Han­nes Wett­stein (1958-2008): un ri­cordo ita­lia­no

Publikationsdatum
06-02-2019
Revision
11-02-2019

In questa rubrica cerchiamo spesso di parlare dei legami tra Svizzera e Italia nel campo del design, in modo da sondare influenze, relazioni e opportunità tra due contesti molto diversi ma comunicanti. Oggi vogliamo ricordare il rapporto con l’Italia di Hannes Wettstein, designer svizzero scomparso prematuramente nel 2008, che si è distinto per la capacità di inseguire l’essenzialità del tratto senza sacrificare la possibilità di discostarsi dal banale, dall’inespressivo, dal silenzio, spesso grazie a perizia tecnologica e a una non comune capacità di disegno. Ciò si coglie osservando i circa 350 progetti sviluppati in quasi trent’anni di carriera: dagli arredi agli interni, dagli articoli da scrittura per Lamy alle maniglie, dagli orologi alle biciclette, e così via.

Wettstein nacque nel 1958 nel Canton Ticino. Stranamente, ricordava il padre, ad Ascona: «le donne andavano tutte a partorire a Locarno; si trattava della prima nascita degli ultimi trent’anni ad Ascona. Di questo andò sempre molto orgoglioso». In seguito si trasferì nella Svizzera tedesca, cominciando a farsi conoscere come designer all’inizio degli anni Ottanta con alcuni sistemi di illuminazione per l’azienda Belux. La visibilità internazionale giunse tuttavia ritornando verso sud, in Italia, dove per il design era un momento di straordinaria vivacità.

È il 1984 e il giovane Wettstein cerca clienti. Decisivo, per lui, sarà un incontro piuttosto particolare. Qualcuno gli consiglia di rivolgersi a Enrico Baleri, già fondatore e direttore artistico dell’azienda Alias, che aveva ad esempio collaborato alla nascita delle prime sedie di Mario Botta (lo racconteremo in un’altra puntata). Wettstein – che parla italiano, date le origini ticinesi – telefona da Zurigo per chiedere udienza, ma Baleri è scettico. Il giovane, ci racconta, deve meritarsi l’incontro: «Domani mi trovi, io ho casa a Bergamo, sulle colline, non ti dico dove, non ho il telefono… ma se mi trovi guardo i tuoi progetti!». La caccia al tesoro finisce bene: il giorno dopo suona il campanello e i due cominciano a collaborare. Ricorda ancora Baleri: «Intuivo dalla sua bulimia creativa e dalla qualità insospettabile dei suoi schizzi rapidi e intensi, un po’ alla Starck, che avrei potuto cavarci forme da selezionare, idee da sviluppare, progetti perfetti per il mercato internazionale. Era un vero cavallo di razza tutto da addomesticare, con molta calma e prudenza perché giovane e facile alle bizzarrie». Ad esempio, Wettstein «era dipendente da Raymond Loewy», il celebre designer americano, su cui era stata fatta una mostra a Zurigo poco prima.

Dopo qualche tentativo, nel 1987 vede la luce la sedia Juliette per Baleri Italia, ispirata alla mitica sedia in tondino d’acciaio e lamiera verniciata di David Rowland del 1956. La versione di Wettstein si caratterizza per lo schienale incurvato – forse ispirato al copricapo degli indiani Apache! – che funziona anche da bracciolo. È un successo, che prelude ad altri progetti di qualità, come il tavolo Ludwig (Baleri Italia, 1989) e la poltrona Caprichair (Baleri Italia, 1990), la prima seduta tappezzata con lo schienale separato dai braccioli. Una piccola invenzione dietro cui c’è molto lavoro formale e tecnologico, nonché il gusto per la semplificazione e lo stravolgimento dei vecchi archetipi.

La Juliette è emblematica di un cambio di passo per il design internazionale. Ha scritto Konstantin Grcic: «dopo i postmoderni anni Ottanta, quella creazione era esattamente ciò che noi giovani designer sognavamo: il ritorno ragionato a un design industriale innovativo». Ma non solo per questo. L’arrivo di Wettstein in Italia segnava anche un’inedita apertura del design italiano – dominato dai suoi italianissimi maestri Achille Castiglioni, Vico Magistretti, Marco Zanuso ecc. – al contributo di progettisti stranieri. Valga per tutti Philippe Starck, che proprio Baleri chiamò in Italia negli stessi anni, prima che lo volessero tutti. Anche Wettstein viene conteso tra le aziende del Bel Paese: per Oluce fa diverse lampade; per Alessi decora un vaso della collezione 100% Make Up (1992); per Palluco Italia disegna contenitori, librerie e arredi; per Cassina progetta letti e altre cose.

Molti sono i progetti per l’azienda Molteni di Giussano, a cominciare da Alfa, una sedia che trae ispirazione dal mondo degli origami giapponesi. L’idea era infatti quella di usare un solo spessore per gambe, schienale e seduta, piegando ad arte la materia. Difficile però era metterla in pratica, come ci racconta Peter Hefti, oggi marketing manager (e svizzero anche lui) di Molteni. Iniziò una sfida: «provammo a farla in legno, ma non funzionava. Allora abbiamo provato in alluminio, ma il prototipo era troppo freddo, pesante, costoso. Alla fine abbiamo scelto la plastica. Non si volle utilizzare il comune polipropilene: sarebbe stato troppo banale. Dunque chiamammo la Rossini, un’azienda che stava vicino a noi in Brianza e che fabbricava paraurti in SMC (vetroresina) per la Ferrari». Come rifinirla? Per farla lucida come voleva Wettstein serviva una vernice particolare, e dunque la Molteni – dopo i primi insoddisfacenti tentativi – decise di affittare una cabina di verniciatura per automobili con uno dei primi robot verniciatori, intorno al 2002 (anche per la sedia Hola, prodotta da Cassina nel 2003, fu importante il contributo dell’industria automobilistica). Il risultato fu perfetto e di sedie Alfa, nelle varie versioni, ne sono state vendute da allora quasi 100’000. Secondo Hefti, tale successo dipende dal «misto di design teutonico ingentilito dalla sua conoscenza del mondo italiano, che ha creato opere capaci di adattarsi a tutti i contesti».

 

Si ringrazia Stephan Hürlemann per la disponibilità.

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