L'e­qui­li­brio

Divagazioni sul tema

Tenterò di avvicinarmi al significato di equilibrio con modeste riflessioni, di natura personale, spero almeno in parte condivisibili. Cito, forse anche come giustificazione del divagare, una superba definizione di architettura rimasta anonima, tanto vaga quanto esatta: «L’architettura altro non è che equilibrio».

Publikationsdatum
23-12-2015
Revision
23-12-2015

Funambolo

La prima immagine che si dipana, riflettendo sull’equilibrio, è quella suggestiva e surreale di una piccola figura umana sospesa in cielo, in presumibile lento movimento, tra le Torri gemelle, su un filo quasi invisibile, mentre sullo sfondo un aeroplano sembra solo osservare (ma anche drammaticamente presagire). Un’immagine densa, oggi ancor più, di significati, anche altri, che cristallizza un particolare momento sospeso nello spazio e nel tempo.

Philippe Petit, uno dei più grandi funamboli, una mattina del 1974 attraversa, impugnando il fedele bilanciere, una ventina di volte la distanza tra le due Torri gemelle, prima dell’ennesimo arresto. Una città ferma osserva incredula il cielo. Nel suo Trattato di funambolismo1 descrive la traversata sul filo come «una successione di equilibri instabili» che culminano nella bellezza dell’immobilità, lo stato di equilibrio.

«Il punto preciso dell’equilibrio plana sopra il filo, urta il funambolo, naviga come una piuma sotto il vento dei suoi sforzi. Se questo vento si indebolisce e muore, la piuma entrerà nel funambolo per addormentarsi nel suo centrò di gravità».

Non sospeso in cielo, ma ben più modestamente a pochi centimetri dall’acqua, lotto all’alba contro la perfidia dell’armo singolo di canottaggio, ripercorrendo la labilità della sequenza degli equilibri instabili, per cogliere e assaporare l’attimo pauroso dell’assenza di gravità, l’immobilità. L’equilibrio lo si sente come assenza del proprio peso, una specie di volo immobile, l’annullamento delle forze.

Disegno

Nel mio divagare attorno al tema dell’equilibrio, prevalentemente, non mi confronterò con gli aspetti morfologici dell’architettura o con le componenti ingegneristiche o strutturali, bensì con una visione più introspettiva e semantica. Per un’osservazione comunque differenziata del tema, indirizzo l’attenzione di questo paragrafo proprio su un aspetto formale e apparentemente epidermico come il disegno del fronte. Questo interesse nasce dalla presupposizione che, nella prassi del progettare, si percepisca una necessità di equilibrio formale dei fronti, sia quali superfici sia come parti di un insieme plastico. Se, in quest’ultimo caso, i riferimenti sono piuttosto alla prassi dell’arte scultorea e alle sue morfologie, nel primo prevalgono metodi d’impostazione grafico-proporzionale. Il controllo, attraverso tracciati canonici o geometrie auliche, permette, secondo gli autori e il credo sulla pertinenza dei metodi capaci di ordinare gli elementi costitutivi, il raggiungimento di un equilibrio formale ideale. L’uso dei tracé regulateur da parte di Le Corbusier s’iscrive in questa prassi, modernizzandone il metodo che comunque assimila le prerogative del passato. Un esempio interessante, a mio modo di vedere, in particolare per l’introduzione della profondità rispetto al piano di facciata, è la composizione del fronte sud della Casa con Atelier realizzata da Max Bill nel 1932 a Höngg. La casa, di tre piani, è ritmata da quattro parti verticali corrispondenti all’impianto strutturale e tipologico. Mentre la prima parte verticale da sinistra è completamente priva di aperture, nelle altre tre parti il piano terra accoglie un portico e mostra lo scheletro strutturale; ai piani superiori, tre aperture di proporzioni differenti segnalano funzioni diverse e disegnano un’alternanza ritmata di pieni e vuoti. In particolare, le due aperture dell’ultimo piano si differenziano nella profondità dell’aggetto del balcone, rispettivamente nella profondità dell’incavo, suggerendo un controllo di proporzioni e ritmi sia nel fronte sia in profondità. Il maggior aggetto e la relativa maggiore profondità dell’incavo, rispondono come pendant al pieno della parte sinistra, a definizione di un riequilibrio dell’intero fronte. Dall’osservazione dell’impianto tipologico, si osserva come la complementarietà tra «pieno» e «vuoto» corrisponda anche alla dualità tra terrazza esposta sul fronte sud e vano a doppia altezza sul lato opposto, a suggellare una ricerca di elementi complementari in un equilibrio dinamico tra piano di facciata, profondità della stessa e impianto tipologico.

Gravitas

Il termine gravitas è spesso associato, in particolare nei trattati d’architettura, con «gravità», seppur esso si riferisca piuttosto a «serietà» o «dovere» ed è una delle più antiche virtù romane attribuibili agli uomini, insieme alla «pietas» e alla «dignitas». Mi si conceda una divagazione su questo storico lapsus e pure un’ulteriore assonanza autobiografica.

Della Palestra CPC di Chiasso m’interessa esporre alcune riflessioni sul tema proprio della gravitas, in senso lato e nell’accezione etimologicamente corretta. Il volume prismatico della copertura appare immobile, seppur al suo interno fluiscano immense forze, di una vita segreta custodita dal pesante sarcofago. Una silenziosa lotta tra movimento e immobilità. Il sarcofago sollevato, e appena appoggiato, grava sullo stacco, e con il suo peso controbatte la spinta ascendente dell’acqua sotterranea. Nonostante le forze in azione, la struttura impassibile e immutabile persiste nella sua immobilità. Associo l’imperscrutabilità di un’architettura alla sua dignità. Come l’esistere immobile di un albero, grazie alla congruenza tra chioma e radici, tra sopra e sotto, tra fuori e dentro, tra visibile e invisibile. La gravità sospesa dall’equilibrio delle forze che la controbilanciano. La forma architettonica, stilizzata come silente risposta alle complesse contingenze fisiche del manufatto, esprime l’equilibrio tra peso e forma. La forma come reagente al «dovere» dell’artefatto, fuggevole all’inutilità del superfluo, conquista la sua «serietà».

Ancora un pensiero sul connubio tra forma e peso: ai piedi della diga della Verzasca, naso in su, un muro alto oltre duecento metri, l’immobilità di una massa immane sorretta dall’eleganza della curva. La roccia assorbe le spinte dell’arco che trattiene l’acqua. L’artificio si amalgama con la natura e le sue forze, in un tutt’uno esemplare e spettacolare. L’equilibrio assurge a scala geografica, universale nelle sue componenti. Impressiona il silenzio e la maestosità delle forme semplici, coerenti allo scopo.

Concinnitas

Leon Battista Alberti desume il termine concinnitas dall’ambito letterario per descrivere la bellezza pittorica e l’esattezza compositiva in De Pictura,2 prima, e successivamente in De re Aedificatoria,3 per delineare «L’ordinare secondo leggi precise le parti che altrimenti per propria natura sarebbero ben distinte tra loro, di modo che il loro aspetto presenti una reciproca concordanza (D.R.A. IX, 5). La concinnitas albertiana» – rileva Tiziana Proietti4 – è intrisa del principio dell’immutabilità, poiché «sopra una legge precisa di modo che si possa aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio» (D.R.A. IV, 2). L’immutabilità di un complesso che ha trovato un suo equilibrio intrinseco e, conseguentemente, un apparire di ogni parte intimamente legata e inscindibile dalle altre. La concinnitas albertiana ricorda e amplia il concetto vitruviano di symmetria, quale necessità dell’arte architettonica di raggiungere l’armonia compositiva e, in particolare, il giusto rapporto tra proporzioni e apparente peso di ogni singola parte della composizione. Vitruvio coglie in particolare la componente antropometrica, affidando alle proporzioni del corpo umano un ruolo determinante, mentre l’Alberti dilata il concetto di armonia esplorando, tra altri, anche i campi della matematica e della composizione musicale, fino ad attribuire all’architettura un ruolo di benessere e di equilibrio sociale. Per Alberti un importante fine dell’arte è la bellezza ed essa è raggiungibile attraverso un connubio tra mente e natura, in cui la prima, attraverso la matematica e lo studio delle proporzioni, ne definisce i sottili rapporti, prossimi proprio alla perfezione della natura stessa. Così come la musica, la più apprezzabile per una propria naturalezza, trova la sua armonia grazie alla giusta misura e ai suoi rapporti in un sistema di proporzioni intelligibile, anche le arti si fondono con l’essere umano e i suoi bisogni di armonia e bellezza, assumendo un carattere organico, in cui ogni parte è proporzionata al tutto e da esso inscindibile, proprio come il corpo umano stesso.

In estensione al benessere dell’uomo, l’architettura, in particolare, ha il compito di stabilire un equilibrio sociale, che, secondo la Proietti, Alberti affianca al termine mediocritas, intesa come un «allontanamento delle eventuali tentazioni di inutili manie di grandezza» e di rifiuto «dello spreco di risorse e di fatiche umane che non è motivato né da ragione di utilità, né dal carattere delle costruzioni intraprese, e neppure è nobiltato da ingnegnosità ammirevole o da qualità d’invenzione» (D.R.A. IX, 8). Alberti sottolinea quindi l’importanza della moderazione e dell’adeguatezza per raggiungere l’«armonia estetica data dalla bellezza come organicità perfetta». Nello stato di riposo di questa organicità perfetta, l’opera d’arte o l’architettura divenuta corpo dispiegano armonia e bellezza, grazie all’integrazione di tutti gli elementi e all’armonico e complesso equilibrio tra essi.

Loos e la complessità

Loos rifugge a priori la banalità dell’ortodossia o della polarità tematica, assumendo la sfida della complessità. La sua opera travalica il concetto di semplicità e, piuttosto, traccia come risultante la sintesi dei molteplici fenomeni catalizzanti l’architettura. Massimo Cacciari parla delle architetture di Loos come «Idea d’Europa, della Kultur europea. … Fatta di distinzioni rigorose e di nessi altrettanto precisi. … Mai ideologia, mai utopismo, mai in fuga dalle responsabilità».5 Assumersi la responsabilità del fare architettura per Loos significa rispondere con adeguatezza ai compiti posti, accettando e affrontando le molteplici esigenze, giungendo a un preciso ordine. Nel suo lavoro ricerca una sorta di costante di equilibrio tra le varie esigenze, così come nell’ambito della chimica essa rappresenta una grandezza che esprime quantitativamente la dipendenza delle concentrazioni di prodotti e di reagenti in una reazione chimica in equilibrio. A questo scopo, Loos rifiuta la scomposizione tra pianta e alzato, ma anche tra tradizione e innovazione o tra Utilità e Decoro, allontanandosi dal paradigma modernista che pone forma e funzione in univoca e simmetrica relazione. Lo spazio di Loos ricerca un equilibrio complesso. La tridimensionalità geometrica è ampliata dalla dimensione del tempo attraverso il percorrere le sue differenti vedute e le relazioni tra i vani che il Raumplan apre in un continuum spaziale. Lo spazio accoglie il velo delle componenti tattili ed espressive attraverso l’accuratezza della scelta dei materiali, delle superfici e della loro risonanza. Status sociale e fenomenologie antropiche permeano e plasmano lo spazio. L’estrusione dell’interno forma l’involucro, curato nelle proporzioni e nell’equilibrio delle masse, poiché anch’esso segretamente protagonista del processo d’interazione delle varie componenti. Questo fissa nuovamente un momento, un’istantanea a varie profondità, in complesso equilibrio.

Mies e la verità

«Quando ero giovane iniziammo a chiedere a noi stessi: “cosa è architettura?”. Lo chiedemmo a chiunque. Essi dicevano: “Quello che noi costruiamo”. Ma non eravamo soddisfatti di questa risposta. Finché capimmo che era una domanda inerente la verità: cercammo di scoprire che cosa realmente fosse la verità. Rimanemmo incantati trovando una definizione di verità di Tommaso d’Aquino: ”Adaequatio rei et intellectus”. Non l’ho mai dimenticato».

Per Mies la corrispondenza tra realtà e intelletto rappresenta un paradigma del fare architettura, quale disciplina colta a beneficio dell’uomo. S’interroga su questioni fondamentali, studia filosofi e teologi medievali alla ricerca di chiarezza, osserva la storia per comprendere i caratteri del proprio tempo. Questa sua inclinazione al riflettere sull’essenza delle cose è indisgiungibile dal suo fare come architetto. L’intelletto è la facoltà dell’uomo di pensare e, etimologicamente, deriva da intus e lègere ossia «leggere dentro». L’interpretazione dei significati, alla base dell’approccio filosofico, permea il modus operandi di Mies. Analitico e riflessivo, sintetizza il proprio pensiero e riduce gli elementi della composizione, ricercando l’ordine compositivo e la precisione di ogni singola parte. Rifugge l’arbitrarietà, sentendo la responsabilità d’elevare l’architettura a disciplina intellettuale, conferendole valori universali. «Nella sua forma più semplice l’architettura affonda le radici in considerazioni esclusivamente funzionali, ma attraversando tutti i livelli dei valori può sollevarsi sino alla sfera dell’esistenza spirituale, nel regno dell’arte pura».6

L’ideazione del manufatto, sia destinato alla funzione pubblica sia all’abitazione, deve rispondere alla questione del suo significato in rapporto al suo scopo. Mies s’interroga anche sulla contemporaneità dell’opera, ricercando la modernità e, per contro, non lesinando adeguati riferimenti ai temi della classicità nei quali riconosce valori universali. Questo atteggiamento gli permette di concepire uno spazio museale rivoluzionario nella sua trasparenza e costruzione, appoggiandosi sui temi classici per antonomasia della composizione architettonica, quali la distinzione di stilobate, colonna e trabeazione, nonché della sala ipostila. Mies compone e scompone la propria architettura, riconoscendo nei materiali costitutivi e nella tecnologia costruttiva un valore fondamentale. Affascinato dalle costruzioni primordiali in pietra, legno o mattone, riconosce in esse la chiarezza strutturale imposta dall’uso proprio e corretto dell’elemento costruttivo.7 Proprio questa chiarezza strutturale, riproposta e tradotta usando l’acciaio e il calcestruzzo, assume valenza coesiva della composizione architettonica.

Nell’«ideazione, nella costruzione e nella composizione»8 dell’insieme architettonico, Mies applica il principio di una concezione ordinata ed esatta di elementi definiti, con l’aspirazione di cogliere i valori della dignità e della verità, nel rispetto dei valori universali riassunti nella sua più amata citazione di sant’Agostino: «La Bellezza è il risplendere del Vero».9 In questa osmosi tra credo e metodo, tra storia e contemporaneità, tra materiale e processo costruttivo, l’opera di Mies mostra un equilibrio che rimanda, come la definizione citata nel preambolo, al valore universale dell’architettura nella sua capacità di porre gli elementi nel giusto equilibrio e, parafrasando il maestro, nel rispetto della «verità».

Adeguatezza

La creazione avviene attraverso la trasformazione della materia. Costruire significa interagire con le risorse, utilizzandole attraverso una mutazione dello stato delle cose. Se penso al confronto tra costruzione e risorse, la prima immagine che affiora in me, ed è una delle immagini a me più care, è quella di una costruzione contadina di montagna. Dallo scavo per il seminterrato o nelle vicinanze si ricavano le pietre per la muratura e la copertura. Con le stesse si crea il basamento che risolve e sfrutta la pendenza del terreno permettendo le due entrate frontali. L’orizzontalità dello zoccolo concede d’appoggiare la struttura in legno del fienile o dell’abitazione. La copertura a falde inclinate ai bordi laterali e non frontali, per non far ricadere la neve sugli ingressi, è risolta anch’essa con le lastre di granito sapientemente tagliate e messe in opera. La trasformazione delle risorse naturali locali, attraverso la fatica umana e animale, avviene nel rispetto dell’uso tradizionale dei materiali indigeni. Le contingenze stesse, sia delle risorse sia delle capacità, determinano la procedura costruttiva e il risultato formale. La trasformazione dei materiali, senza l’impiego di fattori estranei alla loro natura, permette la riconversione: le pietre cadranno al suolo e saranno ricoperte di vegetazione, il legno si decomporrà ritornando terra. Oppure si riutilizzeranno queste risorse per altri scopi, come la costruzione di altri manufatti.

I cambiamenti socio-economici e la meccanizzazione dei processi produttivi hanno imposto o permesso nuove esigenze e possibilità dei processi di modifica delle risorse e, di conseguenza, di nuovi metodi costruttivi. In particolare, la razionalizzazione dell’impiego della forza umana e animale, a favore di quella meccanica, ha condotto ad approcci e risultati differenti. Le aspettative, a vari livelli, sono aumentate e divenute sempre più ambiziose.

L’equilibrio tra l’impiego di risorse, la misura della loro trasformazione e gli effettivi bisogni appare mutevole. Se, nell’antica costruzione di montagna, contingenze ed esigenze minimali permettevano, diremmo oggi, un impiego delle risorse perfettamente sostenibile, nell’architettura contemporanea, processi e aspettative possono condurre facilmente alla labilità.

Conclusione

Il funambolo ci insegna che l’equilibrio è un’istantanea immobilità sospesa nello spazio e nel tempo. La si raggiunge a passi, nel misurare le proprie forze anteponendole a quelle esterne, fino a trovarne una precisa corrispondenza, il momento in cui queste forze si annullano a vicenda, l’apparente assenza di gravità. Mi piace pensare che quest’istantanea sia anche il fotogramma di un’architettura silenziosa ed elegante che riposa adagiata e, nel contempo, appare sospesa nello spazio e nel tempo.

Il riferimento vitruviano dell’architettura al corpo o, nell’estensione albertiana, a un organismo complesso le cui parti coese e inscindibili rigettano l’arbitrio e l’inutile, riconosce all’architettura una valenza organica che l’avvicina ai valori universali della natura. La ricerca della giusta misura delle varie forze interagenti nel corpo architettonico è mansione centrale della disciplina dell’architetto e il disegno lo strumento di controllo principale. I rapporti proporzionali e l’attribuire fisicità e massa alle componenti architettoniche, già nella concezione dei fronti e del loro compenetrarsi con il costrutto spaziale, sono le vie esplorate per costruire concettualmente e poi fisicamente quell’organismo complesso e armonico che l’Alberti descrive. All’apparato geometrico si legano altri elementi inscindibili: semantici, materici e costruttivi, fondendosi alla ricerca di un amalgama che formerà il corpo architettonico, che assume veci d’organismo.

Dal trascorso scolastico, riprendo una definizione di opera d’arte o capolavoro, riferito a dir il vero a un’opera letteraria, ma certamente riconducibile all’opera architettonica, quale «risultato del tangibile equilibrio tra forma e contenuto». Forse questa definizione potrebbe sintetizzare il tutto, ma preferisco terminare con le parole di Mies, che ripercorrono, non sorprendentemente, gli insegnamenti dell’Alberti: «Dobbiamo riconoscere che l’ordine risultato di un principio meccanicistico attribuisce un peso eccessivo agli aspetti materialistici e funzionalistici della vita e che per questo non può stimolare la nostra attesa per il prevalere dei fini sui mezzi e la nostra aspirazione a dignità e valore. L’ordine derivato da un principio idealistico, d’altro canto, incline a enfatizzare astrazione e forma, non può soddisfare il nostro interesse per la semplice realtà né il nostro senso pratico. Pertanto noi dobbiamo porre l’accento sull’ordine derivato da un principio organico, come mezzo atto a consentire il felice relazionarsi delle parti tra di loro e delle parti al tutto».10

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