Per una nuo­va uni­tà del­le ar­ti

Max Bill alle Triennali milanesi del 1936 e del 1951.

Data di pubblicazione
22-02-2023
Andrea Maglio
Prof. di Storia dell’architettura, UNINA Federico II

Architetto, grafico, designer, pittore e scultore, Max Bill (1908-1994) ha attraversato diverse stagioni della modernità compiendo percorsi talvolta eccentrici e sperimentando diverse modalità di approccio al progetto e all’atto creativo. Tale poliedricità – da Stanislaus von Moos accostata a un «universalismo leonardesco»1 – forse deriva già dalla sua frequentazione al Bauhaus come allievo tra il 1927 e il 1929: per non aver precedentemente terminato la Kunstgewerbeschule, non gli è consentito di frequentare il corso di architettura tenuto da Hannes Meyer e si trova quindi a seguire percorsi formativi differenti, come il laboratorio di metallo di Lázló Moholy-Nagy, oltre alle lezioni di Josef Albers, Oskar Schlemmer e dei pittori Vasilij Kandinskij e Paul Klee.2 La distanza da un percorso più canonico contribuisce sicuramente a determinare un approccio interdisciplinare al progetto e una spiccata versatilità negli ambiti di lavoro. La progettazione di allestimenti espositivi, altra attività in cui Bill raggiunge esiti di estremo interesse, costituisce in qualche modo una sintesi delle esperienze e delle abilità sviluppate in altri campi.

Appena ventottenne, nel 1936 Bill ottiene il suo primo incarico di rilevanza internazionale per l’allestimento del padiglione svizzero alla Triennale milanese. Per la prima volta si procede con un concorso – sulla base di uno schizzo – destinato a promuovere i talenti più giovani su specifica iniziativa del Bund Schweizer Architekten (BSA), l’associazione degli architetti svizzeri, e dello Schweizerischer Werkbund (SWB),3 nato nel 1913 sulla falsariga di quello tedesco, e a cui nel 1936 aderisce lo stesso Bill. Si tratta di esporre una serie molto diversa di prodotti quali ceramiche, gioielli, vasi, orologi, merci tessili, libri d’arte e lavori grafici. La scelta dei prodotti da esporre è delegata a una commissione apposita, ma con criteri affatto diversi da quelli delle precedenti esposizioni e lontani dai luoghi comuni sulla Svizzera: sulle pagine di «Das Werk», organo proprio del BSA e dello SWB, Egidius Streiff sottolinea come, poiché l’attenzione del visitatore dura al massimo un’ora e mezza, per imprimere nella memoria i prodotti sia necessario un allestimento essenziale ed efficace.4

Alla Svizzera è dedicato un ampio ambiente a pianta rettangolare con accesso dalla hall d’ingresso del Palazzo della Triennale. Bill realizza un primo vestibolo, dove campeggiano la scritta «Svizzera» su un pannello curvilineo al centro del percorso, la croce bianca su fondo rosso sulla parete destra e un mosaico fotografico di cinque metri con un’immagine delle Alpi dell’Engadina sulla parete che separa questo ambiente da quello in cui si articola la vera e propria esposizione. La sala espositiva è a sua volta suddivisa in tre parti tematiche – segnalate da altrettanti oggetti posizionati su un piedistallo situato strategicamente al centro di ogni area –, relative ad arti applicate, tipografia/fotografia e architettura. Si rifiuta l’idea del muro come supporto espositivo in favore di un sistema più articolato, composto da totem, vetrine, pannelli ed elementi sospesi. La sezione delle arti applicate è segnalata attraverso la prima versione della unendliche Schleife, il nastro senza fine,5 quella della tipografia con un incrocio tra le lettere «A» e «Z», e quella dell’architettura – significativamente – mediante un piano che interseca un diedro. Infine, in un ambiente separato a destra della parte espositiva, la sala di lettura costituisce il terzo spazio del padiglione, comprendente un tavolino disegnato dallo stesso Bill, una vetrina e sul fondo un dipinto astratto del lucernese Hans Erni.

Come è stato osservato, il progetto si basa su una dicotomia di fondo: da un lato lo spazio è del tutto permeabile alla vista grazie a elementi di densità differente e dall’altro gli stessi elementi definiscono un percorso preciso, in modo che gli assi visivi e il percorso di visita non corrispondano.6 La rarefazione degli elementi corrisponde senza dubbio alla necessità di concentrare l’attenzione sull’allestimento e sugli oggetti, evitando del tutto il rischio di un assemblaggio caotico e dispersivo. Emerge la radice legata alla formazione di Bill al Bauhaus, in particolare all’elementarismo propugnato da Hannes Meyer, Lázló Moholy-Nagy e Josef Albers, ma soprattutto alla lezione di Kandinskij. Possibili precedenti del suo lavoro per la Triennale milanese sono stati giustamente individuati nel Kabinett der Abstrakten di Lisickij a Hannover del 1927, nell’esposizione dei metalli non ferrosi (Nichteisen-Metalle) di Walter Gropius e Joost Schmidt a Berlino nel 1934 e nel lavoro di Edoardo Persico e Marcello Nizzoli per la Mostra dell’aeronautica italiana a Milano nel 1934,7 ma sicuramente va ricordato anche quello di Hannes Meyer per il padiglione elvetico dell’unione delle cooperative svizzere (VSK) all’Exposition Internationale de la Coopération et des l’Œuvres sociales del 1924 a Gand, in Belgio, pensato espressamente per «sfatare il mito della Svizzera come paese delle mucche, degli châlets, della cioccolata e delle ragazze in costume tradizionale».8 Peraltro, proprio questo allontanamento dal folklore svizzero riassume gli elogi prodotti da Mario Labò su «Casabella» per il padiglione di Max Bill.9 Alfred Roth, sodale del maestro svizzero e figura centrale del Werkbund, sosterrà in seguito che con l’allestimento del 1936 Max Bill aveva raggiunto il livello qualitativo dei grandi maestri come Lisickij e Moholy-Nagy.10

L’incontro con la cultura belga aveva determinato l’inizio di una nuova fase nella carriera di Meyer, che ne studierà la produzione artistica e architettonica; tra gli artisti più ammirati v’era stato Georges Vantongerloo, la cui formula [L²] = [S] / [L³] = [V] – con cui si indica il rapporto tra pittura e superficie e tra scultura e volume – era diventato il titolo di un articolo dedicato all’arte astratta sulla rivista «ABC» nel 1926.11 Se Meyer aveva cercato in Vantongerloo le relazioni numeriche che sottendono ai rapporti proporzionali nella geometria solida, ad esempio nella piramide, per legare le forme elementari a leggi matematiche, anche Max Bill è fortemente influenzato dal lavoro dello scultore belga a partire dall’incontro avvenuto a Parigi nel 1933. Proprio indagando il potenziale creativo delle leggi matematiche, Bill legherà gli ambiti dell’arte e della scienza tanto nella sua produzione artistica che in quella architettonica.

Il padiglione di Bill non denota solamente un’affinità con il geometrismo elementarista e con sistemi ordinatori matematici, ma corrisponde alla sua adesione alle idee dell’arte «concreta». Nello stesso 1936, infatti, l’artista svizzero espone alla Kunsthaus di Zurigo scrivendo sul catalogo un breve testo – unico insieme a quelli di Giedion e Le Corbusier – intitolato Konkrete Gestaltung:12 si tratta di una forma d’arte astratta, fondata sulla geometria e scaturita da leggi interne senza derivazione dalla natura, ossia in assenza di qualsiasi riferimento ai fenomeni sensibili e quindi senza alcun processo di astrazione progressiva. Lo spazio allestito alla Triennale milanese del 1936 nasce con l’obiettivo di trasporre in architettura le idee dell’arte concreta, la cui radice primaria è ancora l’opera di Kandinskij, anche attraverso il colore degli oggetti e delle strutture espositive, a contrasto con il bianco delle pareti.

Il secondo allestimento progettato da Bill per la Triennale milanese risale al 1951: nei quindici anni trascorsi dal suo precedente incarico è del tutto cambiato il contesto culturale di riferimento e la ricerca elementarista delle avanguardie pre-belliche si deve misurare con esigenze e condizioni radicalmente mutate. Lo stesso Bill è coinvolto nel programma di fondazione della Hochschule für Gestaltung di Ulm, poi inaugurata nel 1953, di cui sarà anche rettore, concepita per raccogliere l’eredità del Bauhaus con mezzi e obiettivi necessariamente diversi. Rispetto al lavoro del 1936, Bill ha maturato la consapevolezza dell’autonomia del progetto allestitivo, inteso come campo sperimentale per l’architetto, all’interno del quale la disciplina si ponga quale principio ordinatore di tutte le arti.13 Anzi, le diverse arti, pur sottoposte a un procedimento creativo comune, non devono raggiungere un’unità formale ma evidenziare invece una loro specificità, secondo il principio di «unità di metodo e pluralità di forma».14

Nel progetto per la Triennale milanese del 1951 Bill intende valorizzare i prodotti in mostra attraverso una lettura condotta come esperienza estetica, concentrando l’attenzione – come già nel precedente progetto milanese – su pochi elementi ben evidenziati. Poiché le sezioni straniere dell’esposizione sono ospitate in sale «a infilata», senza un disimpegno, a quella svizzera si accede direttamente da quella francese.15 Il primo problema consiste quindi nel rapporto tra percorso e spazio espositivo, risolto attraverso una divisione della sala in due parti, di cui una è un elemento di attraversamento adibito a sala di lettura e l’altra costituisce il vero e proprio spazio espositivo, più appartato e idoneo a fornire un’esperienza al visitatore. Quest’ultimo è infatti uno spazio cubico, buio, in cui emergono sette cilindri di differente dimensione, poggiati sul pavimento, alti un metro e illuminati dall’interno, che contengono gli oggetti esposti. Poiché i cilindri poggiano su una base di minore superficie, grazie alla penombra e alla luce dall’interno si ottiene l’effetto di strutture sospese a mezz’aria.

La pavimentazione riveste un’importanza decisiva, essendo costituita da lastre marmoree chiare di 1 x 0,5 metri con il lato maggiore parallelo al percorso nel vestibolo e ortogonale nella sala espositiva, quasi a suggerire il cambio di direzione. Alla griglia della pavimentazione, in maniera quasi miesiana, sono allineati i cilindri della sala così come gli elementi di arredo e le fotografie del vestibolo. Come è stato osservato, la fluidità e la libertà del percorso nella sala espositiva la differenziano nettamente sia dal progetto per la Triennale del 1936, organizzata su una sequenza logica predeterminata, che da quello per la mostra Die gute Form, tenutasi a Basilea nel 1949.16 In particolare, il progetto culturale della «buona forma» nasceva anche in relazione alla partecipazione di Max Bill alla Triennale del 1947, poi saltata per una serie di difficoltà organizzative. Non potendo avere l’incarico attraverso le istituzioni svizzere, insieme a Lanfranco Bombelli Tiravanti, Bill aveva fondato l’Institut für progressive Kultur, proponendo attraverso questo nuovo ente una mostra sulla «realtà nuova», capace di indagare il mondo delle forme negli ambiti di architettura, pittura, scultura, design e grafica. Anche qui Bill immaginava di suddividere lo spazio in tre ambienti distinti con funzione di vestibolo, esposizione e sintesi.17 Le riflessioni legate a questo programma culturale trovano un esito nel libro del 1952 Form. Eine Bilanz über die Formentwicklung um die Mitte des XX. Jahrhunderts.18

All’VIII Triennale del 1947 avrebbe dovuto partecipare un altro architetto svizzero, l’ex maestro di Bill, ossia Hannes Meyer, all’epoca residente in Messico insieme a diversi espatriati italiani, tra cui Albe e Lica Steiner, oltre a Mario Montagnana, cognato di Palmiro Togliatti. Inoltre egli è in contatto epistolare sia con il pittore e architetto Gabriele Mucchi, con cui stringerà una salda amicizia, che con Piero Bottoni, commissario straordinario per la T8. In particolare, Mucchi preme molto affinché Meyer possa partecipare all’evento, anche se sotto la bandiera del Messico invece che della Svizzera: infatti l’ex direttore del Bauhaus non vuole essere accomunato alla corrente dominante nell’arte svizzera dell’epoca, a suo dire rappresentata da Max Bill e Alfred Roth. Meyer considera Bill uno sterile imitatore di opere altrui, soprattutto di van Doesburg e degli artisti del neoplasticismo olandese, oltre che proprio di Vantongerloo, senza la profondità e la carica rivoluzionaria di questi ultimi. Bill e  Roth ignorerebbero del tutto i risvolti sociali ed economici legati ai ruoli di artista e architetto e sarebbero alfieri di una «neutralità politica deleteria agli occhi di chi ha fatto della battaglia ideologica un punto fermo della propria esistenza».19 Meyer ricorda anche quando, quale direttore del Bauhaus, nel 1930 aveva duramente stroncato un’esposizione di lavori di Bill che ricalcavano opere di Klee, degli espressionisti tedeschi e progetti architettonici funzionalisti di Stam e di Meyer stesso. Anche Mucchi – pittore rea­lista e politicamente schierato – esprime la sua avversione nei confronti di Bill e di tutta l’arte concreta, non solo per motivazioni di ordine ideologico ma anche strettamente disciplinare: «Klee è pittore, Bill è soltanto geometria».20 I «concreti» sarebbero grafici e architetti ma non pittori e nel corso di una conversazione privata Bill avrebbe ammesso a Gabriele Mucchi di produrre soprattutto «filosofia della pittura».21

Al di là di gusti e inclinazioni personali, emergono diverse concezioni dell’arte e dell’architettura moderna svizzera e di conseguenza, della rappresentazione del Paese nelle esposizioni nazionali e internazionali. Da tempo convertitosi al realismo, Hannes Meyer traspone l’abbandono dell’astrattismo nel campo dell’architettura attraverso una svolta regionalista, testimoniata dal Kinderheim di Mümliswil, presso Basilea, terminato nel 1939.22 Questo sembra essere un anno cruciale per il dibattito svizzero intorno ai temi dell’abitazione e del design, di cui la consapevolezza dell’approssimarsi della guerra determina un’accelerazione. Se in Italia il dibattito intorno alla Triennale si lega a quello della rappresentazione del nuovo impero fascista formalizzato proprio nel 1936, nel contesto svizzero il tema dell’identità – con accenti ovviamente diversi – è ugualmente sentito. Nonostante molti siano i difensori di un approccio più tradizionale, da alcuni l’allestimento di Bill è presentato come modello per le future esposizioni,23 in particolare per la Schweizerische Landesausstellung di Zurigo, la cosiddetta Landi 39: inizialmente pensata per il 1933 e poi realizzata sei anni dopo, essa tuttavia mostrerà, all’interno di una pluralità di modelli, un orientamento prevalente abbastanza diverso da quello di Bill, soprattutto con il villaggio tradizionale denominato Landidörfli.24

Nell’esposizione zurighese la tendenza regionalista è vista come possibilità per ridefinire nell’alveo della contemporaneità l’identità nazionale messa in pericolo dalla minaccia bellica, sebbene il Dörfli tradizionale coesista con modelli di case a tetto piano nel tentativo di superare il dissidio tra modernità e Heimatstil.25 Lo scritto del 1939, Vom Bauen und Wohnen, di Paul Artaria,26 fraterno amico di Meyer e in contatto con lui durante tutti gli anni del soggiorno messicano, getta le basi per questa nuova tendenza alla sintesi. In ogni caso, la posizione di Meyer e di alcuni suoi sodali rimane minoritaria, soprattutto per i problemi connessi alla sua militanza politica mentre, attraverso l’appoggio del Werkbund e del Bund Schweizer Architekten, Bill e Roth assumono una posizione centrale, quali alfieri di una modernità contrapposta alle posizioni dei tradizionalisti. La fase di riflusso cominciata con la Landi 39 segna anche nell’opera di Bill un parziale ripensamento, del tutto assente nel lavoro per la Triennale del 1951. Questo appare tanto più significativo in considerazione del tentativo attuato da Bill nel 1949 di associare l’attività del Werkbund alle esigenze dello Heimatstil sostenendo come la bellezza degli oggetti sia strettamente legata all’uso pratico che se ne fa, come viene chiaramente espresso attraverso il concetto – e l’esposizione – sulla «buona forma» (Die gute Form).27

Si può concludere che Bill come designer sia meno radicale che come architetto, pittore, scultore e allestitore e che, nonostante inaspettati rivolgimenti e disallineamenti del dibattito svizzero negli anni Trenta, il suo lavoro rimanga sostanzialmente coerente, ad esempio nella ricerca sull’arte concreta, sulla «buona forma» e sul rapporto tra forma e materiale. Tale coerenza può essere ravvisata anche negli allestimenti, nonostante la diverse scelte nella disposizione dello spazio – dovute anche alle diverse sale assegnate alla Svizzera – e nonostante criteri antitetici per la presentazione degli oggetti: una coerenza evidente soprattutto nella smaterializzazione delle strutture, nella concentrazione in pochi elementi e nella necessità di organizzare sotto il controllo dell’architettura le altre forme d’arte. D’altronde, l’organizzazione della Triennale del 1951, come lo stesso Bill sottolinea al convegno De divina proportione, avviene sotto l’esigenza di una nuova unità tra le arti,28 esigenza già ribadita anche nel CIAM di Bergamo svoltosi solo due anni prima, a cui avevano partecipato sia Max Bill che Gabriele Mucchi. Meglio di altri, forse è l’amico Ernesto Nathan Rogers a sintetizzare tale predisposizione, intitolando un suo scritto Unità di Max Bill e paragonando il maestro svizzero questa volta a Michelangelo: «Bill continua la tradizione degli umanisti […], è architetto quando si occupa di architettura, oppure quando disegna un oggetto d’uso (una seggiola, una spazzola), egli è tipografo quando prepara un libro per la stampa, egli è infine pittore o scultore quando crea una plastica o un quadro. Egli è dunque in ogni caso ciò che gli impone di essere l’oggettività delle sue ricerche».29

Note

 

1 S. von Moos, Il bello come funzione. A proposito di Max Bill, «Rassegna», 62, 1995, dedicato a La forma dell’utile. Il disegno razionale svizzero, pp. 69-72: 69.

 

2 J. Bill, Max Bill am Bauhaus, Benteli Verlag, Bern 2008, p. 7.

 

3 E. Streiff, Die Schweizer Abteilung an der Triennale in Mailand 1936, «Das Werk», 8, 1936, pp. 245-246 e 252-255. Si veda anche P. Meyer, Notizen von der VI. Triennale Mailand, «Das Werk», 10, 1936, pp. 312-315. La rivista «Das Werk» era stata fondata nel 1914 proprio dal BSA e dallo SWB: cfr. «Archithese», 5,1994, monografico su Das Werk 1914-1942.

 

4 E. Streiff, Die Schweizer Abteilung, cit., p. 245.

 

5 Successivamente Bill realizzerà diverse sculture riprendendo l’idea della unendliche Schleife, corrispondente a quello che oggi è chiamato anche il nastro di Möbius, dal nome del matematico tedesco che lo aveva concepito e che tuttavia Bill probabilmente non conosceva. La prima di queste sculture, realizzata dal 1935 al 1937 e collocata a Zurigo, è stata smantellata nel 1948.

 

6 R. Fabbri, Max Bill. Espaces, Infolio, Gollion 2017, p. 53.

 

7 Ivi, pp. 54-55

 

8 H. Meyer, Das Theater Co-op, «Das Werk», 12, 1924, pp. 329-332: 329.

 

9 M. Labò, Le sezioni straniere alla VI Triennale di Milano, «Casabella », 104, 1936, p. 12.

 

10 A. Roth, Die neue Architektur 1930-1940, Girsberger, Zürich 1975 (nuova edizione), pp. 174-178.

 

11 H. Meyer, Abstrakte Kunst, Sondernummer von «ABC. Beiträge zum Bauen», 2, 1926; A. Maglio, La rivista ‘ABC’ (1924-1928): arte, architettura e internazionalismo nell’avanguardia svizzera, in S. Santini, L. Mozzoni (a cura di), Architettura dell’eclettismo. Il rapporto con le arti nel XX secolo, Liguori, Napoli 2008, pp. 177-194.

 

12 M. Bill, Konkrete Gestaltung, in Zeitprobleme in der Schweizer Malerei und Plastik, catalogo dell’esposizione, Kunsthaus Zürich, 13 giugno-22 luglio 1936, pp. 9 e 16. La parola Gestaltung, che denota il processo di produzione della forma, verrà in seguito sostituita con Kunst (arte). Si veda anche H. Frei, Konkrete Architektur? Über Max Bill als Architekt, Lars Müller, Baden 1991.

 

13 M. Bill, Ausstellungen. Ein Beitrag zur Abklärung von Fragen der Ausstellungs-Gestaltung, «Das Werk», 3, 1948, pp. 65-71.

 

14 S. von Moos, Minimal Tradition. La presenza di Max Bill, in Identità differenze. Triennale di Milano, 19° esposizione internazionale: integrazione e pluralità nelle forme del nostro tempo. Le culture tra effimero e duraturo, Electa, Milano 1996, pp. 224-229: 226.

 

15 R. Fabbri, Max Bill in Italia. Lo spazio logico dell’architettura, Mondadori, Milano-Torino 2011, pp. 103-116.

 

16 A. Roth, Der Schweizer Pavillon an der 9. Triennale in Mailand 1951, «Das Werk», 38, 1951, pp. 266-268. Cfr. anche R. Fabbri, Max Bill in Italia, cit., p. 114.

 

17 R. Fabbri, Max Bill in Italia, cit., pp. 49-59.

 

18 M. Bill, Form. Eine Bilanz über die Formentwicklung um die Mitte des XX. Jahrhunderts / A Balance Sheet of Mid-Twentieth-Century Trends in Design / Un Bilan de l’Evolution de la Forme au Milieu du XXe Siècle, Karl Werner, Basel 1952.

 

19 Lettera di Hannes Meyer a Gabriele Mucchi, 20 febbraio 1947, Deutsches Architekturmuseum, Frankfurt [82/1-871 (4)]

 

20 Lettera di Gabriele Mucchi a Albe e Lica Steiner, allegata a una lettera a Hannes Meyer, 10 febbraio 1947 [Archivio privato Mucchi]. Mucchi scrive anche che «sostituire la figura umana con le forme geometriche non significa eliminare il “soggetto” che forse l’arte astratta potrebbe eliminare […] La “costruzione” di un quadro (sezione aurea, ecc.) è cosa nota fin dagli antichi: errore è far diventare fine quello che è soltanto un mezzo […].  La reazione [dei “concreti”] contro il facilismo, il pittoricismo, l’improvvisazione in arte è molto morale. Però lo è troppo: è moralistica, e nel moralismo c’è qualcosa di antiumano e anticostruttivo. […] Sono un peccatore e perciò non sono un moralista, però intuisco con orrore i peccati dei moralisti».

 

21 Ivi.

 

22 Cfr. A. Maglio, Hannes Meyer. Un razionalista in esilio. Architettura, urbanistica e politica 1930-1954, Franco Angeli, Milano 2002, pp. 63-70; Id., Escape from Avant-garde: Architecture and Landscape in Hannes Meyer’s Kinderheim in Mümliswil (1938-39), in D. Arredondo Garrido et al. (a cura di), Arquitectura y paisaje. Transferencias históricas retos contemporáneos, vol. II, Abada, Madrid 2022, pp. 1075-1086.

 

23  P. Meyer, Notizen von der VI. Triennale Mailand, cit.

 

24 La quarta Schweizerische Landesausstellung doveva tenersi nel 1933, ma viene poi spostata al 1936, poi al 1938 e infine effettivamente allestita nel 1939. Sulla storia degli allestimenti e dei padiglioni svizzeri alle esposizioni internazionali tra le due guerre, cfr. I. Allas, G. Bosoni, Il progetto Svizzera nelle esposizioni internazionali (1924-1939), «Rassegna», 62, 1995, pp. 32-39.

 

25 O. Birkner, Die gute Form. Un modello per la borghesia, «Rassegna», 62, 1995, pp. 20-25.

 

26 P. Artaria, Vom Bauen und Wohnen. Ein Bilderbuch für Laien und Fachleute, Wepf und Co., Basel 1939.

 

27 M. Bill, Schönheit aus Funktion und als Funktion, «Das Werk», 8, 1949, pp. 272-282.

 

28 De divina proportione è il convegno organizzato in occasione della IX Triennale del 1951, cui partecipano tra gli altri Le Corbusier, Sigfried Giedion, Georges Vantongerloo, Ernesto Nathan Rogers e Rudolf Wittkower, oltre a Max Bill, che invoca proprio «una nuova unità tra le arti»: M. Bill, L’uomo e lo spazio, in A. C. Cimoli, F. Irace (a cura di), La divina proporzione. Triennale 1951, Electa, Milano 2007, pp. 114-115.

 

29 E. N. Rogers, Unità di Max Bill, in E. Gomringer (a cura di), Max Bill, Niggli, Teufen 1958, p. 55.

Articoli correlati