Luque, in Paraguay – costruito da Corvalán nel 2013 – costituito da due grandi travi parzialmente sovrapposte e sorrette soltanto da due appoggi.

Tra le altre riflessioni, Baserga ci illustra quella sul concetto di gravitas e sul diffuso equivoco sul suo significato. Egli afferma che il termine latino deve essere riferito piuttosto alla sua etimologia di serietà e di dovere, aprendo così un livello della ricerca riferito alla dimensione etica del mestiere, una dimensione che nella attuale pubblicistica architettonica viene eluso. E introduce il concetto di dignità dell’architettura, associata alla sua imperscrutabilità, alla speciale immobilità raggiunta dall’equilibrio dei suoi pesi nonostante le forze in azione. «La forma architettonica – afferma Baserga – stilizzata come silente risposta alle complesse contingenze fisiche del manufatto, esprime l’equilibrio tra peso e forma. La forma come reagente al “dovere” dell’artefatto, fuggevole all’inutilità del superfluo, conquista la sua “serietà”».

Da tempo mi chiedo per quali strade – tra le molte percorse nell’attuale ampia ricerca in corso – l’architetturaingegneria ticinese può esprimere soluzioni fortemente innovative, concetti nuovi di abitazione del territorio. L’esercizio riflessivo di Nicola Baserga la indica: è quella di produrre pensiero, di praticare quella serietà di cui parla nel suo testo, di considerare (come affermava Livio Vacchini) che l’architettura è innanzitutto un’attività del pensiero. È questa la «radicalità» di cui abbiamo bisogno, non quella dell’estetica delle forme. È una strada difficile, e opposta a quella più illustrata dai media internazionali, quella che, come lamenta Javier Corvalán, «percepisce le opere quasi superficialmente nella loro forma esteriore o epidermica», approfondendo il divario con l’ingegneria, che invece, «ha la competenza di leggere l’opera con la capacità dei raggi X, di guardare l’interno dell’oggetto.

Il futuro non è quello di una volta e il passato è diventato imprevedibile» – così intitola l’architetto argentino Rafael Iglesia, recentemente scomparso, la sua riflessione sulla crisi della città sudamericana. Vi invito a leggere questo testo per la lucidità, il rigore del pensiero e la percezione della complessità fenomenologica di un territorio, che non è poi così lontano da quello europeo. La diffusione insediativa ha messo in crisi la centralità delle città, e «senza centralità non c’è città». E, afferma ancora Iglesia, «la città non è la somma di isolati, è la somma degli incroci delle sue strade. Ogni angolo è un punto di tensione.» È necessario pensare che «la città è la gente».

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