Af­fi­ni­tà elet­ti­ve

Data di pubblicazione
14-02-2023

Più che accoppiamenti giudiziosi di gaddiana memoria, sono autentiche Wahlverwandtschaften, alla maniera del fisico Johann Samuel Traugott Gehler, quelle che abbiamo cercato di raccontare. Ispirato proprio al fenomeno descritto nel Physikalisches Wörterbuch del 1798, il noto romanzo di Goethe evocava la mutazione di due elementi associati che, sotto l’azione simultanea di altri due dotati di particolari proprietà, si scindevano e si riunivano in nuove coppie per legge di reciproca attrazione.

I quattro elementi presi in considerazione in questo numero di Archi sono, da un lato, la Triennale e la Svizzera, dall’altro, Milano e la cultura del progetto elvetico. Ci siamo proposti così di verificare e indagare l’incontro felice, a differenza di quello narrato nelle celeberrime pagine di Goethe, fra i soggetti protagonisti. Più di altre nazioni presenti nelle kermesse milanesi nel corso di un secolo, la Svizzera ha fornito, infatti, alla Triennale e a Milano, ancorché con altalenante intensità, la materia per continue osmosi, come affermava Gillo Dorfles, allorquando riconosceva nel design milanese le «qualità migliori» della cosiddetta «scuola elvetica». I caratteri che possiedono in nuce le quattro entità coinvolte si sono avvicinati in maniera eccezionale, e poi incontrovertibilmente intrecciati tra di loro.

Se la metafora fisica servì al grande letterato tedesco per raccontare la sorte di una coppia di inizio Ottocento, indagando i meandri dell’animo umano, a noi è servita per descrivere un destino non ancora concluso. Il lavoro di ricognizione storica proposto negli articoli qui pubblicati ha restituito un’identità lineare, sebbene le mutevoli contingenze ne abbiano messo costantemente in discussione gli esiti formali, data da quegli allestimenti che non erano solo allestimenti. Di fatto, nell’ideare questo numero di Archi, abbiamo voluto prendere in considerazione accanto agli spazi (i contenitori) e agli oggetti esposti (i contenuti), anche i «modi» di vedere.

Sicuramente, gli allestimenti di mostre possono essere (e sono stati) analizzati – come scrivevano Pasquale Plaisant e Sergio Polano qualche anno fa introducendo un numero di Rassegna – con l’obiettivo di «verificarne storicamente la definizione di campo». Ma non è azzardato affermare che allestire in Triennale ha significato anche «apparecchiare» per rendere visibili i molteplici punti di continuità, di intersezione o anche di dissenso. In effetti, ci siamo resi conto come, nelle tante mostre che hanno aperto i battenti nel Palazzo dell’Arte, sia stato ogni volta eseguito un lavoro certosino di costruzione effimera al fine di definire una «macchina visuale», per citare il titolo di un memorabile articolo di Germano Celant, dalla complessa semantica.

Infatti, se le soluzioni espositive adottate dalle delegazioni nazionali hanno interpretato le istanze di partenza, proposte dai differenti curatori in ogni edizione della Triennale, è pur vero che altre volte – come nel caso della Svizzera – gli allestimenti in ciascuna manifestazione hanno avuto il potere di trasformare gli obiettivi iniziali. Anziché «far vedere», quindi porsi come strumenti di mediazione, gli allestimenti «si sono fatti vedere». Esporre, dagli orologi alle architetture ai paesaggi, è stato pertanto non solo uno dei «modi» di creare supporti materiali e sfondi per oggetti da far vedere, ma anche l’occasione per la Svizzera di ri-creare spazi sacrali per ciò che si metteva in mostra.

Fin dalla V Triennale delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna del 1933, la concezione espositiva leggibile nelle sale del Palazzo dell’Arte di Muzio è stata sempre segnata da una continua riformulazione degli assunti «quantitativi». Già nelle intenzioni degli ideatori, da Ponti a Rogers a De Carlo, non si trattava di porgere al pubblico la «quantità» e la «modernità» dei prodotti di ogni paese, accumulati indiscriminatamente gli uni accanto agli altri, quanto piuttosto di far entrare il visitatore in un mondo virtuale per fargli vivere inedite esperienze, anche quando questo mondo era inondato, dal pavimento al soffitto, di fotografie, scritte, modelli, sculture, prodotti industriali.

Trattandosi della Confederazione era, del resto, difficile pensare alla messa in atto di codici non neutri e non neutrali. Eppure, è possibile affermare che esiste un campo della diplomazia elvetica che non può dirsi per niente neutrale. Dagli anni Trenta in avanti, la Svizzera ha infatti dispiegato un nutrito manipolo di «ambasciatori», che con grande convinzione hanno diffuso una precisa politica progettuale, presto divenuta una delle cifre caratteristiche della sua immagine internazionale. Il caso più noto di tale Aussenpolitik è quello dell’Helvetica, font capace di rappresentare – grazie alla sua essenzialità – realtà molto diverse in tutto il mondo: dalle companies americane (IBM, American Airlines, Knoll ecc.) a quelle giapponesi (Kawasaki, Panasonic ecc.), dalla segnaletica delle metropolitane (New York, Madrid ecc.) alla corporate image del governo canadese.

Se, dunque, il successo del design svizzero è stato globale, bisogna anche sottolineare come alcuni paesi abbiano recepito in maniera più profonda i suoi principi. Tra questi c’è l’Italia, e più precisamente Milano: non solo nel campo della grafica, ma anche in quello del design in senso lato (dall’arredo al prodotto industriale, all’exhibit design) e, ovviamente, dell’architettura, la città lombarda ha dimostrato una curiosità particolare verso la vicina Confederazione. Le ragioni di tale curiosità sono molte, legate a una prossimità geografica (preziosa per decine di architetti, artisti e ingegneri che in Svizzera trovarono rifugio negli anni della guerra) e a una vicinanza di «spirito», volendo intendere con questo una comune – sebbene fondata su radici diverse – propensione alla sobrietà.

Con tutti i pericoli che simili semplificazioni offrono, potremmo dire che caratteri quali la precisione tecnica, il rigore formale, l’astrazione geometrica e l’essenzialità sono stati alla base di buona parte del «moderno» milanese e svizzero, seppur ottenendo risultati spesso divergenti.

Di questa concordanza, la Triennale di Milano è stata – ed è ancora, dal momento che la sua corporate image è affidata a uno studio svizzero – uno dei luoghi più rappresentativi: ecco perché abbiamo deciso di dedicare a questa specifica liaison un intero numero di Archi.

In primo piano ci sono le visioni con cui le delegazioni elvetiche hanno interpretato i temi generali di ciascuna edizione e naturalmente gli allestimenti: alcuni molto conosciuti (come quelli di Max Bill) e altri meno (ma per non per questo meno importanti di quelli di Bill); saggi di arte dell’esporre da cui emerge la peculiarità dell’approccio svizzero, non solo formale.

Tuttavia, come si diceva, più che sulla singola performance espositiva, abbiamo però voluto interrogarci sulle relazioni e sulle domande che quelle cicliche occasioni di confronto hanno innescato.

Ad esempio: come è stata offerta (da un lato) e recepita (dall’altro) l’immagine della Svizzera in Italia, attraverso il filtro della Triennale? Quali sono stati – e per quali ragioni – gli «ambasciatori» del progetto elvetico nelle kermesse milanesi? Che ruolo hanno avuto ogni volta nel creare un significato altro? In che maniera si sono differenziate le risposte – o le interpretazioni – italiane e svizzere alle domande che hanno assillato la cultura europea del progetto nel corso del Novecento? Perché la Triennale, ancora oggi come altre volte in passato, affida la propria immagine a progettisti svizzeri?

In altre parole, il tentativo è stato quello di focalizzare l’attenzione non tanto, e non solo, sull’evento isolato, quanto sulle sue interazioni allargate, da cui si possono leggere in filigrana trame relazionali, costruzioni mediatiche, contatti accademici, amicizie personali e analogie di vario tipo. Ci siamo posti come punto centrale dei tanti interrogativi, l’idea che sia esistita una totalità, a partire dalle prime edizioni, non indifferenziata ma ordinata secondo un percorso, che va dal discorso personale di ogni curatore, in ciascuna edizione o mostra organizzata negli spazi della Triennale, fino al tracciato storico-teorico e alla poetica dei responsabili unici delle delegazioni nazionali. Siamo convinti che questa totalità abbia permesso di creare – come scriveva Celant – una «metodologia del mostrare, per cui le funzioni del dove e del come allestire giungono a identificarsi con costanti specifiche, non generalizzate». Attraverso i saggi che compongono questo numero si è dunque cercato di produrre frammenti di risposte a tali quesiti, inseguendo le ragioni di un dato di fatto tanto evidente quanto difficilmente definibile: la particolare affinità tra la via svizzera e quella milanese al progetto.

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