Tra pia­no e pro­get­to: la lun­ga du­ra­ta di un di­bat­ti­to

Data di pubblicazione
07-12-2021

Dopo diversi anni di applicazione in molti cantoni svizzeri, la nuova procedura dei MSP1 ha dimostrato grandi vantaggi rispetto a procedure concorsuali più tradizionali. In particolare laddove i programmi funzionali e i contesti appaiono particolarmente complessi, non è solo la messa in concorrenza di più gruppi di progettazione ad aumentare il ventaglio delle soluzioni proposte, come avviene nei normali concorsi, ma è soprattutto la relazione dialogica tra progettisti e committenza – rappresentata dal «collegio di esperti» – che consente di arricchire il quadro conoscitivo e il dibattito in modo da delineare con maggiore precisione e concretezza il futuro percorso di progettazione e realizzazione degli interventi. Questa procedura invita a ripensare non solo il ruolo degli architetti come progettisti «generalisti» all’interno di gruppi di lavoro necessariamente multidisciplinari, ma anche la loro missione di intellettuali critici nel lavoro di valutazione del collegio di esperti, che deve non solo scegliere, ma anche restituire con la massima trasparenza le ragioni che hanno portato a privilegiare determinate soluzioni. Tra gli aspetti più interessanti emersi riguardo ai mandati citiamo il rinnovato dialogo tra architetti e pianificatori, con il superamento di antiche diffidenze, ma anche la prospettiva di nuove forme di collaborazione con discipline specialistiche, come nel campo dell’ingegneria.

In Canton Ticino i primi incoraggianti risultati dimostrano che le condizioni sono ormai mature per una maggiore implicazione degli architetti nei processi di pianificazione territoriale e urbana, non solo come progettisti ma anche con la speranza che una nuova generazione di validi professionisti possa agire all’interno dell’amministrazione pubblica. Quasi cinquant’anni sono stati necessari per iniziare a superare quella gestione burocratica e astratta della pianificazione territoriale che Luigi Snozzi aveva denunciato durante la sua attività nella Commissione delle Bellezze Naturali del Canton Ticino. Nella sua posizione di critica di minoranza, Snozzi aveva potuto constatare l’impotenza degli strumenti urbanistici vigenti riguardo al controllo della qualità architettonica degli interventi, denunciando l’uso perverso di criteri puramente estetici di giudizio, e adoperando successivamente l’arma critica del «controprogetto» per dimostrare la possibilità di soluzioni alternative da opporre ai progetti presentati alla Commissione, come avvenne per esempio con la mirabile controproposta per il porto e la casa d’appartamenti a Brissago (1972).

Le battaglie donchisciottesche di Snozzi non sono state quindi inutili se oggi si apre una nuova stagione di concorsi basata sul dialogo tra progettisti, pianificatori e amministratori pubblici. Come vedremo in questo breve saggio, molte questioni poste da questa nuova procedura rimandano a momenti importanti del dibattito internazionale degli anni Ottanta e Novanta che hanno profondamente modificato le relazioni tra pianificazione e architettura, anche grazie a esperienze innovative nel rapporto tra progettisti e amministrazione pubblica.

Il dibattito italiano attorno a Vittorio Gregotti

Ogni discussione sul ruolo del progetto di architettura nella pianificazione urbanistica non può ignorare il ruolo fondamentale giocato dal pensiero critico di Vittorio Gregotti, che già nelle pagine lucide e visionarie del suo primo libro Il territorio dell’architettura (1966) aveva tracciato un programma di lavoro che avrebbe influenzato per più di quarant’anni, ma anche profondamente rinnovato, il dialogo tra architetti e urbanisti.2 Molte questioni oggi al centro delle pratiche pianificatorie presentate in questo numero di Archi furono dibattute all’inizio degli anni Ottanta, in particolare sulle pagine della rivista «Casabella», diretta dallo stesso Gregotti (dal 1982 al 1996), che aprì un dialogo serrato con l’urbanista Bernardo Secchi (poi direttore della rivista «Urbanistica» dal 1985 al 1990). Nell’editoriale del primo numero doppio della rivista, dal titolo L’architettura del piano, Gregotti affermò la necessità per l’architettura e l’urbanistica di trovare «una nuova base di colloquio. […] È solo con l’architettura che le parole dell’urbanista possono diventare pietre, ma è solo a partire dalle pietre dell’architettura che è possibile fare dell’urbanistica una disciplina della modificazione qualitativa del territorio».3 Al di là di questa suggestiva metafora, l’appello di Gregotti riguardava anzitutto un invito agli architetti ad agire direttamente nell’attività di pianificazione, quindi a monte di ogni progettazione di singoli edifici, ponendo al centro dell’attenzione il tema del «disegno urbano» come atto di formalizzazione concreta delle indicazioni del piano. In conclusione dello stesso editoriale, Gregotti ricordava come fosse necessario «utilizzare il progetto di architettura come vera e propria verifica del piano nel suo farsi», perché l’architettura è «l’unica misura finale della qualità del piano, della sua effettiva capacità di costruire un ambiente migliore e più ampiamente significativo».

Negli stessi anni la cultura progettuale europea aveva visto affermarsi una rinnovata attenzione per i concetti di luogo, di modificazione, di contesto, di ricostruzione, con alcune posizioni anche radicali contro il «funzionalismo volgare» e contro il paradigma della «crescita infinita», imponendo a poco a poco l’idea di dover dare priorità alla riqualificazione della città consolidata (sia nei centri storici che nelle periferie). In Italia furono sperimentati nuovi strumenti che insistevano sulla necessità di associare alle ipotesi di piano una definizione più precisa della morfologia e dell’immagine architettonica dei tipi di intervento previsti. Per caratterizzare questi nuovi modi di concepire i processi di pianificazione, Bernardo Secchi4 e Giuseppe Campos Venuti proposero il termine di «urbanistica della terza generazione», affermando con questo il deciso superamento della precedente generazione di «Piani regolatori generali» che intendevano regolare una crescita omogenea su tutto il territorio comunale. Questi nuovi piani furono definiti da Campos Venuti come «strumenti di una “azione differenziata”, cioè indirizzata con intensità diseguale sui diversi contesti del territorio comunale. I nuovi piani indicano esplicitamente quali funzioni e aree assumeranno una funzione strategica nella trasformazione del sistema urbano».5

Tra questi piani «di terza generazione», quello per Torino progettato da Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi rimane probabilmente quello più esemplare sia per l’innovazione metodologica, sia per gli effettivi risultati ottenuti nella rinascita della capitale piemontese in seguito alla sua profonda crisi di deindustrializzazione.6 Iniziato nel 1986 ma approvato solo nel 1995, il Piano di Torino rilanciò anche un’idea forte di pianificazione guidata dalla mano pubblica dopo anni di «urbanistica contrattata», con la decisione primaria di interrare la ferrovia e di formalizzare in un grande disegno urbano l’idea delle «spine» come assi strategici per riqualificare l’enorme quantità di aree industriali dismesse e creare la nuova ossatura degli spazi pubblici.7 Il Piano di Torino fu anche esemplare per la gestione del dibattito pubblico e per l’imponente lavoro di ricerca prodotto dal gruppo decisamente multidisciplinare dei consulenti: in dialogo con Gregotti e Cagnardi lavorarono infatti non solo urbanisti (Leonardo Benevolo e Bernardo Secchi), ma anche sociologi (Guido Martinotti), geografi (Giuseppe De Matteis), economisti (Franco Momigliano), filosofi (Gianni Vattimo) e ingegneri dei trasporti (Guglielmo Zambrini).

L’architetto come politico: le esperienze rivoluzionarie nella Spagna post-franchista

Negli stessi anni Ottanta la Spagna diventò rapidamente un modello di riferimento per pratiche di pianificazione urbanistica guidate da architetti, con profonde innovazioni non solo nella relazione tra architetti e urbanisti, ma anche e soprattutto nella relazione tra progettazione e azione politica. Nel clima rivoluzionario immediatamente successivo alla morte di Franco (1975), una prima significativa riforma riguardò la fine del centralismo esasperato dell’apparato statale franchista e l’affermazione delle autonomie locali, con un ruolo rinnovato del potere dei municipi. Per prime, Madrid e Barcellona avviarono politiche urbanistiche innovative con un architetto alla guida dell’Assessorato all’Urbanistica. Professore al Politecnico di Madrid e militante del Partito comunista spagnolo, Eduardo Mangada fu nominato nel 1979 assessore all’Urbanistica e tra le maggiori innovazioni propose di individuare cinquanta luoghi strategici della città nei quali singoli architetti furono invitati a progettare «50 idee per recuperare Madrid». Elaborati in soli quindici giorni, questi progetti non furono pensati per ottenere risultati concreti, ma proposti come veri e propri strumenti di conoscenza, evidenziando problemi e temi che sarebbero successivamente potuti diventare interventi di architettura urbana.8 Si trattava quindi di una metodologia rivoluzionaria che invertiva la tradizionale consequenzialità tra piano urbanistico e progetto architettonico. Il progetto di architettura fu concepito da Mangada come un vero e proprio «strumento di pianificazione», e non come l’illustrazione a posteriori di una decisione urbanistica.

Progettare per conoscere e per descrivere i problemi, quindi, in modo da strutturare successivamente la formazione del piano: si tratta di un procedimento che ricorda per certi aspetti la strategia seguita da Luigi Snozzi nel suo lavoro nella Commissione delle Bellezze Naturali del Canton Ticino quando elaborava «controprogetti» di architettura per dimostrare l’astrazione di certe regole pianificatorie definite a priori e poco attente all’identità dei luoghi.

Mentre l’esperienza di Mangada alla guida dell’Urbanistica di Madrid si interruppe dopo solo due anni, a Barcellona Oriol Bohigas riuscì a sviluppare un’azione durevole, prima come assessore all’Urbanistica (1980-84), poi nel coordinamento di alcuni tra i più significativi progetti di trasformazione urbana per i Giochi Olimpici del 1992. Forte del suo carisma intellettuale di professore e preside della Facoltà di architettura, Bohigas chiamò attorno a sé nell’Ufficio del Piano un gruppo di talentuosi neolaureati, successivamente chiamati «Lápices de Oro» (matite d’oro), individuando più di cento luoghi problematici nei quali intervenire prioritariamente.9 Come prima Mangada, anche Bohigas decise di operare in modo rapido e concreto, assegnando i progetti con incarichi diretti o mediante concorsi di architettura, e cercando di attuare in tempi veloci interventi di riqualificazione dello spazio pubblico nei luoghi più degradati del centro storico e della periferia.10 Anche in questo caso, dare priorità a interventi architettonici concreti, luogo dopo luogo, non significava porre in antagonismo piano e progetto, bensì rispondere alla necessità di avviare contemporaneamente azioni di trasformazione immediata – garantendo alla cittadinanza piazze, spazi verdi, strade pedonalizzate laddove mancavano – e processi di pianificazione più complessi e con tempi di realizzazione più lunghi, soprattutto per opere riguardanti grandi infrastrutture e la rigenerazione di enormi aree industriali dismesse, per le quali la candidatura olimpica rappresentò un fattore di straordinario stimolo e accelerazione. A distanza di quasi quarant’anni, l’esperienza di Barcellona rimane esemplare per il modo in cui una nuova generazione di architetti allora giovanissimi fu chiamata a intervenire con straordinario entusiasmo, fornendo le basi per una rinascita urbana che tuttora continua a sorprendere.

Il ruolo politico del progetto: il «Salzburg-Projekt»

Diversamente dai normali concorsi di progettazione dove la giuria deve effettuare un lavoro di critica comparativa per deliberare quale sia il progetto vincitore, nella procedura dei MSP il lavoro del collegio di esperti si svolge in modo dialogico, con l’interessante possibilità di chiedere modifiche e di far cambiare alcuni contenuti programmatici in seguito alle prime fasi di progettazione. Questo modo di procedere, aperto e flessibile, presuppone che gli esperti debbano non solo valutare, ma anche suggerire e mediare, allo scopo di ottenere la migliore soluzione in termini di vantaggi per la collettività. Contro una concezione meramente tecnocratica e positivista della pianificazione, invitare più architetti a dibattere diverse soluzioni davanti a un collegio di esperti in rappresentanza del potere politico significa privilegiare il ruolo investigativo ed «esplorativo» del progetto rispetto al suo ruolo normativo. Tutto ciò obbliga a interrogarci anche sul ruolo politico del progetto agli occhi dell’opinione pubblica,11 più che sul ruolo politico degli architetti, come abbiamo visto precedentemente con gli esempi di Eduardo Mangada a Madrid e di Oriol Bohigas a Barcellona. Un pioniere in questa riflessione critica sul ruolo politico del progetto fu sicuramente Johannes Voggenhuber a Salisburgo, eletto nel 1982 alla testa di una lista civica con un programma di opposizione radicale a «grandi progetti» distruttivi. Come assessore all’Urbanistica iniziò a delineare un rivoluzionario «Salzburg-Projekt», riformando profondamente la politica di trasformazione urbana e privilegiando progetti di qualità12 attraverso l’uso sistematico di concorsi di architettura, con l’invito di numerosi architetti stranieri e la costituzione di un gruppo di esperti riuniti in un Gestaltungs­beirat (comitato consultivo per la forma urbana).

I poteri di questo comitato erano molto ampi: non solo gli si chiedeva di esprimere un giudizio critico su progetti urbanistici e architettonici già avviati dalla precedente amministrazione pubblica ma successivamente interrotti perché giudicati di scarsa qualità, ma anche e soprattutto un’azione proattiva per suggerire nuovi concorsi e la lista degli architetti da invitare. Con pochi membri e sempre con una maggioranza di architetti, il Gestaltungsbeirat fu istituito nel 1983 con la presidenza di Wilhelm Holzbauer e la partecipazione di Gino Valle, unico membro straniero, e di Friedrich Achleitner, allora il più importante storico e critico dell’architettura contemporanea in Austria. Nel 1986 Luigi Snozzi fu scelto come nuovo presidente e subentrarono Adolf Krischanitz e Adolfo Natalini. Successivamente furono invitati nella commissione altri architetti svizzeri, tra cui Ernst Gisel (1988-1991), Marie-Claude Bétrix (1994-1997), Annette Gigon (1997-2000), Flora Ruchat-Roncati (2002-2003), mentre in tempi recenti è stato presidente Walter Angonese (2015-2018), professore e attualmente direttore dell’Accademia di Mendrisio. Le attività più radicali coincisero con il mandato di Voggenhuber, che adottò posizioni intransigenti in difesa del bellissimo progetto di Álvaro Siza per il Casino Winkler, respinto in un referendum che impedì allo stesso Voggenhuber di ripresentarsi nel 1987 alle successive elezioni comunali.

Alcune tra le maggiori innovazioni riguardavano le modalità di presentazione e discussione dei progetti in sedute plenarie con il pubblico, con l’intenzione di ottenere una maggiore trasparenza nei processi decisionali, ma anche di contribuire ad aumentare la consapevolezza dei cittadini in termini di pianificazione e progettazione. Questa volontà di improntare il lavoro degli esperti su una totale trasparenza e democratizzazione fu successivamente aspramente criticata, in particolare dagli Ordini professionali, che imposero una maggiore segretezza nelle deliberazioni delle giurie. Malgrado queste limitazioni, l’esperienza pionieristica di Salisburgo fece scuola e fu ripresa prima in piccole città come Linz, Lauterach, Wels, Krems, poi, in tempi recenti, nelle più importanti città austriache (Vienna, Innsbruck, Klagenfurt, Graz).

Architetti urbanisti o architetti paesaggisti? – L’approccio francese

Gli anni Ottanta sono stati importanti non solo per l’intensità del dibattito culturale tra architetti e urbanisti e per l’esemplarità di politiche e pratiche urbanistiche innovative che abbiamo precedentemente discusso nei casi di Madrid, Barcellona e Salisburgo. In quel periodo la crescente importanza attribuita ai temi ambientali, ai cambiamenti climatici, alle questioni di sostenibilità e di risparmio energetico, ma anche alla riqualificazione degli spazi aperti,13 ha progressivamente contribuito a promuovere un rinnovato ruolo degli architetti paesaggisti. Nel caso precedentemente discusso della Spagna, il paese non possedeva una propria tradizione di educazione disciplinare specifica, e fu quindi la concreta necessità di realizzare spazi pubblici di qualità a stimolare l’auto-formazione di giovani architetti come Elias Torres e Eduard Bru, che man mano con le prime realizzazioni furono riconosciuti per l’espressione di una nuova sensibilità paesaggistica. Il caso della Francia è diverso, con la creazione nel 1976 dell’École nationale supérieure de paysage a Versailles, che contribuì alla formazione di una nuova generazione di paesaggisti, chiamati a intervenire sempre più spesso in progetti urbani e in progetti infrastrutturali a scala territoriale. La riflessione dei paesaggisti francesi sui temi della lunga durata, della relazione tra città e territorio, del progetto di trasformazione dei luoghi a partire da una lettura geografica e storica, incrocia molti temi e questioni espresse anni prima da Vittorio Gregotti in Il territorio dell’architettura (1966), mentre il loro ruolo pubblico tende sempre di più a sovrapporsi a quello dell’urbanista. Non è infatti un caso se già in tre occasioni il prestigioso Grand Prix de l’urbanisme – il massimo riconoscimento in Francia – è stato attribuito a un paesaggista: nel 2000 ad Alexandre Chemetoff, nel 2003 a Michel Corajoud (che l’aveva formato all’École di Versailles), nel 2011 al più giovane Michel Desvigne (anche lui discepolo di Corajoud). Alla promozione del ruolo dei paesaggisti in Francia ha dato un significativo contributo Renzo Piano, sia nel coinvolgere l’allora giovanissimo e sconosciuto Desvigne nell’esemplare isolato residenziale di rue de Meaux a Parigi (1989-1992) e, negli stessi anni, nel progetto per il parcheggio alberato dell’Usine Thomson a Guyancourt, sia nel progettare con Michel Corajoud la Cité Internationale di Lione (1986-2006).

Concepito come la porta nord-est della città, in un sito prestigioso lungo la curva del Rodano a diretto contatto con il Parco della Tête d’Or, il nuovo quartiere coordinato da Piano deve molto all’intuizione paesaggistica di Corajoud, che riuscì a imporre la radicale trasformazione dell’autostrada urbana che correva lungo le rive del fiume in un «boulevard urbano», alberato e con traffico rallentato.

In anni più recenti il progressivo spostamento del lavoro dei paesaggisti sui terreni della pianificazione urbanistica è stato riconosciuto dalla cultura progettuale statunitense con il termine Landscape Urbanism, oggetto di un ampio dibattito internazionale promosso in particolare dall’architetto Charles Waldheim14 e dal paesaggista James Corner, che va a caratterizzare teorie e pratiche sistemiche all’intersezione tra paesaggismo, progettazione urbana e architettura: un termine volentieri riconosciuto anche da Michel Desvigne negli anni che lo hanno visto insegnare come professore invitato alla Harvard Graduate School of Design.

Anche nelle esperienze recenti di pianificazione urbanistica in Svizzera la figura del paesaggista è sempre più spesso richiesta nella composizione dei gruppi di progettazione multidisciplinare che partecipano ai MSP. Tra i migliori esempi di questa fruttuosa collaborazione tra architetti e paesaggisti occorre citare il bellissimo progetto selezionato per lo sviluppo del Piano direttore comunale di Mendrisio (architetti LRS architectes, paesaggisti Atelier Descombes Rampini), fondato sulla forte idea paesaggistica di rinaturalizzare e valorizzare il fiume Laveggio come asse strutturante del progetto urbano.15

In conclusione, appare importante valutare caso per caso se la procedura dei MSP abbia effettivamente modificato le relazioni tra pianificazione e architettura. Mentre nel caso dell’esempio virtuoso di Mendrisio la procedura è stata legittimamente usata per aiutare a prefigurare una visione complessiva della trasformazione territoriale, in altre situazioni esiste il serio rischio di una eccessiva frammentazione degli interventi. Come affermava Vittorio Gregotti nel suo editoriale del 1983, il progetto di architettura deve essere usato come una «vera e propria verifica del piano nel suo farsi». Rimane tuttavia una domanda di fondo, oggi più che mai attuale: chi fa il piano? È mia convinzione che tuttora rimanga necessaria una forte capacità di regia pubblica degli interventi, in modo da porre la pianificazione comunale e cantonale in relazione con la progettazione architettonica e paesaggistica: una regia per la quale gli architetti dovrebbero impegnarsi non solo come progettisti, ma anche forse con un rinnovato ruolo politico.

Note

 

1 Cfr. Regolamento dei mandati di studio paralleli d’architettura e d’ingegneria, Norma SIA 143, 2009.

 

2 V. Gregotti, Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 1966.

 

3 V. Gregotti, L’architettura del piano, «Casabella», gennaio-febbraio 1983, nn. 487-488, pp. 2-3.

 

4 B. Secchi, Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino 1989.

 

5 G. Campos Venuti, La terza generazione dell’urbanistica, Franco Angeli, Milano 1987, p. 46.

 

6 Torino. Il PRG dieci anni dopo, «Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», marzo-aprile 2008, nn. 1-2.

 

7 A.-P. Pola, A. Magrin, Torino 1987-1995. Un palinsesto per la modificazione, in B. Albrecht, A. Magrin (a cura di), Esportare il centro storico, Triennale di Milano, Milano 2015, pp. 226-232.

 

8 S. Boeri (a cura di), Recuperare Madrid, «Casabella», gennaio-febbraio 1983, nn. 487-488, pp. 72-81.

 

9 A. Scarnato, Top Model Barcellona. 1979-2011, Un racconto urbano tra architettura, politica e società, Altralinea Edizioni, Firenze 2015.

 

10 O. Bohigas, Ricostruire Barcellona, ETAS Libri, Milano 1991.

 

11 C. Macchi Cassia, Il grande progetto urbano. La forma della città e i desideri dei cittadini, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991.

 

12 R. Capezzuto, M. Lupano (a cura di), Salisburgo la verde, Electa, Milano 1993.

 

13 Il disegno degli spazi aperti, «Casabella», gennaio-febbraio 1993, nn. 597-598.

 

14 C. Waldheim (a cura di), The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York 2006.

 

15 Cfr. Il modello pianificatorio della nuova Mendrisio, «Archi», 6, 2018.

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