Ric­car­do Da­li­si: fia­be dal­la cru­da real­tà

Data di pubblicazione
05-01-2024

Napoli, fine anni Sessanta. Dopo un decennio passato a disegnare case, scuole e palazzi di vario tipo, lodati pure da Bruno Zevi, l’architetto Riccardo Dalisi (1931-2022) ebbe una crisi d’identità professionale. Il tecnigrafo non era più sufficiente a soddisfare una dimensione etica del progetto che – sull’onda della contestazione sessantottina – premeva sulle coscienze dei più sensibili.

Così Dalisi, che pure insegnava all’università, decise di ripartire dai margini urbani, portando i suoi studenti al Rione Traiano, ambizioso piano del dopoguerra ispirato a modelli scandinavi ma – come più tardi Scampia – divenuto simbolo di isolamento e degrado per i pochi servizi realizzati, il doppio della popolazione prevista e altre promesse non mantenute.

Un brano dai suoi diari, del 30 giugno 1972, ce ne offre un’immagine nitida e drammatica: «È una giornata infuocata. Nell’ora della siesta, Napoli sembra una città deserta […]. Ma appena giunti nel rione, i soliti gruppi di bambini la popolano come sempre. Storditi dal caldo, come sonnambuli si muovono tra i porticati e nelle zone d’ombra, senza sosta. […] neppure per un minuto essi mollano la presa su questo rione nato morto». Una serie di fotografie ci mostra proprio questo: piccoli abitanti appesi ai ferri d’armatura di un cantiere abbandonato. Commentava ironicamente Dalisi: «Non c’è una palestra al Traiano? Ma sì, il cantiere della chiesa grande ne è un esempio divertente. I bambini usano i grandi ferri liberi come pertiche ed altalene. In questi giorni scavano sotto il solaio della navata centrale una tana profonda accumulando i detriti ai margini. In una palestra vera non si sarebbe potuto fare».

Da principio, Dalisi sognò di costruire un asilo insieme agli abitanti, applicando il principio della partecipazione che ammirava nell’amico Giancarlo De Carlo. Fu impossibile. Allora decise di armarsi di fogli e pennarelli, legno e gessetti, chiodi e martello, avviando dei pioneristici laboratori con i bambini del quartiere per produrre oggetti, giocattoli e bizzarri arredi: sedioline minuscole ma anche enormi troni che paiono usciti da una favola. E poi installazioni effimere, poverissime e poetiche. L’occhio di Dalisi seppe infatti guardare oltre la desolazione, ad esempio trovando nei ferri ritorti del cantiere una peculiare fioritura di vegetazione artificiale, segni grafici che si stagliano nel cielo trascendendo la loro incompiuta funzione. In una di queste, un fascio di mate­riali di scarto parte da terra e vola in aria, creando una spiazzante successione di archi, tracce di speranza per bambini che vivevano alla giornata.

Da quei laboratori, negli anni successivi sbocceranno innumerevoli esperienze di partecipazione, inclusione e valorizzazione della cultura artigianal-popolare; più avanti, l’idea di un design «ultrapoverissimo» e sostenibile, legato alle teorie della decrescita. Dalisi vincerà due Compassi d’Oro, ma inventerà il Compasso di Latta come alternativa critica agli eccessi del settore. Una missione sociale attraverso la creatività, capace di scorgere spazi di manovra dove altri vedevano solo il degrado. «Caro Dalisi – gli scrisse l’amico Ettore Sottsass – […] mi è parso di capire che tu sei a questo punto. Sei lì a cercare processi e metodi di liberazione muovendoti in quegli spazi sottili, rarefatti e se vuoi ambigui, lasciati liberi, sembra, per disattenzione, o forse per calcolo o forse per paura, da quelli che i loro giochi li hanno oramai fatti tutti […]. Quegli spazi tu li conosci bene».

Riccardo Dalisi – Radicalmente
Roma – MAXXI 10.11.2023 - 3.03.2024

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