«Mo­tion, émo­tions» di Jac­ques Gu­bler

Architettura, movimento e percezione

Il volume degli scritti di Jacques Gubler «Motion, émotions» tradotti in italiano è comparso in libreria come numero 7 della collana «Il pensiero dell’architettura» delle edizioni Christian Marinotti.

Data di pubblicazione
12-08-2014
Revision
08-10-2015

Come lettori e studiosi sanno, questa collana, curata da Simona Pierini, si compone di alcuni testi importanti dello scenario dell’architettura contemporanea. Non elencandoli per brevità tutti qui, basta ricordare il penultimo uscito nel 2012 per considerane lo standard: L’Altra Modernità, considerazioni sul futuro dell’architettura raccolta di recenti contributi e di un’intervista di Rafael Moneo, inediti in italiano.

Va anche osservato che, sebbene questa collana si situi nel campo d’interesse di Marinotti, focalizzato sulle arti visive, di questi tempi è valoroso fiancheggiare collane ben più vaste come «Carte d’artisti» di Abscondita editore, evidentemente facendo riferimento alla necessaria tenuta della «piccola» editoria scomparsa come quella del Pesce d’Oro di Scheiwiller, piuttosto che rimandando alla editrice parigina «Les editions du Linteau» che persegue la pubblicazione di testi di architetti e ingegneri francesi ed europei. Non è forse questa la via per l’internazionalizzazione della cultura nella globalizzazione?

Il libro ha un titolo intraducibile, poiché la coppia problematica dei due termini è formata dalla semplice anteposizione e posposizione di una lettera alla stessa sequenza alfabetica del primo termine nel secondo, mettendo in connessione il movimento con le sensazioni. Il testo, presentato da Mario Botta e posfatto dal traduttore/curatore Carlo Gandolfi, è composto da sette saggi e da un abbecedario. Di questi solo quello su Le Corbusier dedicato al Partenone, non appariva nell’edizione originale in francese Infolio, Gollion, 2003. La selezione di Gubler e Gandolfi é così orientata definitivamente verso la percezione dell’architettura come lettura preferenziale ed elemento sostanziale del suo giudizio.

La visione e i movimenti del corpo, che Gandolfi relaziona nella postfazione alla necessità della coordinata del tempo applicata alle tre dimensioni dello spazio della vita quotidiana, hanno isolato dal testo precedente i saggi sulla camminata e l’architettura del suolo, la letteratura di stazione e la ferrovia, la scoperta architettonica del paesaggio aereo passando dalla vista obliqua in movimento a quella a volo d’uccello, e alla riflessione sulla percezione sensoriale. Da questa messa a fuoco non sono esclusi lo scritto su Le Corbusier citato e quello su Appia: «piedi nudi che salgono una scala». Altri due sono dedicati a peculiari case di architetti: «La Vedette» di Viollet le Duc a Losanna, abbattuta, e quella di Livio Vacchini a Costa in Canton Ticino. Direi che i testi scelti di Motion, émotions, con l’aggiunta del Partenone di LC, si collegano qui in forma di chiosa del libro medesimo, oppure in forma di conclusione retorica alla illustrazione dei suoi argomenti, piuttosto che di aggiunta o precisazione dei termini.

Così come le case, la casa di Livio Vacchini in particolare, costituiscono la dialettica e l’aporia dello stare con il muoversi. Per concludere il se promener dans le plan dei maestri francesi praticato in questo modo significa più chiaramente esplorare con l’andare del corpo la quota zero, compresa teoricamente fra -1.50 o +1.50 dal suolo. Attribuire alla sensazione dei piedi che avanzano tastando il terreno, il potere di trasporto sicuro dell’occhio nello spazio da attraversare, nella naturale posizione del suo asse orientato in avanti inclinato verso il basso. In questo modo si situano punti di stazione a terra nel sito, si fissano prospettive animate dallo spostamento fisico in sequenze di quadri, lo staccarsi da terra delle vedute in movimento trasformate nel vol-d’oiseau.

A dimostrazione del metodo e delle scoperte possibili, alle sorprese riservatici dall’impulso incontenibile al muoversi degli esploratori dell’ordinario, riporto la pagina di Gubler dedicata a una immagine e al testo che la commenta. Si tratta di uno dei «tombini» in ghisa incontrati nella sua visita a Chandigarh, la capitale del Punjab pianificata dal governo indiano nel 1950 e disegnata da Le Corbusier ma costruita nel seguente decennio con l’atttenta cura di suo cugino Pierre Jeannert con E.M. Fry e
J. Drew con P.L. Varma.

I tombini, bouche d’égout in francese per intenderci, riportano la pianta della città inscritta nella forma circolare tipica della chiusura/apparizione in superficie delle fognature. Ora ciò che appare impresso nella ghisa di fusione è la maglia a scacchiera del Piano orientata verticalmente che, come possiamo indovinare segna non solo il bordo degli isolati e il reticolo delle strade, ma la traccia delle reti impiantistiche nel sottosuolo. La scacchiera, interrotta dalla irregolarità in basso a sinistra del suo centro dell’orifizio per la chiave di sollevamento, è orlata nella parte alta dai segni delle curve di livello o dei fiumi che circondano la piana a destra e a sinistra. Fra questi in carattere bastone minuscolo in lettere isolate la parola «chandi» a sinistra e separata a destra la parola «garh». Sarebbe a dire la città «garh» della dea «chandi» a cui è dedicato il luogo. L’ambiguita propria di quest’immagine e della sua configurazione a questo punto lascia trasparire nel circolo un volto circondato dai capelli ondulati, con il tratto del viso al centro dell’astratta scacchiera. Il simbolo delle città compare nell’immagine e con il potere della parola s’identifica il volto della dea rappresentato nei tratti della mappa.

Considero per finire il rilevante spessore della leggerezza di Jacques Gubler, di cui abbiamo usufruito tutti dal potere evocativo degli accostamenti di testo/immagine delle sue «cartoline alla signora Tosoni» di Casabella alle passeggiate fatte insieme agli studenti. Quanto di questo suo straordinario atteggiamento critico, riflesso nell’atteggiamento di ascolto di cui è portatore nella sua flanerie costante, è incline alla contaminazione e alla invenzione a portata di mano che lo connota, quanto ci fa scoprire continuamente, nell’esperienza di ciò che ci circonda, la fantasmagoria dello straordinario.

Quanto questo vagare nei luoghi frugandone sensi e rimandi, osservando collocazioni e raccogliendo sensazioni, sia certo un atteggiamento volontario del progetto, ma porti a riconsidarare la libertà di associazioni e memorie involontarie rivelate dal corpo nel suo essere nel mondo. Il Rousseau delle passeggiate, filologicamente rivendicato da Gubler, e il flaneur di Benjamin, giustamente evocato da Gandolfi nella postfazione, stanno in questo paesaggio mi pare assieme ai cari Proust e Ruskin, memori involontari delle sensazioni delle proprie autobiografie evocate dai resti che incontrano. In conclusione forse più precisamente mi azzardo a rinviare il lettore per Jacques Gubler a Marcel Duchamp e a Dada, in cui motto di spirito e objet trouvé funzionano l’uno addosso all’altro inseparabili, ma anche per il suo libero e ostinato camminare conoscitivo a Henry D. Thoureau. È questa una ennesima provocatoria contaminazione trans-atlantica di cui ringrazio l’autore.

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