Sal­va­te il Si­gnor Ros­si!

Libertà e prefabbricazione nella sezione svizzera alla Triennale del 1968.

Data di pubblicazione
24-02-2023

La Triennale est morte! 1

Violini sospesi a mezz’aria, fumetti, pannelli prefabbricati, composizioni grafiche, macchine da cucire, sculture, parodie e testi satirici, messi in mostra da sociologi (Lucius Burckhardt), architetti (Rolf Gutmann, Felix Schwarz e Frank Gloor, sotto l’egida di Alfred Roth), artisti (Fredy Sigg, Karl Gerstner e Maria Vieira), scrittori (Jörg Steiner), compositori (Hans Ulrich Lehmann) e ingegneri (Fritz von Ballmoos): la Sezione svizzera alla XIV Triennale di Milano del 1968 non lesinò di certo sulla varietà disciplinare e comunicativa per dare la propria versione del «Grande Numero», tema generale scelto per la manifestazione.2

Tuttavia, nonostante tale assortimento espositivo, il contributo elvetico non ha trovato molto spazio nella storia di quella edizione, conosciuta più per l’interazione con le dinamiche sociali dell’epoca che per gli effettivi contenuti. Infatti, com’è noto,3 il Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio – sede della kermesse curata da Giancarlo De Carlo – fu occupato da un gruppo di contestatori il 30 maggio, giorno dell’inaugurazione, e non poté riaprire fino al 23 giugno successivo, dopo una parziale ricostruzione degli allestimenti danneggiati. Nelle stesse settimane l’agitazione giovanile toccava anche la Svizzera: il 29 giugno, a Zurigo manifestanti e polizia si scontravano nel cosiddetto Globuskrawall.

La Svizzera e il Grande Numero: prefabbricazione e libertà

«Il Grande Numero», slogan scelto dagli organizzatori della Triennale come comune denominatore, suggeriva una riflessione – allora attualissima – sulle problematiche inerenti al progetto, a tutte le scale, prodotte dall’industrializzazione e dall’incremento quantitativo. Nell’ambito di tale vasta cornice, il programma curatoriale svizzero fu indirizzato da Lucius Burckhardt, selezionato da Alfred Roth (allora presidente della Commissione Federale delle Arti Applicate, qui in veste di commissario) in qualità di rappresentante dello Schweizerischer Werkbund,4 insieme agli architetti Gutmann, Schwarz e Gloor.

Questa scelta appare coerente con il tema generale, che – come Roth aveva fatto notare – faceva assumere alla mostra una valenza sociologica, introducendo la questione della responsabilità del creativo di fronte alla comunità.5 Fu dunque Burckhardt a suggerire di lavorare sul «Problema delle Abitazioni»,6 «anzi il problema della moltiplicazione delle abitazioni, che direttamente deriva dall’accrescimento della popolazione»,7 su cui al tempo – in Svizzera ma non solo – si cercava una soluzione attraverso l’industrializzazione e la prefabbricazione edilizia.

Simili temi trovavano a Milano un terreno fertile per la discussione. Nonostante, un decennio prima, Kidder Smith avesse scritto che «la prefabbricazione è contraria alla natura degli italiani»,8 in realtà dal 1945 (e anche prima) in Italia si era sviluppato un vasto dibattito e una feconda sperimentazione in questo campo. Tra le numerose iniziative si possono ricordare quelle promosse proprio dalla Triennale, come la sezione «Unificazione, modulazione e industrializzazione nell’edilizia» (1947) e la costruzione del QT8, il celebre quartiere per la Triennale Ottava.9 Rimanendo nel Palazzo dell’Arte, si può citare anche il discorso di Eugenio Gentili Tedeschi in qualità di coordinatore della Mostra degli elementi costruttivi nell’edilizia alla X Triennale del 1954, nel quale elogiava l’industrializzazione come metodo applicato all’architettura, ma senza che ciò andasse a intaccare «l’atto proprio dell’architetto, anzi il suo compito più alto e specifico, la composizione».10

Dietro a una simile precisazione si scorgono le preoccupazioni che, di fianco alle promesse, segneranno il dibattito teorico sulla prefabbricazione. Tra le tante riflessioni possiamo menzionare ancora quella prodotta da Ernesto N. Rogers a Winterthur nel 1944, durante il suo esilio svizzero. Ragionando sull’industrializzazione nel settore residenziale da un punto di vista filosofico e sociale («più un problema di contenuto che di capacità pratica»)11, egli sottolineava il «contrasto drammatico tra individuo e collettività» nell’uomo in quanto abitante, fino a dire: «non mi nascondo le difficoltà di rispondere alle numerose domande che sorgono nella nostra coscienza e sollecitano dubbi ed incertezze per le difficoltà di conciliare industrializzazione e umanità nella casa».12

Proprio questo nervo scoperto, chiamato in causa in plurime occasioni in seguito,13 risultò al centro della mostra svizzera del 1968. «Si pone a questo punto il problema – scrivevano i curatori – se processi di questo tipo e di queste dimensioni siano destinati, o non, a elidere la libertà di scelta da parte del progettista e, in conseguenza, del pubblico».14 Industrializzazione e libertà: un apparente ossimoro che invece il racconto narrativo ed espositivo punterà a offrire in chiave positiva, rassicurando il visitatore rispetto a come «la libertà non solo sia garantita, ma anzi aumentata dai processi seriali, sia per la possibilità di scegliere in una vasta gamma di sistemi diversi, sia per l’opportunità di ottenere un numero praticamente illimitato da [sic] variazioni attraverso la diversa combinazione di elementi di serie».15

Al dubbio di fondo, i curatori sembrano quindi rispondere con l’ipotesi benevola di una soluzione: «la meta ideale della prefabbricazione – scriveva Burckhardt – è ridurre il numero dei tipi di elementi prodotti e aumentare nello stesso tempo le possibilità di variazione così da consentire libertà di scelta ai costruttori».16 Oltre che alla libertà nella progettazione (argomento che ci rimanderebbe al celebre dibattito tra Muthesius e van de Velde al Werkbund di Colonia nel 1914, e pure più indietro), il discorso fu esteso alla possibilità di scelta dell’utente – qui identificato, caricaturalmente, in un generico «Signor Rossi», come vedremo – e perciò a una discussione che dall’architettura si apriva alla sociologia e ad altre discipline.

Ma come si ottiene, concretamente, la libertà di scelta a vantaggio del pubblico? Secondo i curatori, mediante sistemi di elementi omogenei: pezzi singoli, stanze o intere sezioni di edificio, da comporre assieme in modo variabile.17 Dalla dimensione strettamente tecnica, una simile riforma delle costruzioni avrebbe intaccato l’estetica e il concetto stesso di qualità architettonica: con tali metodi sarebbe scomparso «il modo in cui l’architettura tradizionale giudicava l’aspetto di un edificio, basandosi sull’insieme del suo aspetto esteriore, [che] non sarà più l’oggetto della critica architettonica».18 Lo stesso tipo di edificio sarebbe comparso in molteplici forme, così da essere giudicato «da una parte per questa sua variabilità e dall’altra per la perfezione dei singoli pezzi e per la loro combinazione. Al posto della conformazione subentra un principio di costruzione; invece dell’insieme della forma si giudicano i vari gruppi. La cosa più importante non è il giudizio estetico, ma la comodità e la libertà dell’utente, al quale l’edificio non si presenta nel suo insieme, ma nelle singole parti, cioè entrata, ascensore, cucina, ecc. ecc.».19

Un precedente: «Aktuelle Baumethoden und Ihre Querverbindung zu Kunst und Technik»

La tesi sembra chiara. Ma come metterla in scena? I curatori scelsero un approccio allo stesso tempo pragmatico e poetico. Da un lato, si cercò di approfondire l’effetto della moltiplicazione di case e abitanti con esempi legati alla pratica concreta; dall’altro lato, fu proposta una declinazione più libera, attraverso il ricorso a grafica, scultura e musica.

Il riferimento a un ambito disciplinare più ampio è esplicitato nelle bozze del programma curatoriale.20 I curatori citano una tavola rotonda intitolata Metodi attuali di costruzione e loro legame con l’arte e la tecnica, messa in scena per la Schweizerische Zentralstelle für Baurationalisierung del 1967 dall’ingegnere elettronico Fritz von Ballmoos, dal musicologo Hans Oesch21 e dall’architetto Rolf Gutmann, quest’ultimo nel team di curatori alla Triennale. Risonanza all’evento fu data dalla rivista «Werk», di cui Burckhardt era al tempo Chefredakteur: si sottolineò il proposito degli organizzatori di interrogarsi sui philosophischen Grundlagen della razionalizzazione, e soprattutto i sorprendenti parallelismi in questo campo tra l’architettura, l’elettrotecnica e la musica contemporanea.22

L’evento del 1967 costituisce un diretto antecedente dell’esposizione svizzera del 1968, e ci aiuta anche a dipanare l’intreccio di relazioni e competenze incontratesi a Milano. Rolf Gutmann, zurighese, aveva alle spalle esperienze rilevanti: studiò con Sigfried Giedion; lavorò negli studi di Ernst F. Burckhardt e Karl Egender, poi di Otto H. Senn a Basilea; membro CIAM, fece parte del Comitato organizzativo del X Congresso, insieme a Jaap Bakema, Georges Candilis e Peter Smithson. Nel 1955 aveva aperto uno studio con Felix Schwarz e tra il 1957 e il 1961 era assistente di Alfred Roth all’ETH di Zurigo, dove più tardi insegnerà.23 Insieme ai soci Felix Schwarz,24 Frank Gloor e Hans Schüpbach, Gutmann diverrà celebre per la vittoria del concorso per lo Stadttheater di Basilea (1963). Da ricordare sono anche i legami tra Burckhardt, Roth, Schwarz e Gutmann. Quest’ultimo aveva collaborato al volume Achtung: die Schweiz,25 pubblicato da Burckhardt con Max Frisch e Markus Kutter nel 1955; Schwarz e Gutmann lavorarono con Burckhardt alla pianificazione di una città satellite vicino ad Amburgo (Bergstedt);26 nel 1961, Roth aveva portato a Zurigo Burckhardt per insegnare sociologia agli architetti dell’ETH, e fu affiancato da Gutmann. I due lavoreranno insieme anche nell’esperienza didattica di Lehrcanapé, tra il 1969 e il 1973.27

Prefabbricazione in cinque atti

Quella svizzera era la seconda sezione nazionale, dopo il Canada e prima della Romania, all’inizio della grande curva al piano terreno del Palazzo dell’Arte. Per l’allestimento, che occupava uno spazio di circa 17 x 9 m, gli architetti usarono pannelli di legno prefabbricati di 250 (h) x 100 cm, colorati di un giallo intenso, montati su tralicci metallici e utilizzati anche per il pavimento. Questi materiali donavano l’aspetto di un cantiere, così come «un carattere improvvisato quasi da sala da gioco».28 All’ingresso, il visitatore era accolto da un pannello di legno posto di traverso, dove si poneva la fatidica domanda alla base dello show («Limita la prefabbricazione la libertà di scelta?») e la relativa risposta rassicurante.

Lo spazio fu diviso in cinque zone. La prima presentava un cortometraggio trasmesso da apparecchi televisivi intervallati, a cui i visitatori potevano assistere seduti su poltrone in pelle. La parte visiva era costituita dai disegni dell’illustratore e grafico svizzero Fredy Sigg, noto anche in Italia.29 L’audio trasmetteva invece in quattro lingue un testo dello scrittore svizzero Jörg Steiner, in cui la tematica del padiglione – in particolare il concetto di Austauschbarkeit, l’intercambiabilità – era narrata attraverso la descrizione dell’uomo comune: il Signor Rossi in italiano, Monsieur Durand in francese, Herr Meier in tedesco e Mister Smith in inglese.

In chiave ironica, Steiner raccontava di un cittadino anonimo, dotato di un numero dell’assicurazione, sposato e stimato dai colleghi, che «non fuma e non bestemmia». Uno come tanti: «se tutti fossero così!». Ma tale omologazione antropologica, tipica della società contemporanea, in realtà sottintende il suo esatto opposto: c’è infatti anche un potenziale Signor Rossi rivoluzionario, che «fa saltare i ponti», che «la domenica, colla dinamite, attraversa la città».30 In modo diverso, sembra suggerire Steiner, anche l’uomo è un componente standardizzato che può assumere un’estrema varietà di forme e comportamenti.

La seconda sezione (Libertà di scelta mediante composizione di elementi prefabbricati) era caratterizzata dalle composizioni cromatiche di Karl Gerstner, uno dei principali grafici svizzeri.31 In quegli anni, la sua ricerca artistica poteva essere affiancata alle tante sperimentazioni sul tema del modulo e della sua ripetizione, secondo traiettorie in diverso modo accostabili all’arte cinetica e al lavoro di figure come Enzo Mari in Italia, François Morellet in Francia, Heinz Mack in Germania o Jesús Raphael Soto in Venezuela, tra i tanti. L’opera installata alla Triennale, parte di una serie su cui aveva lavorato dal 1956,32 era intitolata Carro 64: 16 quadrati diversamente colorati che, lasciando la possibilità di mutarne la disposizione, dimostravano la libertà combinatoria dell’insieme. Un ulteriore elemento, il 17esimo, era posto separatamente e richiamava la serie esposta nel 1965 alla Staempfli Gallery di New York.33

L’opera di Gerstner era pensata per rappresentare la possibile differenziazione data dalla combinazione di elementi edili tridimensionali nell’edilizia residenziale, di cui si esponeva accanto il sistema di prefabbricazione Chübeli concepito da Schwarz, Gutmann e Gloor insieme all’ingegnere svizzero Heinz Hossdorf, e realizzato dalla ditta Polensky und Zöllner di Francoforte sul Meno. L’esposizione di alcuni annunci immobiliari voleva inoltre simbolizzare la necessità di un’offerta di abitazioni libera e corrispondente alle esigenze del cliente.34

La terza sezione (Libertà di scelta mediante composizione: dallo stesso elemento costruttivo risultano diverse costruzioni) presentava la scultura Polyvolume: surface multidéveloppable dell’artista brasiliana Mary Vieira, la quale, dopo essere entrata in contatto con Max Bill in seguito alla mostra da lui tenuta al MASP di São Paulo, nel 1951 si era trasferita in Europa, passando gli anni successivi tra Svizzera e Italia. Anche in questo caso, essa era parte di una ricerca artistica iniziata anni prima, non distante dalle tesi dell’arte programmata e cinetica,35 specie sulla nota idea di «opera aperta» teorizzata da Umberto Eco.36 Determinante, qui, risultava essere il coinvolgimento attivo dello spettatore, altra pista molto battuta dagli anni Cinquanta in avanti: si pensi, tra i tanti, ai «quadri trasformabili» del pittore israeliano Yaacov Agam.37

Vieira si concentrò sul concetto di polivolume,38 richiamando quanto fatto, ad esempio, nel 1960 per la lobby del Palazzo Itamaraty di Brasilia,39 e la lezione di Max Bill. Alla Triennale espose una scultura formata da tante lamine uguali, prodotte industrialmente, impilate su di un montante verticale, che il visitatore poteva muovere a piacere mettendo in discussione il concetto di forma e di autorialità. A un elemento sempre uguale corrispondevano ancora infinite composizioni. In corrispondenza della scultura, la sezione esponeva il sistema di prefabbricazione pesante Element S.A. di Tafers e quello di prefabbricazione leggera della U. Schärer Söhne AG di Müsingen, di Fritz Haller.

La quarta sezione fu la più originale. Nonostante il titolo (Libertà di scelta del sistema di traffico), essa si distingueva per una speciale installazione musicale (Région II) concepita appositamente per la Triennale dal compositore svizzero Hans Ulrich Lehmann (1937-2013) e sviluppata dall’ingegnere von Ballmoos, già menzionato, con Hans Harder.

Spiegava Lehmann: «Per realizzare la mia composizione […] vengono utilizzati i miei “strumenti” in modo insolito e non del tutto convenzionale cosicché possano soddisfare il carattere spesso un po’ sperimentale della mia musica».40 Le fotografie mostrano 16 violini sospesi in aria in sequenza ordinata, a file di quattro, per creare una sorta di matrice che richiama la composizione di Gerstner. I violini, provvisti di rulli incisi dalla ditta Reuge SA di S.te Croix, funzionavano in realtà come dei carillon, corrispondenti a 16 sequenze musicali composte da Lehmann, che il visitatore poteva «suonare» (con un pulsante) scegliendo quattro sequenze e la loro successione, per un totale di 69.904 possibili varianti. Durante l’esecuzione era possibile seguire la composizione tramite un segnale luminoso corrispondente alla partitura.41

A seconda della scelta fatta l’andamento formale della musica mutava completamente, fino ai seguenti estremi: massimi contrasti tra le singole sessioni e allineamento di pezzi somiglianti.42 Una contestualizzazione più approfondita di questa composizione è fornita, in questo numero di Archi, dal musicologo Simon Obert; possiamo però ricordare come questo tipo di esperimenti fosse comune all’epoca (si pensi alla musica aleatoria di Bruno Maderna con Serenata per un satellite del 1969; ma anche Luciano Berio, Luigi Nono) e che in Svizzera corrispondesse a una sorta di rigenerazione culturale e musicale stimolata anche da Rolf Liebermann, che all’Expo del 1964 aveva presentato una sinfonia (Les échanges) suonata da 156 macchine da ufficio.43 Si noti che sia von Ballmoos, sia Harder, avevano partecipato a tale performance.

Nell’intenzione dei curatori, l’installazione di Lehmann doveva alludere al tema della libertà di scelta con un metodo predeterminato, come nelle reti di traffico in piano urbanistico nel quale coesistono rigidità ed elasticità. Seguendo il titolo della sezione, si esponevano infatti gli studi urbanistici per Amburgo-Bergstedt compiuti dagli stessi Schwarz, Gutmann, Gloor e Burckhardt, che «si pongono in antitesi alla convenzionale «urbanistica organica» e alla tradizionale «costruzione artistica della città».44

Infine, nella quinta sezione, intitolata Libertà di scelta mediante programmi intercambiabili. Libertà di scelta nello stesso appartamento mediante diverso uso delle camere, si mostrava l’arredamento di due appartamenti di quattro locali ciascuno, tramite i disegni di Fredy Sigg.

Da un’altra prospettiva: Cubo e Cubina a Zurigo

Una simile descrizione della Sezione svizzera del 1968 fila abbastanza, e – dal punto di vista della tesi di fondo proposta – ricalca a grandi linee quanto sintetizzato nel catalogo della mostra pubblicato a Milano. In altre parole, almeno dalla prospettiva italiana, dal padiglione sembra emergere un ottimismo di fondo rispetto alle potenzialità dell’industrializzazione e della prefabbricazione per l’edilizia abitativa, comprovata da stimolanti performance artistiche. A questa visione sembra tuttavia mancare una controparte importante, per la cui comprensione dobbiamo valicare il confine.

Pochi mesi dopo la conclusione della Triennale del 1968, il Kunstgewerbemuseum di Zurigo decise di riprendere i contenuti del Mailänder Pavillon creandone – nell’ottobre dello stesso anno – una riedizione aggiornata, pensata come occasione di dibattito e di confronto. Come recitava l’introduzione al catalogo della mostra zurighese: «In ogni sua presentazione all’estero la Svizzera rivela una determinata coscienza di sé; questo, insieme al fatto che la partecipazione alla Triennale del 1968 è stata compromessa dalle manifestazioni studentesche e alla tematica del padiglione stesso, strettamente legata ai compiti di una scuola di design, ci ha spinto a riproporre la presente mostra al Kunstgewerbemuseum e sottoporla a dibattito».45

Di grande interesse risulta essere proprio il catalogo, nel quale i contributi visti a Milano trovano un’ulteriore definizione teorico-critica e a cui si aggiungono reazioni a quanto già esposto. Ad esempio, il testo di Burckhardt, che nel catalogo milanese era diluito in forma anonima, qui si apre con una critica implicita all’istituzione milanese: «…dalla partecipazione italiana, si ha spesso l’impressione che le intenzioni espositive prevalgano per importanza sui messaggi sostanziali […]. Per la Svizzera non può trattarsi di partecipare a questa corsa alla perfezione teatrale».46

Una disamina completa del volume trascende le possibilità del presente scritto; tuttavia possiamo segnalare altri contenuti che approfondiscono il tema della libertà di scelta. In linea con i disegni di Fredy Sigg e l’ironia sul Signor Rossi, il catalogo offre ad esempio un testo intitolato Cubo und Cubina im Chübeli-Paradies, nel quale la parodia di due novelli sposi (Cubo e Cubina) alle prese con la vita in un edificio prefabbricato con uno dei sistemi esposti in mostra, diviene l’espediente per riflettere sulla condizione abitativa contemporanea. L’autrice è Lotte Schwarz, moglie dell’architetto Felix Schwarz, già bibliotecaria presso l’Archivio Sociale Svizzero di Zurigo e poi copywriter e autrice freelance.47 Anche Lore Ditzen commenta, a posteriori, quanto visto a Milano: nel suo testo Kritik des Konsumenten (Critica dei consumatori) avanza sogni e dubbi legati al concetto di libertà di scelta e alla sua concreta applicazione in tale tipo di edilizia: «Libertà di scelta – lascio che l’espressione mi si sciolga in bocca: ha un sapore delizioso, promette di più. [...] E andiamo, mi avete promesso libertà di scelta fornendomi tutte le possibilità tecniche: voglio abbattere il muro ora, voglio più spazio. Oggi mi va così. Dov’è che i desideri trovano un argine? O sono illimitati? Posso fare tutto? [...] Ci promettono la libertà, ma ci caricano di responsabilità. Fin dove arriva la libertà, e fin dove la responsabilità? [...] Dietro le dimensioni note del Chübeli, il prodotto in serie, ci sono quelle ignote che determinano il processo della sua combinazione. La libertà di scelta esiste solo se sono disponibili anche queste misure. Non ingannatemi con paragoni estetici da Belle Arti. Datemi – voglio usarle – più informazioni».48

Le riflessioni di Lotte Schwarz e Lore Ditzen sembrano attenuare l’ottimismo apparente dello statement proposto alla Triennale, o quantomeno pongono l’accento sulle problematicità implicite in tale approccio all’edilizia. Così, la prospettiva svizzera49 permette di contestualizzare meglio il contributo curatoriale, cogliendone sfumature più complesse, ad esempio guardando a che cosa si stava effettivamente costruendo, con la prefabbricazione, in Svizzera.

Architettura o rivoluzione?

Un caso per tutti, ben noto, è quello dell’imprenditore Ernst Göhner, che tra il 1965 e il 1975 costruì migliaia di appartamenti prefabbricati in Svizzera.50 Il primo fu il complesso di Sunnebüel a Volketswil: l’avvio del cantiere, con l’assemblaggio delle prime lastre, fu proposto come uno spettacolo collettivo (ancora una volta: la prefabbricazione in mostra) a simboleggiare l’ingresso in una nuova era della Wohnungsproduktion elvetica.51 Un simile cerimoniale nascondeva tuttavia, a Volketswil come altrove, un malcontento che dalle popolazioni locali si estese – con la comparsa di decine di algidi blocchi abitativi, alieni dal tradizionale paesaggio – in altri ambiti, come quello dell’ETH di Zurigo, in quegli anni molto agitato.

Nel 1970, infatti, Jörn Janssen, docente tedesco invitato, sarà licenziato (insieme ai colleghi Hermann Zinn e Hans-Otto Schulte) con l’accusa di essere un agitatore comunista, impegnato a inculcare idee politiche sovversive negli studenti. Nel 1972, dalle sue lezioni sboccerà – per mano di un gruppo di studenti e assistenti – un opuscolo di denuncia intitolato Göhnerswil – Wohnungsbau im Kapitalismus,52 con la postfazione di Janssen, che vendette ben 26.000 copie. Al centro di questa Indagine sulle condizioni e sugli effetti della produzione di abitazioni private, svolta applicando la teoria marxista del plusvalore alla costruzione di alloggi di massa nel settore privato, c’era proprio Sunnebüel, preso ad esempio dell’atteggiamento senza scrupoli di Ernst Göhner e dell’incompetenza degli organismi di controllo locali, sfruttata dall’imprenditore, che nel frattempo era morto. La pubblicazione studentesca ebbe una forte eco nella stampa elvetica, mentre i prezzi del mercato immobiliare continuavano a salire. Un titolo per tutti: «Per quanto tempo ancora dovremo sopportare questi moderni briganti?».53

Interessante, dal punto di vista mediatico, è la presenza di alcune caricature umoristiche di critica ai grandi complessi residenziali: anch’esse, come i fumetti di Fredy Sigg alla Triennale, cercavano di rendere accessibili al «grande numero» i complessi temi dell’edilizia e dell’urbanistica.54 Al battage mediatico contribuirà inoltre l’uscita del documentario Die grünen Kinder (1972) del regista Kurt Gloor (1942-1997), in cui si sosteneva come donne e bambini di questi insediamenti fossero socialmente emarginati, e il documentario Zur Wohnungsfrage 1972 di Hans e Nina Stürm, vicino al punto di vista di Janssen. Come ha evidenziato Fabian Furter, alla critica «rossa» si aggiunse quella «verde»,55 che denunciava i danni per l’ambiente provocati dal consumo di territorio, mentre lo stesso anno a San Gallo veniva presentato il noto rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo. Con la crisi energetica del 1973, in Svizzera e altrove, si assisterà al crollo dell’attività edilizia.

È curioso notare come le conseguenze di tale critica all’edilizia residenziale di massa portino ancora a Milano. In sostituzione di Jörn Janssen, dalla capitale lombarda giunse infatti all’ETH un ben noto Signor Rossi, che di nome faceva Aldo (1931-1997) e che tanta influenza avrà sull’architettura elvetica successiva.56 Una grande rivoluzione, ma di tipo molto diverso.

Per tirare le somme dobbiamo però tornare al Signor Rossi della Triennale del 1968. La natura bifronte tratteggiata da Jörg Steiner – che dipingeva un esemplare di «uomo medio» sospeso tra la perfetta omologazione nel sistema e un potenziale (e speculare) ruolo sovversivo – sembra riassumere l’ambivalenza, o l’ambiguità, del padiglione svizzero. Osservato sullo sfondo del contesto elvetico, e allargando la visione alla sua riproposizione zurighese ed alle riflessioni che intanto montavano in vari ambienti, il programma curatoriale risulta infatti essere in bilico tra il tentativo di rassicurare sulla libertà di scelta permessa dall’industrializzazione e la contemporanea evocazione del possibile fallimento di quelle promesse, o almeno della tortuosa strada per inverarle. Non a caso, il tema era stato scelto proprio da Burckhardt, il quale – tra l’altro – negli stessi anni portava avanti un’azione di critica allo sviluppo urbanistico (anche rispetto all’esclusione dell’utente dal processo progettuale)57, e che aveva collaborato proprio con Janssen.58

Su questa pista, ulteriori strade si potrebbero aprire. Ma forse allora, il maggior merito del team curatoriale può essere individuato nell’avere (più o meno esplicitamente) messo sotto gli occhi del pubblico milanese e zurighese non tanto la soluzione, ma innanzitutto il problema. Dietro a una tesi chiara e decisa, apparentemente ottimistica, si lasciava aperta la possibilità di una sua messa in discussione. Non una rivoluzione, ma una presa di coscienza.

Note

 

1 J. Ryser, Kulturrevolution statt Triennale, «Werk», vol. 55, n. 7, luglio 1968, s.p. [Aktuell]. La stessa scritta in italiano fu dipinta sulla facciata del Palazzo dell’Arte dai contestatori.

 

2 Per la stesura di questo testo ho approfittato della gentilezza e della competenza di molte persone. Per questo voglio ringraziare André Bideau, Jacques Gubler, Quintus Miller, Simon Obert, Massimiliano Savorra, Martin Schmitz, Tommaso Tofanetti e Ruggero Tropeano.

 

3 P. Nicolin, Castelli di carte. La XIV Triennale di Milano, 1968, Quodlibet, Macerata 2011.

 

4 FLTM, TRN_14_DT_021_C, Arch. Schwarz, Gutmann e Gloor [e L. Burckhardt], Programma per la Triennale di Milano – 1968, s.d., p. 1.

 

5 P. Nicolin, Castelli di carte, cit., p. 27.

 

6 FLTM, TRN_14_DT_021_C, Arch. Schwarz, Gutmann e Gloor [e L. Burckhardt], Programma…cit., p. 1.

 

7 Cfr. 17. Sezione della Svizzera, in A. Pica (a cura di), Quattordicesima Triennale di Milano. Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna, Arti Grafiche Crespi & Occhipinti, Milano 1968, p. 83.

 

8 G.E. Kidder Smith, L’Italia costruisce. Sua architettura moderna e sua eredità indigena, Edizioni di Comunità, Milano 1955, p. 130.

 

9 Cfr. F. Albani, Expérimentations en Italie dans l’après-guerre: le quartier QT8 à Milan: réalisations, évènements, perspectives, in F. Graf, Y. Delemontey (a cura di), Architecture industrialisée et préfabriquée: connaissance et sauvegarde, Presses polytechniques et universitaires romandes, Lausanne 2012, pp. 241-271.

 

10 E. Gentili, cit. in A.M. Talanti, L’industrializzazione edilizia in Italia, cit., p. 113.

 

11 E. N. Rogers, Problemi di metodo. (La prefabbricazione), 1944, in Id., Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1958, p. 80.

 

12 Ivi, p. 86.

 

13 Tra i contributi più interessanti si veda E. Paci, L’applicazione del metodo industriale all’edilizia e il problema estetico, «La Casa. Quaderni di architettura e di critica», a cura dell’Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati della Stato (INCIS), 4, 1957, pp. 73-80.

 

14 17. Sezione della Svizzera, p. 83.

 

15 Ibid.

 

16 Ibid. Queste parole ricompaiono in L. Burckhardt, Vorbemerkung zum Thema, in Triennale 1968. Schweizer Beitrag, catalogo della mostra al Kunstgewerbemuseum (5/10-3/11/1968), Fabag, Zürich 1968, pp. 7-8.

 

17 Ibid.

 

18 FLTM, TRN_14_DT_021_C, Arch. Schwarz, Gutmann e Gloor [e L. Burckhardt], Programma…cit., p. 3.

 

19 Ibid.

 

20 FLTM, TRN_14_DT_021_C, Arch. Schwarz, Gutmann e Gloor [e L. Burckhardt], Programma, cit., p. 1.

 

21 T. Waldmann, Hans Oesch, in A. Kotte (a cura di), Theaterlexikon der Schweiz, Band 2, Chronos, Zürich 2005, p. 1341.

 

22 C. Huber, Rationalisierung, «Werk», vol. 54, n. 7, luglio 1967, p. 445.

 

23 http://www.team10online.org/team10/members/gutmann.htm consultato il 10/11/2022.

 

24 Per una biografia: Laudatio, «Werk, Bauen + Wohnen», vol. 84, n. 5, maggio 1997, p. 78.

 

25 L. Burckhardt, M. Frisch, M. Kutter, Achtung: die Schweiz. Ein Gespräch über unsere Lage und ein Vorschlag zur Tat, K. Werner, Basel 1955.

 

26 Cfr. R. Züger, Experiment Lehrcanapé 1970-73 Müssen Architekten Marx lesen?, in https://www.lucius-burckhardt.org/Deutsch/Biografie/Lucius_Burckhardt.html, consultato il 10/11/2022.

 

27 S. Blumenthal, Das Lehrcanapé: Lucius Burckhardt und das Architektenbild an der ETH Zürich 1970–1973, Standpunkte, Basel 2010.

 

28 FLTM, TRN_14_DT_021_C, Arch. Schwarz, Gutmann e Gloor [e L. Burckhardt], Programma, cit., p. 4.

 

29 Sigg fu premiato pochi anni prima con il Dattero d’argento (1964) e la Palma d’oro (1965) al Salone internazionale dell’umorismo di Bordighera.

 

30 FLTM, TRN_14_DT_021_C, 14. Triennale Milano 1968. Svizzera, Volantino, 1968. Il volantino, distribuito in mostra, fu impaginato da Sven Knebel (1927-2013).

 

31 M. Staber, Karl Gerstner, «Werk», vol. 54, n. 4, aprile 1967, pp. 221-225.

 

32 K. Gerstner, Kunst im Supermarket?, «Werk», vol. 54, n. 4, aprile 1967, pp. 226-227.

 

33 Si veda la sua mostra alla Staempfli Gallery di New York, 2-20 febbraio 1965.

 

34 Su questo tema di veda anche F. Gloor, Die Freiheit des Mieters, «Werk», vol. 57, n. 12, dicembre 1970, pp. 776-786.

 

35 F. Popper, L’arte cinetica. L’immagine del movimento nelle arti plastiche dopo il 1860, Einaudi, Torino 1970.

 

36 Cfr. il testo di Eco in Arte programmata: arte cinetica, opere moltiplicate, opera aperta, catalogo della mostra (Milano, maggio 1962), Officina d’Arte grafica A. Lucini e C., Milano 1962; U. Eco, Opera aperta: forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 1964.

 

37 Cfr. F. Popper, L’arte cinetica, cit., pp. 141-145.

 

38 E. Gomringer, Das «Polyvolume» von Mary Vieira, «Werk», vol. 52, n. 3, marzo 1965, pp. 105-107.

 

39 L. Valle, Twisting the Modernist Curve: Mary Vieira’s Polyvolume: Meeting Point, in A.S. Bessa (a cura di), Form and Feeling: The Making of Concretism in Brazil, Fordham University Press, New York 2021, pp. 89-102.

 

40 H.U. Lehmann, cit. in FLTM, TRN_14_DT_021_C, Arch. Schwarz, Gutmann e Gloor [e L. Burckhardt], Programma, cit., p. 8.

 

41 Cfr. H.U. Lehmann, Zur Form, in Triennale 1968, cit., pp. 20-22.

 

42 Ivi, p. 9.

 

43 C. Piccardi, Music and Artistic Citizenship: In Search of a Swiss Identity, «Schweizer Jahrbuch für Musikwissenschaft», nuova serie 28-29, 2008-2009, Lang, Bern 2010, pp. 259–310; Paul-André Gaillard, La musique et l’Exposition nationale, «Schweizer Musikzeitung», n. 104-105, settembre 1964, p. 311.

 

44 Triennale 1968, cit.

 

45 Geleitwort, in Triennale 1968, cit., p. 2.

 

46 L. Burckhardt, Vorbemerkung zum Thema, in Triennale 1968, cit., p. 7. Tali parole erano contenute anche nel programma curatoriale, inviato alla Triennale. Cfr. FLTM, TRN_14_DT_021_C, Arch. Schwarz, Gutmann e Gloor, Programma, cit., p. 2.

 

47 Si veda ad esempio L. Schwarz, Tagebuch mit einem Haus, Girsberger, Zürich 1956.

 

48 L. Ditzen, in Triennale 1968, cit., pp. 6-7.

 

49 Cfr. anche H. Neuburg, Zürich. Triennale 1968. Der Schweizer Beitrag, «Werk», vol. 55, n. 12, dicembre 1968, p. 843.

 

50 F. Furter e P. Schoeck-Ritschard, Göhner Wohnen. Wachstumseuphorie und Plattenbau, Hier + Jetzt, Baden 2013.

 

51 F. Furter, Sunnebüel Volketswil. Kritik von Rot bus Grün, in F. Furter e P. Schoeck-Ritschard, Göhner Wohnen, cit., p. 187.

 

52 Autorenkollektiv an der Architekturabteilung der ETH Zürich, «Göhnerswil». Wohnungsbau im Kapitalismus, Verlagsgenossenschaft, Zürich 1972.

 

53 «Zürcher AZ», 25 maggio 1972. Per un approfondimento cfr. F. Furter, Sunnebüel Volketswil, cit.

 

54 Su questi temi si veda G. Neri, Caricature architettoniche. Satira e critica del progetto moderno, Quodlibet, Macerata 2015.

 

55 Cfr. R. Keller, Bauen als Umweltzerstörung, Artemis-Verlag, Zürich 1973.

 

56 M. Moravànszky e J. Hopfengaertner (a cura di), Aldo Rossi und die Schweiz: architektonische Wechselwirkungen, GTA Verlag, 2011.

 

57 L. Burckhardt, Bauen – ein Prozess ohne Denkmalpflichten, conferenza al Deutscher Werkbund, Karlsruhe, 1967, «National-Zeitung», n. 411, 6 settembre 1968; ora in Id., Il falso è l’autentico, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 33-44. In particolare il paragrafo No all’esclusione dell’utente!.

 

58 Cfr. ad esempio L. Burckhardt, Politische Entscheidungen der Bauplanung, in H. G. Helms, J. Janssen (a cura di), Kapitalistischer Städtebau, Neuwied, Berlin, 1971, pp. 37-47.

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