Le se­zio­ni el­ve­ti­che: al­la ri­cer­ca di un’iden­ti­tà

Data di pubblicazione
16-02-2023

All’indomani delle sanzioni imposte all’Italia fascista e alla vigilia della VI Triennale, un lungo articolo di Gio Ponti comparso su «Domus» sollecita produttori e progettisti italiani non tanto a ingaggiare battaglia contro il prodotto estero, quanto a «sfruttare» le limitazioni sulla circolazione di merci e materie prime per andare alla ricerca di soluzioni nuove che spingano la produzione italiana a primeggiare.1 Tutti i settori vengono presi in esame, interpellando vari specialisti e, nel capitolo su tessuti e tendaggi si afferma «Pei tendaggi ormai, fabbrichiamo come e meglio di quelli di produzione Svizzera e Tedesca».2 Alla fine dell’anno la Svizzera è nuovamente evocata da Ponti, in previsione dell’Expo parigino dell’anno a venire, come uno dei paesi capaci di «allineare uno stuolo illustre di maestri ceramisti e vetrai, aristocrazia tecnica preziosissima».3

E in effetti ceramiche, gioielli, articoli di moda, insieme agli inevitabili orologi sono esposti in un’apposita vetrina nella sezione svizzera della VI Triennale al Palazzo dell’Arte ma né Ponti, né la rivista che dirige sembrano accorgersene.

Nelle prime edizioni della Biennale/Triennale, la Confederazione Elvetica si era presentata sottotono, assente nel 1923, con una «sezione ufficiosa»4 nel 1925 e con la prima ufficiale nel 1927. Una «piccola sezione molto accurata, se non altrettanto geniale […] la perfetta esecuzione di ogni oggetto è palese».5 Si tratta di tre sale di cui una occupata dai manufatti a tema religioso della Societè Saint Luc, e le restanti dai saggi prescelti dalle due sezioni svizzere del Werkbund, quella romanda (L’Oeuvre di cui faceva parte anche l’Eplattenier) e quella di lingua tedesca.6 A queste si affianca il Gruppo di La Sarraz, capitanato da Hèlene de Mandrot e già presente nell’edizione precedente con «mobili, ceramiche e stoffe di gusto sobrio e delicato».7

Da quando, nel 1928, i maggiori amplificatori italiani del dibattito sull’architettura e le arti decorative avviano le loro pubblicazioni, termometro della ricezione delle produzioni internazionali, quella svizzera pare non raccogliere particolare interesse. È d’altra parte lo stesso Peter Meyer, redattore capo della rivista «Das Werk» di Zurigo, che introducendo nel catalogo della quinta Triennale (1933) il contributo alla Galleria delle Nazioni, afferma «La natura stessa della Confederazione Svizzera, esclusivamente fondata su comuni principi politici e su comuni interessi pratici, e la mancanza di una unità etnica e linguistica, hanno fatto sì che non si sia mai formata una particolare architettura nazionale svizzera».8 E aggiunge «si può parlare, tutt’al più, di una particolare impronta svizzera data alle varie influenze venute dall’Italia, dalla Germania, dalla Francia». I fotomontaggi realizzati con i materiali forniti dalle Segreterie delle sezioni cantonali del Werkbund, presentano un approccio che punta sulle qualità tecnico/strutturali piuttosto che formali. Come dire un’architettura – pur schiettamente moderna – che si preoccupa di essere aggiornata sui modi costruttivi e si affida a influenze esogene per quelli compositivi. Anche nel settore delle arti decorative e industriali la nazione alpina non brilla per riconoscibilità: assente un padiglione ufficiale, è nuovamente la Societè Saint Luc di Ginevra ad allestire alcune sale9 focalizzate sull’arte sacra con manufatti, dipinti e sculture definiti nel catalogo «ottimi esempi dell’innesto dello stile attuale nella tradizione religiosa»,10 ma sostanzialmente ignorati nelle riviste più aggiornate, mentre le altre più conservatrici, come «Emporium», sono tutte concentrate sulla Mostra della Rivoluzione fascista.

Nel frattempo, gli orologi Eberhard e i mobili Wohnbedarf fanno capolino nelle pagine pubblicitarie, sintomo di un tentativo, da una parte, di azioni produttive e commerciali, anche nell’amplificare progetti stranieri prodotti dalle imprese svizzere, come nel caso dei mobili di Aalto,11 dall’altra, di ricerca di un’identità, che emerge prepotente nella sesta Triennale (1936). Qui la Svizzera, commissario Federico Vital, presenta un padiglione entrato nella leggenda. Allestito da Max Bill, vince il gran premio della giuria – per la verità insieme a quelli austriaco, belga, ungherese, cecoslovacco, finlandese e tedesco – e sarà successivamente ricordato come una pietra miliare della tecnica ostensiva.12 Tuttavia, ancora una volta, la stampa specializzata sembra non accorgersene. A fronte di un lungo redazionale dedicato, pubblicato in «Das Werk», l’organo ufficiale del Werkbund svizzero,13 «Domus» tace, neppure «Quadrante», la rivista maggiormente orientata ai nuovi indirizzi dell’astrattismo, se ne occupa, e «Casabella» cita il lavoro di Bill, pur con toni elogiativi, in un pezzo dedicato alle sezioni straniere14 con particolar riferimento all’«arte di montare esposizioni», filone progettuale che, si dice, è in rapido e fecondo sviluppo fin dal seminale episodio della Mostra dell’Aeronautica nel 1934 e a cui si fa risalire anche la rarefatta soluzione dei tubi verticali a definire perimetri e percorsi – mai troppo rigidi – impiegata nel padiglione elvetico. «In tutta la sala, al vecchio folclore alpino e artigianesco delle mostre svizzere è sostituito un rigore geometrico di forme, che si prodiga in qualche astrattismo plastico un po’ ozioso; ma in complesso si conforma alle esigenze del materiale».15 Materiale che, comunque, non si discosta molto da quello visto fino ad allora:16 tessuti, ceramica e vetri, gioielli – tutti a firma di progettiste/artigiane donne –, gli immancabili orologi, accessori per l’abbigliamento, pochi pezzi in legno, un’ampia sezione grafica ed editoriale (ormai molto affermata),17 e immagini di «abitazioni moderne» firmate da, più o meno, gli stessi architetti scelti da Agnoldomenico Pica per la Sezione Internazionale di architettura.18 A fare da sfondo alla plastica rilettura che Bill fa del vessillo svizzero un suggestivo montaggio fotografico delle vette dell’Engadina (fig. 1).19 Quello che viene riconosciuto in patria come uno «stile espositivo svizzero», maturato anche grazie all’esperienza del padiglione all’Expo di Bruxelles dell’anno precedente,20 sembra passare in Italia quasi del tutto inosservato.

Bill, di lì a poco, fornirà la propria spiegazione del padiglione in Triennale come «un esempio della applicazione, in intima connessione con la nuova architettura, delle nozioni desunte dal campo della pittura e della scultura costruttiva»;21 un’unione che anche in Italia viene sollecitata, proprio da Pagano che, a valle della chiusura della manifestazione, in un libro del 1938 chiosa: «Vogliamo artisti che non si vergognino di lavorare per destinazioni più pratiche e più vive che non sieno le sale di un museo»,22 collocandosi, apparentemente, sulla stessa linea promossa da Bill nell’inquadrare i prodotti di arte applicata in cornici guidate dai linguaggi visivi (le sculture, i supporti astratti, i segni flottanti). Ma l’arte a cui Pagano pensa, e illustra nel suo libro, è quella dei Sironi, dei Martini, dei Manzù, Carrà, Cagli, di un gruppo di artisti, cioè, che per quanto novatori sono distantissimi dai raffinati astrattismi del collega svizzero.23 L’unità delle arti, nella percezione della compagine e del pubblico italiani, è quella tentata nell’ultima Triennale, ma soprattutto compiuta trionfalmente a Parigi l’anno seguente con il padiglione a firma dello stesso Pagano con Piacentini e Valle: un’architettura che riprende il progetto classicista della Città Universitaria di Roma ed è palcoscenico per le opere degli artisti più in voga: ancora Fontana, Martini, Cagli, Gori, Sironi ad accompagnare sia i prodotti industriali esito delle ricerche forzate dalle sanzioni, sia quelli del più tradizionale artigianato artistico.24

Ancora a una figura ibrida, per quanto formato come architetto e titolare di uno studio a Zurigo, è affidato il piccolo padiglione per l’edizione del 1940. Progettista, scenografo pittore, Ernst Friedrich Burckhardt presta un allestimento essenziale, che vede pareti curvilinee popolate da piccole vetrine quadrate in cui sono esposti i consueti saggi della produzione nazionale (fig. 2), a fare da contorno al tema principale prescelto dall’ordinatore Hermann Kienzle,25 direttore della scuola di arti applicate di Basilea e attivissimo promotore della produzione svizzera: l’orologio. «Non a caso il motto scelto per questa sezione fu “Lavoro svizzero è lavoro di precisione” […] L’orologio è qui considerato in connessione con prodotti dell’industria svizzera di apparecchi e dell’industria di precisione; in parte collegati all’orologio, in parte solo genericamente derivati dalle stesse condizioni iniziali».26 Forse non casualmente a un istituto basato in Svizzera, la Federazione internazionale degli Enti Nazionali di Unificazione, è affidata poi l’introduzione della Mostra Internazionale della produzione in serie, curata da Pagano27 con l’obiettivo di chiarire gli sfuggenti concetti di standard, serie, unificazione.

L’orologio sembrerebbe una metonimia scelta per raccontare, in modo innovativo ma familiare e che proseguirà negli anni, i consueti prodotti dell’artigianato – tessile, gioielli, ceramiche e vetri – dell’industria (di precisione) e della grafica. Sembra che nella percezione dei commentatori italiani sia solo quest’ultima a essere recepita: un anonimo estensore della ricognizione sulla grafica pubblicitaria in «Domus» definisce Xanti Schawinsky (italianizzato grazie allo studio Boggeri) e Max Huber i primi ambasciatori del «design svizzero. Il gruppo svizzero d’avanguardia definisce, con procedimento analitico ed astratto, il criterio costruttivo e compositivo».28 Ma non molto di più si legge nella stampa di settore.

Sul versante svizzero un positivo bilancio è formulato – con esplicito riferimento, tra gli altri, ai due padiglioni nelle Triennali del 1936 e 1940 – proprio sulla capacità del progetto nazionale di essere riconosciuto in quanto guidato da una parte dagli architetti e dall’altra dal Werkbund locale: «Dal 1930 l’organizzazione ha sviluppato ed esteso attivamente questo tipo di propaganda, con un successo crescente, da attribuire soprattutto alla consapevolezza che ogni mostra deve essere affrontata come un problema completamente nuovo. Non ci possono essere piani fissi, né regole generali; l’unico criterio è il raggiungimento dell’obiettivo particolare fissato in ogni caso. Tuttavia, si può dire che le mostre svizzere hanno un carattere proprio, che deriva dal fatto che la chiave di lettura di quasi tutte sta nella loro concezione puramente spaziale. Non sono i dettagli a formare lo spazio totale, ma è lo spazio a decidere i dettagli».29 Si tratta di un’enunciazione che pare collocarsi sulla linea delle ipotesi, mai realizzate, di Sigfried Giedion per il padiglione svizzero all’Expo di Parigi del 1936, e che, nella sua successiva attività di storico, definiranno un originalissimo rapporto tra «frammento e cultura».30

Le buone intenzioni e la certezza di aver individuato una linea «svizzera» dell’esposizione svizzera non sono evidentemente sufficienti e il padiglione presentato alla Triennale della ricostruzione (1947) appare «piuttosto modesto. Vi sono esposti alcuni gruppi di mobili utilitari di serie, di buona fattura, eseguiti in legno».31 Il riferimento è alla produzione Aermo di Zurigo (fig. 3), che con Wohnbedarf, e Wohnhilfe, si presentano, in un allestimento nuovamente al limite del folklore (fig. 4), per «rispettare il programma della T8».32 Non proprio un successo, tanto che all’inizio del 1949 Gio Ponti scrive al presidente della Triennale Ivan Matteo Lombardo, probabilmente in vista del ruolo che ricoprirà per l’edizione successiva: «in gennaio vado in Svizzera e in Svezia per la Montecatini e la Edison. Vorrei che il mio viaggio risultasse utile anche per la Triennale».33 E le peregrinazioni di Ponti sembrano aver avuto effetto se Max Bill viene nuovamente incaricato del progetto del padiglione alla IX Triennale, proprio su sollecitazione di Ponti. Scrive Bill a Rogers: «Il veut absolutement que je fasse la section suisse de la triennale. Qu’es-ce que j’y pourrais faire!».34

Illustrato da Roth, responsabile della sezione, su «Das Werk», in una ideale continuità con gli obiettivi del Werkbund,35 l’etereo padiglione svizzero raccoglie questa volta il plauso generale. La Triennale all’insegna dell’unità delle arti, caratterizzata da una robusta inversione di tendenza rispetto all’attenzione per il sociale della precedente edizione, è la cornice ideale per valorizzare finalmente l’approccio di Bill. Le Arti decorative e forme industriali svizzere sono frutto di una severa selezione che permette l’accesso a «pochi laboratori che si sono specializzati nella fabbricazione di manufatti tessili mentre, come è noto, esiste l’industria degli orologi la cui importanza per il commercio estero della Confederazione Elvetica è grandissima»; il complesso della produzione industriale «non può considerarsi tuttora sufficientemente matura per la partecipazione a un’esposizione internazionale. Invece l’industria svizzera ha raggiunto, si può dire, la perfezione nella costruzione di strumenti e di apparecchi di precisione».36

Oltre alla consueta sezione sulla grafica e tipografia, le sette vetrine cilindriche con vista zenitale contengono così tessuti, giocattoli di legno, saggi di ceramica e vetro (fig. 5), gioielli, strumenti per la misurazione e orologi, con incursioni dello stesso Bill, autore dei mobili del vestibolo/sala di lettura, di svariate grafiche, di un orologio e di un gioiello. La conclusione è che si tratta di un progetto «fra le realizzazioni più interessanti della Triennale per quel che riguarda l’allestimento. Max Bill ha creato qui un ambiente straordinario, da cui – crediamo – potrà ispirarsi tutta una nuova forma dell’esporre»,37 così come la grafica di Huber, per la mostra La forma dell’utile, allestita da Belgioioso e Peressutti, dimostra ancora il riconoscimento al progetto visivo svizzero.38 Bill merita il Gran Premio della Giuria della Triennale39 e diviene un ospite frequente sulle pagine delle riviste e nelle mostre in Italia. Autore del padiglione svizzero alla Biennale di Venezia nel 1951,40 è oggetto di menzioni e articoli su «Domus» e altre riviste, con particolare attenzione ai mobili in serie per aziende svizzere (Wohnbedarf e Horgen-Glarus),41 settore con il quale la Confederazione si presenterà ancora nella Triennale del 1954, con un allestimento à la Bill e lo stesso Bill, ormai direttore della Hochschule für Gestaltung di Ulm (e in qualche modo non più esclusivamente svizzero), impegnato come relatore al primo Congresso Internazionale dell’Industrial Design.42

L’allestimento del grafico e scultore Michel Peclard (fig. 6) si uniforma «pienamente al programma consigliato dalla Triennale, ha infatti limitato il suo tema a quello delle forme industriali, che sono esemplificate da oggetti di uso domestico, utensili, piccole apparecchiature elettriche e da tutti quei prodotti industriali in cui appare evidente il concorrere della tecnica più attuale col prestigio di una forma conclusa».43 Il padiglione risolto grazie a «una superficie continua, come un nastro sottile, bucata dai volumi dei cubi di cristallo, che vi appaiono sospesi in bilico, e che contengono gli oggetti, minuscoli e preziosi»,44 è popolato da oggetti d’uso, lontani dall’idea di arredo, che si limita allo scultoreo sgabello in faggio prodotto da Horgen-Glarus dello stesso Peclard: un’icona del design svizzero. Pensato per consuonare con la prima Mostra Internazionale dell’Industrial Design (a cura di Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Roberto Menghi, Augusto Morello, Marcello Nizzoli, Michele Provinciali e Alberto Rosselli), lo spazio e la raccolta di prodotti non convincono completamente, nonostante ricevano la loro parte di premi (Peclard per l’allestimento e alcuni prodotti, Bill per una sedia e una poltrona).45 Concedendo il tentativo di creare una «entità spaziale assolutamente pura», anche se con qualche difetto, la raccolta di «elementi di pompe, tipi di secchi con chiusure di sicurezza, recipienti di plexiglass per laboratori chimici, apparecchi acustici per sordi, e simili» non fa che aumentare l’«irritante equivoco, che accompagnava quasi di sala in sala il visitatore della Triennale, costretto alla fine a chiedersi se si trattasse di una Mostra d’Arti Decorative e Industriali e d’Architettura, di rinomanza mondiale, o di una qualsiasi fiera merceologica».46

Chi si pronuncia in tal senso, senza risparmiare la mostra principale e molti padiglioni esteri, è Carlo Enrico Rava, un fiero sostenitore della quota-parte «artistica» del design e ovviamente deluso dal rigore dell’edizione della Triennale che più di ogni altra ha inseguito «la funzionalità dell’arte».47 A lui fa più diplomaticamente da contraltare Ponti, che, nel salutare la chiusura dell’edizione del 1954 e tentare un breve bilancio alla svolta dei trent’anni, guarda al ricordo «delle mostre, raffinatissime sempre, della Svezia, della Finlandia, dell’Austria, e di alcune della Germania e della Svizzera (specie la prima di Max Bill)».48

Un’osservazione da poco ma che getta ulteriore luce sulla ricognizione compiuta quasi quindici anni prima da «Casabella» sotto la direzione di Pagano («in una tregua della sua attività di combattente sul fronte greco»).49 La lunga sequenza di allestimenti temporanei e mostre, permette di individuare la centralità dei modi espositivi di provenienza svizzera: dal bauhausler Schawinsky, di cui è documentato l’allestimento di Berlino del 1931, a Max Bill con la mostra campionaria dei vini a Zurigo del 1934 e la celebrazione di quello alla VI Triennale: «Di tutte le sezioni straniere è però quella Svizzera, di Max Bill, che ha destato il più vivo interesse, anche polemico; nel ricordo di questa mostra ardita, se pure non in tutto bellissima, hanno avuto origine in seguito diversi allestimenti italiani. La mostra era ideata secondo il gusto dell’arte astratta, ed alcuni elementi plastici, assolutamente astratti e razionalmente ingiustificabili, si alternavano con le vetrine, a creare la struttura architettonica della mostra, di cui ricordiamo alcuni bellissimi particolari».50 Vengono illustrati anche il padiglione alla mostra parigina del 1937 (Braüning, Leu e During) e le mirabolanti invenzioni all’Esposizione nazionale svizzera di Zurigo del 1939. Ma al di là del riconoscimento di una via svizzera dell’allestimento, non può sfuggire quanto enunciato nel testo di accompagnamento che, pur con qualche riserva, riconosce a Bill un impatto su quanto si vedrà in seguito. L’impostazione astratta e i grafismi dei Carboni, Bianchetti e Pea (ai quali probabilmente si deve la scelta delle immagini pubblicate) persino Nizzoli, appaiono, nella «fila indiana» narrata in «Casabella» come, se non eredi, almeno parenti stretti degli architetti/artisti/allestitori svizzeri e forse loro debitori.

Di qui in poi la Svizzera, senza mai distinguersi veramente, si trova allineata agli indirizzi generali delle diverse edizioni, nel bene e nel male. La Triennale del 1957, nuovamente accusata di essere dispersiva e poco connotata, vede la Svizzera priva di un display specifico nella Mostra della casa internazionale ma coinvolta con alcuni pezzi nell’Alloggio internazionale,51 un vano dedicato a Max Bill nella Mostra internazionale dell’industrial design (a cura di Dorfles, Ricci, Rosselli e Zanuso)52 e una sezione nazionale diretta da Alfred Roth che ripropone sostanzialmente la consueta commistione tra pezzi industriali e di artigianato artistico, con un focus sugli orologi. Nuovamente, la reazione non è positiva. Il bilancio tracciato da Dorfles sull’aderenza a uno dei pilastri dell’XI Triennale, la «relazione tra le arti»,53 lamenta una debolezza cronica generalizzata in questo snodo critico cruciale sotteso fin dalle prime edizioni della manifestazione e precisa: «e quanto alla Svizzera s’è accontentata decorare una parete con la frigida composizione rettangolistica di Lohse, questo modesto e ormai desueto concretista».

Nel 1960 alla Triennale concentrata sulla scuola, la Svizzera si affaccia con un rarefatto spazio progettato dallo studio di architettura ginevrino Brera & Waltenspuhl (fig. 7) che, rinunciando ai manufatti, presenta un film, La scuola, che illustra spazi e metodi pedagogici collocati nei tre principali distretti linguistici: «Questo film cerca di mostrare lo sviluppo del fanciullo nel quadro più appropriato alla sua età e al suo ambiente».54 Centri ricreativi in gran parte legati ad azioni pedagogiche sono documentati nella Triennale sul tempo libero (1964), in un allestimento in continuità con quelli di Bill, formato da Hans Fishli, che Bill aveva conosciuto al Bauhaus.55

Nell’edizione dei grandi numeri (1968), l’articolata e sofisticata trattazione dei curatori (Felix Schwarz, Rolf Gutmann, Frank Gloor e Lucius Burckhardt)56 sui significati della prefabbricazione e del suo sviluppo come garanzia di maggiore libertà individuale e collettiva, in un allestimento nuovamente molto grafico con l’inserto dell’elemento scultoreo di Mary Vieira (fig. 8), raccoglie una eco limitatamente al contorno aneddotico e comunicativo della striscia vignettistica sulle conseguenze della standardizzazione: «dalla storiella disegnata del “problema della porta” risulta che, come l’uomo qualunque è in realtà molto vario, così la produzione in serie più è sviluppata più è varia: la libertà di scelta è cioè garantita dall’aumento di processi seriali, per la crescente gamma delle variazioni offerte».57

Qualche bilanciamento è offerto dall’attenzione che la pubblicistica italiana riserva ad alcune personalità. Nel 1956, si afferma: «particolare influenza ebbe nel gusto figurativo italiano la mostra svizzera allestita da Max Bill»58 e a Max Bill nel 1959 Vittorio Gregotti dedica un lungo articolo attribuendogli un ruolo nella pratica delle «nazioni confinanti»,59 ovvero della capacità di rielaborare con fresco rigore gli spunti provenienti da culture progettuali e artistiche vicine, in primis il Bauhaus, e poi via via il Dadaismo svizzero, De Stijl e, perché no, forse anche le prime sperimentazioni nel campo dell’allestimento degli architetti italiani. In tal senso, l’eredità che la presenza svizzera lascia ai visitatori e agli esegeti delle Triennali, al di là della facile ironia wellesiana sugli orologi,60 è la commistione tra spunti – richieste? – italiani e un patrimonio culturale e progettuale a sua volta risultato di molteplici meticciaggi, in un mutuo scambio che, inevitabilmente, riconosce ai progettisti attivi nella nazione alpina un primato che ruota prevalentemente intorno ai linguaggi grafici, anche nella loro traduzione nelle tre dimensioni.

Note

 

1 G. Ponti, Qualità italiana contro qualità straniera, «Domus», 99, marzo 1936, pp. 17-24.

 

2 Ivi, p. 21.

 

3 Id., La battaglia di Parigi, «Domus», 106, ottobre 1936, p. 7.

 

4 A. Pica, Storia della Triennale 1918-1957, Edizioni del Milione, Milano 1957.

 

5 R. Papini, Le arti a Monza nel 1927: II Gli stranieri, «Emporium», LXVI, 329, agosto 1927, pp. 79-80.

 

6 Terza Mostra Internazionale delle Arti Decorative. Consorzo Monza-Milano Umanitaria, Catalogo, Ceschina, Milano 1927, pp. 87-92.

 

7 Ivi, p. 55; R. Papini, Storia della Triennale, cit., p. 80; A. Baudin, Hèlene de Mandrot et la maison des artistes de La Sarraz, Payot-Nadir, Lausanne 1999.

 

8 V Triennale di Milano. Catalogo ufficiale, Ceschina, Milano 1933, p. 158.

 

9 Ivi, pp. 338-339.

 

10 Le mostre estere, in La Quinta Triennale di Milano, Ente autonomo per le esposizioni triennali internazionali delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna, Milano 1933, pp. 103, 111.

 

11 Idee per la casa dalle riviste di tutto il mondo, «Domus», 78, giugno 1934, p. 40.

 

12 Nel numero doppio di «Casabella» del 1941 (159-160) interamente dedicato agli allestimenti, e in diverse occasioni in seguito, Roberto Aloi ricorda: «nella medesima esposizione la sezione svizzera, allestita da Max Bill, in un gusto tra neoplastico e di grafica pura, raggiungeva effetti di alta emotività, tanto da sembrare il primo momento in cui si riuscisse a tradurre, senza più residui, la icastica violenza dell’espressionismo, su un piano di rigorosa e nitida attualità, quasi un tentativo molto felice, di tramutare in termini tecnici, o sia pure para-tecnici, la turbolenza e il melodrammatico tumulto delle scenografie pittoriche che erano ancora piaciute alle generazioni del primo Novecento»; R. Aloi, Esempi di esposizioni architettura allestimenti, Hoepli, Milano 1960, p. XXXII.

 

13 s.a., Die Schweizer Abteilung an der Triennale in Mailand 1936, «Das Werk», 23, 1936, pp. 245-255. Si rimanda all’articolo di Andrea Maglio, alle pagine seguenti.

 

14 M. Labò, Le sezioni Straniere alla VI Triennale di Milano, «Casabella», 105, agosto 1936, pp. 12-17.

 

15 Ivi, p. 12.

 

16 VI Triennale di Milano. Catalogo ufficiale, Triennale, Milano 1936, p. 85.

 

17 S. Zeller, Iconophile. Debating the Role of the Poster Collector Fred Schneckenburger in the Historiography of Swiss Graphic Design in Ead., Ueli Kaufmann, Peter J. Schneemann (a cura di), Swiss Graphic Design Histories. Tempting Terms, Verlag Scheidegger & Spiess, Zürich 2021, pp. 49-62; sulla visione «geografica» delle ricerche nel campo del design, K. Fallan, G. Lees-Maffei, Real Imagined Communities: National Narratives and the Globalization of Design History, in «Design Issues», 32, 1, 2016, pp. 5-18.

 

18 Guida della Sesta Triennale, Triennale, Milano 1936, pp. 42-43.

 

19 R. Fabbri, Max Bill in Italia, Mondadori, Milano 2011, pp. 85-100.

 

20 I. Allas, G. Bosoni, Il progetto Svizzera nelle esposizioni internazionali (1924-1939), «Rassegna», 62, 1995, pp. 36-37.

 

21 M. Bill, Section Suisse d’exposition à la “Triennale di Milano” 1936, in A. Roth, Die Neue Architektur/The New Architecture/La Nouvelle Architecture, Verlag für Architektur AG, Erlenbach-Zürich 1940 [traduzione dell’autore].

 

22 G. Pagano, Arte decorativa italiana, Triennale-Hoepli, Milano 1938, pp. 7-8; vedi anche E. Dellapiana, Il design e l’invenzione del Made in Italy, Einaudi, Torino 2022, pp. 50-51.

 

23 L’unica eccezione è per il modello di fontana nel Parco Sempione firmata da Cesare Cattaneo e dal pittore comasco Mario Radice.

 

24 E. Dellapiana, Il design e l’invenzione, cit., pp. 59-62.

 

25 C.-L. Debluë, Exposer pour exporter: Culture visuelle et expansion commerciale en Suisse (1908-1939), Alphil-Presses universitaires suisses, Neuchâtel 2015, passim.

 

26 VII Triennale di Milano. Guida, Triennale, Milano 1940, pp. 29-30.

 

27 Ivi, p. 152; A. Bassi, La mostra internazionale della produzione in serie di Giuseppe Pagano (VII Triennale, 1940): contesto e preparazione della prima esposizione di design in Italia, «AIS/Design Journal», 2, 3, 2014, pp. 72-84.

 

28 Rubrica della pubblicità, «Domus», 167, novembre 1941, p. IX.

 

29 K. Egender, Switzerland Exhibits Abroad, «Graphis», 7-8, aprile 1945, pp. 150-159 [la traduzione è mia].

 

30 G. Korff, Esposizioni reali e esposizioni immaginarie, «Rassegna», 25, marzo 1986, pp. 72-81.

 

31 Red., Svizzera, «Domus», 221, luglio 1947, p. 76.

 

32 T8. 1947, Triennale, Milano 1947, pp. 196-197; sulla T8, incentrata, tra l’altro, sul «mobile popolare», cfr. A. Bassi, R. Riccini (a cura di), Design in Triennale 1947-68. Percorsi tra Milano e Brianza, Silvana, Cinisello Balsamo 2004, pp. 79-87.

 

33 Lettera di Ponti a Lombardo, 2 gennaio 1949; Archivio Ponti, Milano, Corrispondenza.

 

34 Lettera di Bill a Rogers del 30 marzo 1950, in R. Fabbri, Max Bill in Italia, cit., p. 107.

 

35 A. Roth, Der Schweizer Pavillon an der 9. Triennale in Mailand 1951: Ausstellungsarchitekt Max Bill SWB, Zürich, «Das Werk», 38, 1951, pp. 266-268.

 

36 Decima Triennale, Triennale, Milano 1954, pp. 275-277.

 

37 Red, Svizzera, «Domus», 260, luglio 1951, pp. 14-15.

 

38 Decima Triennale, cit., p. 61.

 

39 Relazione della Giuria Superiore, firmata da P. Portaluppi e O. Vergnani, in A. Pica, Storia della Triennale, cit., p. 124.

 

40 R. Fabbri, Max Bill in Italia, cit., pp. 120-130.

 

41 Red., Mobili di Max Bill per la produzione in serie, in «Domus», 276, novembre 1952, pp. 44-45.

 

42 La seduta del mattino del 30 novembre è tutta incentrata sulla lunga relazione di Bill sul rapporto tra industrial design e società; cfr. L. Molinari (a cura di), La Memoria e il Futuro. I Congresso Internazionale dell’Industrial design, Triennale di Milano, 1954, Skira, Milano 2001, pp. 63-84.

 

43 Decima Triennale, cit., p. 31.

 

44 Red., La Svizzera alla Triennale, «Domus», 301, dicembre 1954, pp. 41-42.

 

45 I premi della Decima Triennale di Milano, «Domus», 303, febbraio 1955, p. 34.

 

46 Carlo Enrico Rava, Bilancio della X Triennale, «Prospettive», 12, 1956, s.n.p.

 

47 I. M. Lombardo, Propositi e realtà della Decima Triennale, in Decima Triennale, cit., p. 22.

 

48 G. Ponti, Saluto alla Decima Triennale augurio all’undecima, «Domus», 302, gennaio 1955, p. 1.

 

49 Annotazione a margine di G. Pagano, Parliamo un po’ di esposizioni, «Costruzioni Casabella», 159-169, marzo-aprile 1941, s.n.p.

 

50 Red., 1925-1940, ivi, p. 55.

 

51 Undicesima Triennale, Triennale, Milano 1957, pp. 110-111.

 

52 Ivi, p. 137

 

53 Gillo Dorfles, “Relazione tra le arti” alla XI Triennale?, «Domus», 337, dicembre 1957, pp. 39-40.

 

54 XII Triennale di Milano. Palazzo dell’arte, Triennale, Milano 1960, p. 23.

 

55 Tredicesima Triennale di Milano, Arti Grafiche Crespi, Milano 1964, pp. 113-118; cfr. l’articolo di Massimiliano Savorra.

 

56 Cfr. l’articolo di Gabriele Neri alle pagine seguenti.

 

57 Red., Le nazioni, «Domus», 466, settembre 1968, p. 27.

 

58 F. Buzzi Ceriani, V. Gregotti, Contributo alla storia delle Triennali, «Casabella Continuità», 212, settembre 1956, p. 71.

 

59 V. Gregotti, Complessità di Max Bill, «Casabella Continuità», 228, giugno 1959, pp. 32-39.

 

60 In Il terzo uomo (regia Carol Reed, 1949), Orson Welles pronuncia la celebre battuta «In Svizzera non vi fu che amore fraterno, ma in 500 anni di quieto vivere che cosa è venuto fuori? L’orologio a cucù!».

 

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