Tra me­mo­ria e pro­get­to

Alla ricerca di nuovi significati per l’architettura alpina

Data di pubblicazione
11-12-2023
Roberto Dini
arch. PhD, professore associato DAD-Politecnico di Torino

L’eredità alpina

Quando ci si approccia al tema del costruire in montagna, inevitabilmente il pensiero si allarga a una dimensione ben più ampia che a quella del solo oggetto architettonico, non solo in termini di scala ma anche in relazione alla matericità degli eterogenei elementi che compongono i paesaggi alpini. Le rappresentazioni stesse delle Alpi come paesaggio culturale o come palinsesto,1 riferite al contesto alpino storico, rimandano a un’immagine più elaborata che vede la montagna stessa come un’architettura costruita, in cui nel susseguirsi del tempo si è venuta a creare una profonda integrazione tra ambiente, geomorfologia ed elementi antropici.

Osservando le forme del paesaggio alpino vernacolare, precedente alla modernità, si può notare come edifici e ambiente siano profondamente interconnessi. Si tratta di insediamenti che nascono dal territorio in una forte simbiosi con la tettonica del sito: il suolo, le rocce, i rilievi sono ciò che chiameremmo oggi «materiali di progetto», elementi essenziali nell’organizzazione degli spazi e nella strutturazione del costruito. L’organizzazione logica degli spazi, la razionalità di ogni scelta costruttiva, l’utilizzo intelligente di materiali reperiti in loco hanno dato vita ad architetture che sono diventate un tutt’uno con il suolo e con il paesaggio. L’azione stessa del costruire era il frutto di misura, necessità, intelligenza in quanto richiedeva una saggia e consapevole ottimizzazione delle risorse e dei gesti. I vincoli imposti dalla disponibilità limitata di materiali, dalle qualità tecnologiche degli stessi, dai limiti muscolari di uomini e bestie, dalle caratteristiche orografiche e ambientali, suggerivano una «giusta misura» che sottendeva costantemente alla realizzazione dei manufatti edilizi e infrastrutturali.

Oggi più che mai non si deve però anacronisticamente assurgere la «razionalità» dell’architettura spontanea del passato a principio legittimante il costruire in un determinato contesto geografico.2 Ben lungi dal supporre che esista un’architettura alpina intesa come «secrezione naturale del paesaggio e delle genti e (…) del contesto montano»,3 è invece più pertinente pensare al progetto di architettura nel contesto alpino come a un modus operandi che muove dalla traduzione sul piano fisico delle condizioni geografiche, sociali, culturali ed economiche di un dato territorio, attraverso soluzioni insediative e costruttive peculiari, ma secondo un processo mai lineare di circolazione di modelli, riferimenti e linguaggi.

Non a caso, nel corso del Novecento, questi stessi territori si trovano a essere il luogo ideale in cui misurare il rapporto tra modernità, architettura, paesaggio, preesistenze, regionalismi, diventando un «osservatorio privilegiato» da cui comprendere e ridiscutere le ragioni di un razionalismo corrente sempre più atopico e da cui avviare riflessioni su «quale innovazione poteva considerarsi legittima in un pae­saggio antropizzato».4 Si pensi alle tematiche emerse nei convegni di architettura montana di Bardonecchia svolti tra il 1952 e il 1956,5 che sono stati un momento centrale in cui si «affrontano infatti i temi dell’architettura e delle modificazioni dello spazio montano in rapporto al paesaggio storico prima che prenda avvio il dibattito disciplinare».6

Il dibattito del come costruire nel costruito sembra dunque essere fin dalle origini della modernità una peculiarità vitale per coloro che, studiosi e progettisti, hanno lavorato in montagna. Allo stesso tempo appare inoltre evidente come per eredità alpina non si intenda solo il patrimonio nel senso fisico e statico di manufatti, opere, infrastrutture che hanno plasmato nei secoli la montagna, ma soprattutto quel bagaglio di culture, conoscenze, approcci e dispositivi progettuali «attivi» che hanno consentito di volta in volta alle comunità che la abitano di relazionarsi in modo consapevole con il territorio e di reinventarsi, adattandosi con repentinità agli scenari del cambiamento.

Oltre la dicotomia modernizzazione - abbandono

Se da un lato il riferimento alla storia e alla memoria – tradizioni, paesaggio, cultura – è un elemento che connota ancora oggi l’approccio al costruire in montagna, lo stesso non possiamo dire per le pratiche di trasformazione ordinaria del territorio che nel corso del Novecento hanno completamente riplasmato la morfologia alpina e determinato il paesaggio oggi sotto i nostri occhi. Mai come sul territorio alpino la modernizzazione ha assunto le sembianze di un Giano a due facce. Da una parte l’iper-antropizzazione portata dall’industrializzazione, dall’infrastrutturazione e dall’urbanizzazione diffusa, che nel corso del XX secolo hanno determinato la crescita insediativa dei fondovalle produttivi e delle testate delle valli turistiche.7 Dall’altra parte abbiamo invece quella montagna «di mezzo»8 per la quale modernizzazione ha significato soprattutto marginalizzazione, spopolamento, abbandono.

Dove trovare dunque nuovi significati al costruire in montagna? È possibile elaborare nuove visioni di sintesi e non dicotomiche che tengano assieme memoria e trasformazione, patrimonio storico e nuove identità, istanze ambientali e modelli virtuosi di socialità ed economia?

Osservando con attenzione ciò che sta succedendo oggi sulle Alpi, appaiono sempre più numerose le progettualità in atto che nascono da nuove istanze di territorializzazione dei processi di sviluppo e trasformazione.9 Una territorializzazione che muove innanzitutto dalla consapevolezza che sia necessario prendere le distanze da alcune minacce persistenti: monocoltura economica (prima fra tutte quella di stampo turistico), patrimonializzazione della cultura, della storia e del paesaggio, polarizzazione insediativa. Le ragioni di una nuova abitabilità vanno invece ricercate in quelli che sembrano essere oggi valori sui quali molti studiosi10 convengono sia necessario incardinare una strategia di rigenerazione del territorio: qualità paesaggistica e climatica, rarefazione dei sistemi insediativi, elevata accessibilità alle reti sociali e ai servizi. Invertire dunque le condizioni di fragilità in occasioni di rinascita, lavorando su concetti come quello del «potenziale di cambiamento non impegnato»,11 o ancora attraverso la valorizzazione del «vuoto creativo»,12 che sembrano riscrivere i concetti di marginalità e rarefazione, ponendoli come atout necessari per lo sviluppo di attività di natura economica, professionale, culturale e creativa.

Una trama, due movimenti

Un aspetto centrale ai fini di questa trattazione è però pensare a come queste istanze di rigenerazione sociale ed economica per il territorio siano profondamente intrecciate con il tema del riuso del capitale fisso territoriale esistente. La sfida è pensare al patrimonio edilizio e infrastrutturale sottoutilizzato o abbandonato come a una trama di supporto a un processo di risignificazione del territorio, un ordito su cui strutturare quelli che sembrano essere oggi i due movimenti lungo cui si indirizzano le progettualità in atto.

Da una parte abbiamo una dinamica che potremmo chiamare di ritrazione, basata sulla dismissione e sulla restituzione della materia all’ambiente naturale, laddove gli scenari di sviluppo contemporanei non possono garantire quella densità di funzioni e di socialità necessarie per poter riabitare un luogo. Un approccio in cui dunque il lavoro dell’uomo non è più al centro dell’obiettivo progettuale che diventa invece quello di una ricucitura con lo spazio ambientale.

Un progetto che si basa sulla sottrazione dunque e che, come ha sottolineato recentemente Patrick Giromini,13 consente di omaggiare le culture del passato senza riproporre un’immagine estetizzante e cristallizzata dell’architettura alpina, essendone privata di quelle funzioni originarie che ne determinavano il significato e ne legittimavano i valori.

Se pensiamo infatti alla fase di antropizzazione avvenuta durante il periodo di crescita demografica alpina,14 essa ha costituito un episodio unico nella lunga durata della storia dei territori montani. In tale fase il patrimonio edificato è nato per soddisfare una necessità abitativa non paragonabile a quella di oggi, stante la necessità di coltivare, sfruttare, presidiare, in altri termini trasformare ogni possibile angolo di terra.

Tale paradigma può valere altresì nell’alta quota, oggi terreno di profonde trasformazioni climatiche in cui si sta ridisegnando la morfologia della montagna. Il cambiamento climatico nei territori d’alta quota sta producendo significativi impatti di carattere ambientale: scioglimento dei ghiacciai, disgregazione del permafrost, crolli ed eventi franosi stanno altresì rimettendo in discussione l’esistenza stessa delle infrastrutture di alta montagna. Rifugi, bivacchi, alpeggi, percorsi e altre strutture che da tempo costituivano il patrimonio di opere architettoniche della montagna stanno oggi mostrando i segni di una sempre più evidente obsolescenza, sia in termini ambientali che funzionali, ponendo interrogativi circa la loro riqualificazione e rivalorizzazione, ma anche la loro rimozione, ricollocazione.

Interventi come le ricomposizioni di Martino Pedrozzi a Luzzone o a Giumello che delineano una vera e propria risignificazione dei ruderi – o ancora le ricostruzioni di Roberto Briccola a Puncètè, che esplorano una dimensione più conservativa e riabilitativa – mostrano come sia possibile lavorare nella direzione di un abbandono controllato del patrimonio non più utilizzabile, accettandone l’incompiutezza, la discontinuità e la frammentazione all’interno del contesto paesaggistico. Ciò pone di nuovo al centro il tema della «rovina» come materiale progettuale che – nell’essere «un’opera dell’uomo (che) viene percepita alla fine come un prodotto della natura»15 – consente di legittimare un lavoro trasformativo su di essa.

Un secondo movimento è dato da quelle progettualità che muovono dall’attribuzione di nuovi significati per quei luoghi e per quelle architetture che possono invece tornare ad avere un ruolo strategico all’interno dei processi di sviluppo per le nuove socio-economie del territorio. In questo senso il tema della «cura» del patrimonio non si limita alla protezione o alla salvaguardia dell’esistente ma a un’azione progettuale di recupero, mediazione e trasformazione in funzione dei bisogni attuali.16

Ciò significa prendere le distanze da quelle operazioni estetizzanti che produrrebbero di fatto una snaturalizzazione e una perdita di realtà e rimettere in gioco il valore d’uso dei manufatti ponendo di nuovo al centro la morfologia, la tipologia e le caratteristiche qualitative degli oggetti esistenti, in relazione alle possibilità di riusi compatibili, di spazi riutilizzabili, di strutture riconvertibili.

Non intendere dunque lo spazio fisico come mero luogo di atterraggio di funzioni o come condizione estetica, ma come materia che concorre attivamente – a seconda della propria natura e delle proprie caratteristiche morfologiche e materiche – nel ridisegnare le traiettorie future. Tale approccio muove naturalmente da una forte consapevolezza sul valore d’uso dei manufatti, sul loro riposizionamento all’interno di una cornice di senso nell’oggi e non attraverso un’operazione nostalgica: «(…) non c’è nulla di più falso che offrire la possibilità di annullare la storia e di mischiare, come in un combattimento tra galli, frammenti di memoria, di passato senza tempo, di ossessione alla ripetizione, di offrire non un’architettura (con tutte le sue stratificazioni), ma la scena di un film, di cui si è chiamati a essere protagonisti. L’architettura è insieme la vittima e il protagonista imprescindibile della patrimonializzazione, perché non rappresenta solo la scena, ma è necessaria per convincere che il passato può essere riattualizzato, risemantizzato e come tale rivissuto».17

Ciò significa dunque rapportarsi con il patrimonio storico secondo un approccio che lo considera materia progettuale attiva e non solo sterile riproposizione di stilemi come in parte è avvenuto negli anni del boom edilizio alpino. Come ha scritto Bettina Schlorhaufer a proposito dell’opera dell’architetto Gion A. Caminada, egli «(…) a ben guardare, però, non progetta seguendo la storia: non riprende né aggiunge, ma riconcettualizza le conoscenze in nuove esperienze spaziali, interpretando ciò che esiste già e combinandolo, talvolta, con reperti di altre fonti storiche».18 Il patrimonio costruito storico – prima ancora che oggetto della conservazione – è dunque un vasto bacino semantico di approcci, di linguaggi, di figurazioni, di tecniche, utile per estrapolarne riferimenti insediativi, tettonici, distributivi, tecnologici, necessari allo sviluppo del progetto contemporaneo.

Note

 

1. Per un’interpretazione dei processi storici di lungo periodo delle Alpi si vedano J. Mathieu, Storia delle Alpi 1500-1900. Ambiente, sviluppo e società, Casagrande Edizioni, Bellinzona 2000, W. Bätzing, Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa, Bollati-Boringhieri, Torino 2005, o ancora P.P. Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi, Carocci, Roma 2001.

 

2. Cfr. G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Milano 1936.

 

3. Cfr. B. Reichlin, Quando gli architetti moderni costruiscono in montagna, in C. Mayr Fingerle (a cura di), Neues Bauen in den Alpes, Architekturpreis 1995 –Architettura contemporanea alpina, Premio di Architettura 1995, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 1996.

 

4. Cfr. C. Olmo, Gabetti e Isola. Architetture, Allemandi, Torino 1994, pp.12-13.

 

5. I convegni nascono su iniziativa di alcuni architetti piemontesi come Ottorino Aloisio, Carlo Mollino, Mario Federico Roggero, Armando Melis e vedranno la partecipazione di architetti di fama nazionale e internazionale come Franco Albini, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Ignazio Gardella, Giovanni Muzio, Giuseppe Samonà, Ettore Sottsass, Henry Jacques Le Même, Laurent Chappis, Denys Pradelle, René Faublée.

 

6. Il riferimento è ai saggi di Ernesto Nathan Rogers e Giuseppe Samonà della metà degli anni Cinquanta e al convegno dell’INU del 1957 dedicato alla Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale. Si veda A. De Rossi, La costruzione delle Alpi. Il Novecento e il modernismo alpino (1917-2017), Donzelli, Roma 2016, pp. 461-462.

 

7. Sul tema dell’infrastrutturazione delle valli alpine a fini produttivi si veda R. Sega, Nuove ecologie alpine. Industrializzazione e costruzione della città-territorio, Thèse de doctorat en Architecture et science de la ville, EPFL, Lausanne 2018.

 

8. Cfr. M. Varotto, Montagne di mezzo. Una nuova geografia, Einaudi, Torino 2020.

 

9. Si vedano gli studi di F. Corrado, G. Dematteis, A. Di Gioia (a cura di), Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, Franco Angeli, Milano 2014, e A. De Rossi (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli Editore, Roma 2018.

 

10. Cfr. G. Carrosio, I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, Donzelli Editore, Roma, 2019 o ancora F. Barbera, A. De Rossi, Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia, Donzelli, Roma 2021.

 

11. Cfr. G. Carrosio, I margini al centro, cit., 2019.

 

12. Cfr. F. Remotti, Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari 2011.

 

13. Cfr. P. Giromini, Transformations silencieuses: étude architecturale du bâti alpin, MêtisPresses, coll. VuesDensemble, Genève 2022.

 

14. Si pensi alla crescita demografica avvenuta tra il XII e il XIII secolo che ha portato alla formazione di un paesaggio culturale ben distinto, si veda al proposito J. Mathieu, Le Alpi da Annibale a oggi. Processi, periodi, sconvolgimenti, in Le Alpi di Clio. Scritti per i venti anni del Laboratorio di Storia delle Alpi (2000-2020), Armando Dadò editore, Locarno 2020.

 

15. G. Simmel, Saggi sul paesaggio, a cura di M. Sassatelli, Armando Editore, Roma 2006, p. 73.

 

16. N. Emery, Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 113.

 

17. C. Olmo, Il borgo e l’uso politico della storia, in F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi, Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, Donzelli Editore, Roma 2022, pp. 94-96.

 

18. B. Schlorhaufer, Come si progetta “con la storia”? Gion A. Caminada e la riconcettualizzazione architettonica dei modelli storici, in «ArchAlp», n.7, BUP-Politecnico di Torino, 2021, p.111.

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