L’ar­chi­tet­to, la piaz­za, lo scher­mo e il proi­et­to­re

«Un insieme architettonico […] è un montaggio dal punto di vista dello spettatore in movimento […]. Anche il montaggio cinematografico è un modo di “collegare” in un unico punto – lo schermo – vari elementi (frammenti) di un fenomeno filmato in diverse dimensioni, da diversi punti di vista e da vari lati».

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1937-41

Publikationsdatum
26-07-2018
Revision
30-07-2018

La relazione architettura/cinema ha suscitato negli ultimi decenni un interesse crescente nell’analisi delle più varie sfumature di questo rapporto. Spesso la critica ha accennato all’analogia tra il modus operandi della progettazione architettonica e il procedimento che porta alla produzione di un film. Entrambe sono pratiche che affrontano la progettualità dello spazio ed è nella loro natura pre-vedere: se la sceneggiatura è alla base del film, il disegno definisce l’edificio. «Nel cinema il progetto spaziale coincide con la visione, in architettura il progetto coincide con la proiezione prospettica dello spazio, cioè con la realizzazione compiuta dello sguardo […]. La visione implica reciprocità e la finestra o lo schermo ne rappresentano la possibilità e il confine».1

Risulta quindi evidente che l’architettura non rappresenta per il cinema semplicemente una location o un possibile soggetto, esse sono in sinergia anche nelle loro procedure basilari. Oltre alla questione dell’intraducibilità linguistica di due discipline che comunque operano all’interno di codici specifici, ormai un’estesa bibliografia dà conto del vincolo che dalla fine dell’Ottocento si è instaurato tra la città, l’architettura e la settima arte. Ovviamente esula da questo breve editoriale analizzare la molteplicità di poetiche che esprimono questo legame indagandone il significato: magari esplorando come la dinamica dell’azione filmica abbia sviluppato il percorso percettivo dello spazio attraverso l’uso della cinepresa e rappresentato il senso dell’abitare il luogo – naturale o artificiale – narrando il paesaggio o le periferie metropolitane di oggi e di domani; cogliendo la dimensione della vita quotidiana o l’esperienza esistenziale dell’individuo e delle comunità; misurando il passaggio tra il dentro e il fuori, le soglie e i recinti dell’intimità, denunciando a volte con incisività il degrado di quartieri vittime di spregiudicate logiche speculative (sempre nei confini della messa a fuoco dell’inquadratura e con la premessa che i personaggi e i fatti sono immaginari ma autentica è la realtà che li produce).2 D’altronde, come prima la pittura, il cinema è divenuto uno strumento di ricerca: documento iconografico utile a testimoniare le trasformazioni urbane e a recuperare la memoria storica collettiva, restituendo informazioni visive su architetture, parti di città, enclavi o monumenti distrutti dalla guerra o dall’incuria. Anche se il nostro titolo sembra parafrasare quello di un noto film del regista britannico Peter Greenaway (Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, 1989), in realtà esso vuole evocare il progetto di un architetto ticinese: infatti uno schermo, una cabina di proiezione e mille sedie sono gli elementi essenziali della sala cinematografica a cielo aperto che Livio Vacchini concepisce per la città di Locarno nella quinta architettonica di Piazza Grande in occasione del Festival internazionale del film del 1971.

Questo episodio rifondativo – dopo una fase iniziale nell’immediato dopoguerra in cui l’evento era ospitato nel parco del Grand Hôtel – e il divenire successivo, travagliato e frammentato in tante strutture provvisorie che hanno permesso il progressivo insediamento urbano del festival, culminante nel concorso e la realizzazione del nuovo Palazzo del cinema, sono affrontati in questo numero di Archi con particolare rigore storico. Nel corso degli anni le polemiche sono state parte inscindibile di questo iter progettuale, e anche sull’esito del concorso – ultimo capitolo che ha infine dato al festival una sede permanente – Archi presenta argomenti e motivazioni che hanno animato il dibattito locale, allargando lo sguardo alle peculiari modalità con cui il cinema ha registrato l’architettura e il territorio del Canton Ticino.

 

Note

  1. Salvatore Gelsi, Lo schermo dell’architetto, Modena 2007, p. 18, inoltre pp. 11-23.
  2. Francesco Rosi, Le mani sulla città, 1963.

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