Mo­der­ni­tà espan­sa. So­vra­scrit­tu­ra e spe­ri­men­ta­zio­ne

Data di pubblicazione
28-04-2023
Daniele Frediani
arch., PhD, ricercatore in Progettazione architettonica e urbana, Sapienza Università di Roma

La constatazione che il patrimonio edilizio più recente sia per certi versi anche quello più fragile è ormai stabilmente al centro delle riflessioni sul fare architettura. Sottomettendosi alla logica dei processi produttivi industriali, l’architettura ha parametrizzato il ciclo di vita utile dell’edificio, accettandone un naturale e irreversibile deperimento fisico al pari di un prodotto di consumo. Attraverso la lente funzionalista, l’organismo architettonico è stato lungamente inteso come un bene caratterizzato da processi di obsolescenza e dunque sostituibile, assoggettandone il destino alle oscillazioni economiche e sociali del suo tempo: laddove non è più utile, perde la sua ragione di esistere e può quindi essere sacrificato.

L’enorme sviluppo edilizio che ha interessato il territorio europeo dopo il secondo conflitto mondiale – e quello svizzero non fa eccezione – ci ha lasciato in eredità un campionario eterogeneo di tipologie (la casa unifamiliare, l’edificio multipiano di abitazione, il capannone industriale, il complesso scolastico per corpi aggregati ecc.) e tecnologie costruttive ancora tutto sommato sperimentali, legate soprattutto all’affermazione del calcestruzzo armato nelle sue molte fogge, che ha introdotto modalità di messa in opera totalmente nuove rispetto al passato, in risposta alla logica pragmatica dell’edificio-macchina che ne aveva immaginato un rapido degradamento fisico e un altrettanto rapido processo di sostituzione.

A distanza di almeno mezzo secolo stiamo entrando in un periodo cruciale, che costituisce il giro di boa per un numero esorbitante di edifici che affollano il territorio europeo e non solo. Perduta la loro funzione originale, e ormai bisognosi di un tagliando, questi manufatti pongono il mondo delle costruzioni (nell’accezione più vasta, che va dalla figura del teorico a quella dell’industriale) di fronte al riconoscimento di un valore che si manifesta per quantità più che per qualità. Ciò è verificabile se si indirizza lo sguardo al tema dell’abitazione, che costituisce la parte più consistente di quel tessuto edificato che reclama oggi un nuovo sguardo critico. Prolungare la vita di questo vasto patrimonio, diffuso e ordinario, significa dunque rimettere in discussione la previsione stessa della sua durabilità e del suo limite ultimo di utilizzo. Vuol dire, in altre parole, mettere in moto dei meccanismi inediti di riattivazione, facendo affidamento sulla convenienza di questa opzione rispetto ad altre che, in fin dei conti, si rivelano assai meno vantaggiose. Proprio la grande quantità di costruzioni che si approssimano alla fine prevista del loro funzionamento, è una delle principali ragioni di questo cortocircuito: il combinato disposto di crisi economica (mancanza di risorse) e crisi demografica (mancanza di abitanti) da un lato sta svuotando un gran numero di immobili dalle attività per cui sono stati concepiti, dall’altro rende impossibile una loro sostituzione con nuovi manufatti. Le recenti sensibilità indicano la demolizione come un’alternativa troppo onerosa e insostenibile per poter essere effettuata su una così larga scala.

Ciò conduce a una doppia riflessione: in primo luogo è necessario dotarsi di un orizzonte teorico e di strumenti interpretativi adeguati per affrontare un tema che rimette in discussione la struttura stessa con cui quel patrimonio è stato immaginato. La seconda notazione riguarda invece l’affinamento di competenze tecniche specifiche, che vanno dalla diagnostica dell’edificio, alla sua contestualizzazione nel paesaggio antropizzato, fino alla cura della connessione tra vecchio e nuovo, prerogative che trovano nella fortunata accezione di baukultur un quadro concettuale in grado di tenere assieme tali istanze. Ricercare elevate qualità realizzative e trasformative significa non solo riconoscere il pregio di una soluzione architettonica, ma anche comprenderne il valore economico e valutarne l’incidenza reale sulle dinamiche sociali. La questione ambientale, che impone una seria prefigurazione circa ciò che avviene oltre la vita utile, concerne ad esempio il destino e l’impatto delle macerie da demolizione, ma anche l’impronta ecologica invisibile di una nuova costruzione. In futuro, l’integrazione di queste argomentazioni nei processi ordinari di rigenerazione urbana, dipenderà in larga parte dalla forza che avranno i progettisti di incamerare tali questioni nel loro approccio alla sovrascrittura dell’esistente.

Sovrascrivere l’esistente: categorie, strumenti, limiti

Laddove la modernità ha ricercato nella standardizzazione dei processi, nella prefabbricazione delle parti e nella razionalizzazione tipologica un metodo per ottimizzare i processi realizzativi dell’architettura, la scelta di trasformare un edificio è un passaggio che deve accettare la logica del caso per caso: le variabili in gioco si scontrano, infatti, non solo con questioni economiche o di sostenibilità, ma anche con problemi di tutela cui sono sottoposte opere significative poiché d’autore o per il ruolo percettivo che esse rivestono in particolari contesti urbani consolidati. Occorre domandarsi preliminarmente a quali condizioni sia possibile sovrascrivere un edificio, quali siano le modalità e quali gli strumenti progettuali adoperabili. Se Cedric Price nel suo disegno Six strategies for existing buildings1 ha proposto un approccio in cui la preesistenza è soggetta a operazione di natura sostanzialmente compositiva (riduzione, addizione, inserto, connessione, demolizione, espansione), il padiglione tedesco alla Biennale di Venezia del 2012 ha aggiornato il dibattito, suggerendo undici categorie di intervento che sposano la necessità di un’attribuzione di senso che prescinda l’immagine architettonica.2 Il riconoscimento dell’edificio come bene storico-artistico da conservare e tramandare lascia il posto a quello di documento che ha valore proprio in quanto esiste, consuma risorse e ha acquisito un ruolo nella forma del territorio e nelle abitudini degli abitanti. Da questa presa di consapevolezza si riesce finalmente a cogliere lo scarto dell’azione di sovrascrittura rispetto alle scuole del restauro o alle ormai consolidate modalità di approccio all’archeologia industriale che del restauro ha assimilato sia i codici etici sia le tecniche specifiche per il recupero. Al contrario, un approccio come quello suggerito in queste pagine presuppone una valutazione di ordine differente, circa le condizioni alle quali un’ipotesi di trasformazione sia possibile, a prescindere dalla qualità riconosciuta del manufatto su cui si prevede di operare.

Questo numero di Archi rispecchia la transizione in corso: tra i progetti presentati nella seconda parte, accanto al restauro filologico del Bagno pubblico di Bellinzona, ve ne sono altri che, con maggiore libertà, interpretano il tema della rifunzionalizzazione, dell’aggiornamento dell’immagine, dell’adeguamento e dell’estensione di costruzioni anonime, testimoniando dunque come nel panorama svizzero sia ormai acquisito che non solo l’architettura «alta», ma anche l’edilizia corrente, possa ambire a una seconda vita. Che il dibattito sia particolarmente fertile pur nella disomogeneità, lo testimonia inoltre Andreas Ruby nel numero 580 di «A+U», riconoscendo una rinnovata attenzione verso questi temi nell’opera di «molti degli architetti svizzeri emergenti di oggi, che sono affascinati dall’opportunità di confrontarsi con un contesto che ha già una storia, che possono approfondire ed estendere».3

La realtà svizzera reclama con crescente insistenza l’affinamento di strumenti operativi e codici espressivi per mettere mano a un patrimonio che, dopo l’esplosione dei decenni passati, vede ridursi costantemente il numero delle nuove costruzioni.4 Nell’istantanea che abbiamo davanti, un invecchiamento medio degli edifici si assomma all’urgenza di densificare le aree ai margini delle agglomerazioni: ragione che stimola ad assumere il tema della residenza come vero motore di rigenerazione di ampie parti di territorio. Il tema dell’abitazione è forse quello più esaustivo nel tracciare un disegno complessivo delle modalità e degli strumenti a disposizione per intervenire sull’esistente. Il panorama della casa nella Confederazione appare segnato da due specificità che lo rendono particolarmente ricettivo rispetto alle istanze di una possibile trasformazione: in primo luogo per la diffusione di un modello residenziale, quello delle case a bassa densità, oggi profondamente in crisi, ma pur sempre oggetto del desiderio di almeno tre generazioni di cittadini che hanno visto nella villetta indipendente suburbana, o nella casa di vacanza, lo status symbol del raggiunto benessere economico.5 La seconda è un favorevole rapporto (in relazione al problema che qui ci poniamo) tra abitazioni in affitto e in proprietà. Nonostante queste ultime stiano crescendo costantemente, in seguito all’introduzione della Proprietà per piani, la Svizzera sembra ancora esente dalla polverizzazione delle proprietà immobiliari che frammenta gli edifici in unità minime e rende estremamente complessi e farraginosi i processi decisionali, come nel caso di una ristrutturazione. Non sorprenda quindi che processi di trasformazione profonda siano più frequenti per le case unifamiliari e per i grandi complessi di social housing la cui proprietà risulti ancora indivisa e nelle mani di enti pubblici o di fondi di investimento.6

A queste condizioni se ne aggiungono ovviamente altre: l’adeguamento sismico delle strutture, la possibilità di attuare un’efficiente revisione distributiva e quella di sostitui­re o ridimensionare i collegamenti verticali, sono tutti enjeux che i progettisti sono chiamati ad affrontare e che trovano nel panorama della residenza il luogo privilegiato di una verifica capace di riflettersi poi su altre tipologie e su organismi più complessi. Reinserire quanto si va facendo in Svizzera nel contesto internazionale più prossimo ci permette di tessere una serie di paralleli tra l’affresco tratteggiato in questo numero e quanto invece avviene nel resto d’Europa. Anche oltreconfine l’intervento sul costruito anonimo è ormai un campo di applicazione a tutto tondo, che ingaggia i progettisti nella ricerca di strumenti capaci di ricondurre all’uso quotidiano strutture altrimenti destinate alla demolizione. Accertata, dunque, l’impossibilità di categorizzare strategie e metodi di intervento comuni o replicabili, possiamo allargare lo sguardo e tentare una ricognizione attraverso alcune significative realizzazioni europee degli ultimi due decenni.

La casa unifamiliare come banco di prova

La dimensione della casa unifamiliare appare oggi il più nitido banco di prova per la verifica dell’azione di sovrascrittura nell’edilizia ordinaria, rivelando come la stereotipia tradizionale della tipica abitazione unifamiliare ben si presti a operazioni di manipolazione, addizione, sostituzione di parti e sottrazione. Ma la validità è riscontrabile anche in senso contrario, e cioè che edifici originariamente concepiti per altre finalità trovino nella funzione residenziale un nuovo uso potenziale. Con l’esercizio di stile operato sulla propria casa di Santa Monica (1973), Frank O. Gehry ha in effetti dimostrato, seppure in altre latitudini, come il già accennato sogno borghese e tipicamente novecentesco della casa con giardino sia ormai esaurito nella sua dimensione espansiva e sia entrato in una fase di contrazione e risignificazione.

La progettista siciliana Maria Giuseppina Grasso Cannizzo rivendica una pratica progettuale artigianale e riflessiva, con la predisposizione ad accettare incarichi commisurati a questa dimensione che le danno modo di esplorare in molteplici direzioni il tema della casa unifamiliare con le sue continue mutazioni. Risale al 2001 - 2004 la ristrutturazione di una tipica villetta suburbana alla periferia di Ragusa, priva di particolari qualità e anzi definita da molti dei cliché stilistici che caratterizzano questa tipologia. Messa da parte l’ipotesi di una sostituzione edilizia, la progettista ha scelto di lavorare sul volume esistente per progressive sottrazioni: il tetto a spioventi è stato rimosso così come aggetti e balconi. Il linguaggio è stato asciugato in un processo di ruderizzazione che ha portato a un grado essenziale l’immagine della casa, al punto da decidere di non passare l’ultimo strato di intonaco per neutralizzare proprio quel facile cedimento linguistico che si è voluto cancellare.7 Il rapporto con il giardino, prima negato a causa di una cattiva distribuzione e dell’errato posizionamento delle finestre, è stato ripristinato, rimodulando le bucature e gli accessi. I materiali da demolizione sono stati riutilizzati in loco per realizzare un terrapieno che metta in relazione il giardino con i locali al piano superiore oltre che per schermare i rumori provenienti dalla strada.

A distanza di quindici anni Grasso Cannizzo è tornata sull’argomento con un progetto di trasformazione in residenza di un asilo in disuso nel borgo rurale di Mazzarrone, sempre in Sicilia. Il progetto, completato nel 2018, muove però in una direzione differente. Piuttosto che per una ristrutturazione profonda si è optato ora per piccoli aggiustamenti e modificazioni utili ad adattare i vecchi ambienti alla nuova funzione. Pur non intravedendo in questo anonimo edificio delle particolari qualità compositive, l’architetto ne riconosce una qualità spaziale tanto nella luminosità quanto nell’ampiezza dei locali che affacciano su un grande invaso a doppia altezza precedentemente adibito a mensa. L’adattamento, allora, si presta ad assumere una «dimensione interstiziale»8 per cui l’azione di sovrascrittura si dota di endostrutture indipendenti dall’involucro esistente, contenenti tutti i servizi utili al funzionamento della casa – bagni e cabine armadio – che contribui­scono inoltre a ridimensionare gli ambienti rispetto alle nuove esigenze abitative.

Un’altra realtà che più recentemente ha eletto a campo prediletto di indagine quello della residenza unifamiliare è quella del collettivo francese BAST (Bureau Architecture Sans Titre) con sede a Tolosa. Lavorare in una realtà locale, che facilita una ricca rete di rapporti diretti tra progettista e committente, ha permesso a BAST di intervenire ripetutamente su numerose case unifamiliari, mettendo a punto una postura tecnica e linguistica molto concisa e diretta: una forma di riduzione della loro immagine consolidata.

La casa di villeggiatura M27 (2020) nel villaggio di Mimizan è un piccolo padiglione rettangolare su un unico livello, realizzato in pannelli prefabbricati di calcestruzzo e coperto da un tetto a spioventi con orditura in legno. L’intera facciata verso il giardino è stata demolita e sostituita con una trave in legno lamellare che sostiene la copertura per l’intera lunghezza del volume. Anche i tramezzi interni sono stati rimossi e la nuova distribuzione è ora regolata da una parete attrezzata in legno che dà accesso agli ambienti privati. Questa semplice operazione, la cui matrice è più costruttiva che compositiva, ha consentito di ottenere un nuovo rapporto tra spazi interni ed esterni, adeguando una casa obsoleta a un modello di vita rispondente alle aspettative contemporanee. L’effetto che se ne ha dal giardino è quello di un podio leggero su cui la copertura in tegole marsigliesi appare metafisicamente posata, giocando sull’ambiguità tra architettura vernacolare ed estetica brutalista del montaggio a secco. La sovrascrittura è qui l’esito di un processo di adattamento ai continui cambiamenti delle forme consolidate dell’abitare, in cui però vecchio e nuovo coesistono in una stratificazione di codici e linguaggi conflittuali.

L’immagine convenzionale della casa è rimessa fortemente in discussione anche nel progetto Antivilla di Brandlhuber+Emde, Burlon, completato nel 2015 a Krampnitz, vicino Berlino. In questo caso l’edificio di partenza è una fabbrica di intimo della Germania Est e la scelta di non demolirlo deriva dalla duplice consapevolezza di non avere risorse economiche sufficienti e di dover sottostare a un regolamento edilizio che avrebbe permesso di conservare solo il 20% della superficie utile demolita. Gli architetti si sono orientati verso una strategia di minimo intervento: la copertura in amianto è stata sostituita, le partizioni interne demolite, le nuove finestre sono semplici buchi nel muro. Arno Brandlhuber ha spiegato questo approccio come «un interessante capovolgimento della domanda: all’improvviso si tratta meno di ciò che voglio e più di ciò che l’edificio può offrire».9

Tre strategie per la riqualificazione dell’abitare collettivo

Come i piccoli edifici unifamiliari rivendicano un alto gradiente di trasformabilità che li rende ideali campi di sperimentazione, anche i complessi di housing sociale hanno dimostrato una plasticità al cambiamento in cui l’economia di mezzi e le ricadute positive si conciliano attraverso molteplici strategie operative.

Il primo atto intende l’organismo architettonico nei suoi aspetti energetico-prestazionali, per cui l’involucro è il luogo in cui si riflettono le aspettative nei confronti del progetto globale di efficientamento del patrimonio costruito, e la sostenibilità economica dell’operazione può essere garantita proprio grazie al debito contratto per metterla in essere. Tuttavia, sebbene la semplice sostituzione delle facciate può produrre quell’upgrade che rende possibile l’utilizzo futuro dell’immobile, alcuni studi hanno cominciato a intendere la sostituzione dell’involucro come opportunità per implementare la dotazione di spazi abitabili degli alloggi, puntando a risolvere, con un’azione sintetica, una più complessa gamma di problemi che guardi ben oltre le questioni ambientali. L’affermato lavoro di Lacaton & Vassal – i quali si sono inseriti in questo dibattito fin dal 2004 con la ricerca Plus +, sviluppata insieme a Frédéric Druot10 – è inteso a dimostrare come un’intelligente sovrascrittura dei grandi volumi residenziali possa essere assai più conveniente, rapida e risolutiva di una loro demolizione e sostituzione. La strategia collaudata degli architetti francesi consiste nella demolizione delle pareti esterne sui fronti principali, ormai degradati nei materiali e inefficienti nelle prestazioni, e la successiva giustapposizione di un nuovo telaio tridimensionale autoportante, trovando nell’espediente di prolungare lo spazio utile della casa la chiave per prolungarne la vita. Lungi dall’essere un intervento di sola riqualificazione energetica, l’operazione di Lacaton, Vassal e Druot ambisce a ristrutturare senza dover dislocare, neppure temporaneamente, gli abitanti. Nell’applicazione più recente, quello dei caseggiati G, H e I della Cité du Grand Parc a Bordeaux (2017), i progettisti hanno previsto l’addizione di un nuovo impalcato profondo 3,80 m, di cui 1 m destinato a terrazza continua e i restanti 2,80 m a giardino d’inverno collegato direttamente agli ambienti dell’abitazione.

Il secondo atto della trasformazione non espande solo lo strato epidermico dell’edificio ma ne mette in discussione il modello stesso di funzionamento. La residenza per studenti dello studio TVK nel quartiere parigino di Chaperon Vert (2010) è la riconversione di un banale stabile per uffici: un volume doppio chiuso da una facciata continua e servito da un nocciolo centrale contenente i collegamenti verticali, erano gli aspetti critici su cui intervenire. Gli architetti hanno dunque demolito il vecchio impianto distributivo, ridisegnando la posizione di scale e ascensori. Si apre in questo modo una faglia che attraversa il corpo di fabbrica e permette un’inedita continuità visiva tra la strada e la corte posteriore. L’accesso alle stanze si organizza per generosi ballatoi sovrapposti che corrono su un nuovo impalcato agganciato al vecchio, i cui elementi sono sagomati in forma di una T che varia al rastremarsi del percorso verso le estremità. Il calcestruzzo grezzo dei nuovi telai evoca un’estetica dell’incompiuto che non lascia margine a equivoci circa la natura strutturale dell’addizione. Scardinare l’ortogonalità e la percezione frontale sono i mezzi con cui gli autori hanno conferito plasticità a una scatola altrimenti vincolata alla rigida geometria del sistema prefabbricato a tunnel ereditato dagli anni Settanta.

Un terzo approccio alla riqualificazione di consistenti complessi di edilizia residenziale è quello sineddotico, che opera selettivamente su una limitata porzione di edificio per innescare un processo di riattivazione spontaneo o per testare puntualmente l’applicabilità di un provvedimento più generale a venire. È il caso del piccolo intervento dello studio londinese Sanchez Benton nel contesto del Peveril Garden Estate, complesso residenziale degli anni Sessanta composto da una torre e da una piccola costruzione destinata a garage, collegata alla prima da una passerella sospesa che conduce direttamente sopra la copertura. La richiesta degli abitanti di recuperare questa struttura ha spinto il Southwark Council a bandire nel 2018 un concorso a inviti per riconvertire i vecchi posti auto in un polo culturale con caffetteria, sale prove e galleria d’arte, rendendo infine accessibile la copertura con un nuovo spazio pubblico. Carlos Sanchez e Tom Benton – con l’artista Gabriel Kuri e l’orticoltore Nigel Dunnett – hanno intravisto l’opportunità di chiedersi quanto fosse possibile «valorizzare un edificio o una situazione rimuovendo delle parti e riutilizzandole piuttosto che semplicemente aggiungerne».11 Il piano terra è stato riconfigurato per ospitare attività ricreative e studi d’artista, mentre il terrazzo in copertura è diventato un giardino pensile servito da una scala che sale direttamente dalla quota urbana. La scelta di colorare con dei toni sgargianti la controfacciata del terrazzo, più che un vezzo d’artista, va intesa come un espediente per far emergere le spazialità latenti dell’invaso esistente, che andava solo messo in luce. Con la ristrutturazione del volume dei parcheggi, ha preso avvio a un programma di riflessione più ampio che ha convinto l’amministrazione a rimandare la demolizione della torre e considerare seriamente l’ipotesi di un suo recupero futuro.12

Sovrascrivere, necessità o rifondazione di linguaggio?

La trasformazione del tessuto residenziale novecentesco è entrata ormai nella pratica quotidiana degli architetti europei. Non è un caso che, rispondendo a un’intervista per la rivista «Detail», Reinier de Graaf sostenga che ormai circa il 50% dei progetti di OMA siano interventi di recupero e che «i clienti che si rivolgono a noi si aspettano una ri-programmazione dell’edificio – ci chiedono di agevolare una nuova esperienza spaziale della sostanza fisica delle epoche passate e di proporre una visione del futuro».13 Per questa ragione potrebbe sorprendere, con accezione non necessariamente negativa, l’instabilità del terreno su cui vorrebbe fondarsi un tentativo compiuto di sistematizzazione delle esperienze. In ogni caso, l’aspetto più rilevante che emerge da questa breve ricognizione è l’osservazione che, al di là delle questioni dimensionali, delle tecniche costruttive, delle rivoluzioni distributive, la rinuncia al linguaggio – o il tentativo di una sua rifondazione su presupposti nuovi – sembra essere l’unico tratto comune rintracciabile, in questi come in molti altri interventi di sovrascrittura. Lo riscontra ad esempio Sara Marini nel modus operandi di Grasso Cannizzo, in cui «il luogo viene fatto parlare perché ne sono accettate le condizioni a tutto campo; le stesse condizioni, colte come testimonianze trovate, sono trasformate, attraverso operazioni di tessitura e scrittura, in elementi reagenti. Per attuare questo meccanismo l’architetto agisce in assenza di giudizio, senza stile, senza lingua».14 Il raggiungimento di un certo comfort, o l’offerta di una peculiare atmosfera in cui il vecchio trova una nuova intonazione in relazione al nuovo innesto, è forse lo specchio di un cambio di prospettiva rispetto alle ossessioni del linguaggio e dell’autorialità (anch’essa nobile eredità del secolo breve) intesi come costrutti personali cui ogni progettista deve continuamente tornare a rivolgersi. L’occasione di prolungare la vita degli edifici, rifiutando una nuova tabula rasa, porta allora con sé l’acquisizione di una nuova accezione di palinsesto, che arriva a ricomprendere l’edificio stesso nelle sue aggettivazioni materiche e sensoriali. Compito del progetto di sovrascrittura è quello di farle emergere.

Note

 

1 The capacity for linkages. Six strategies for existing buildings, in S. Hardingham, Cedric Price Works 1952-2003. A Forward-Minded Retrospective, AA/CCA, London-Montreal 2016.

 

2 Perception (percezione), Manteinance (manutenzione), Behaviour (uso), Renovation (rinnovo), Conversion (riconversione), Infill (riempimento), Redesign (riprogettazione), Subtraction (sottrazione), Addition (addizione), Material recycling (Riciclo dei materiali) e Gestalt recycling (riciclo della forma) sono altrettante condizioni di sopravvivenza che possono orientare la vita futura degli edifici. M. Petzet, F. Heimeyer (a cura di), Reduce Reuse Recycle. German Pavilion / 13th Architecture Biennale Venice 2012, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern 2012.

 

3 A. Ruby, Swiss Architecture does not exist, «A+U Architecture and Urbanism», 2019, n. 580, p. 4.

 

4 Relativamente al Canton Ticino: https://m3.ti.ch/DFE/DR/USTAT/allegati/prodima/4509_costruzioni_e_abitazioni.pdf. Consultato il 9 gennaio 2023.

 

5 Nel numero 2/2011 della Rivista dell’Ufficio Federale di Statistica «ValeurS» dedicato al tema «Abitare e costruire: il panorama insediativo della Svizzera» si riporta che «la casa unifamiliare è la categoria di edificio numericamente più diffusa in Svizzera sin dalla prima rilevazione degli edifici e delle abitazioni avvenuta nel 1970. La tendenza si conferma anche oggi, sia nelle aree rurali sia nelle agglomerazioni urbane, anche se in maniera differente». Poco più avanti si precisa che «la tipica casa unifamiliare e stata costruita tra il 1961 e il 2000, ha dai quattro ai cinque locali per una superficie compresa tra i 120 e i 135 m2; si sviluppa su due-tre piani, è riscaldata a olio ed è situata nel Comune di un’agglomerazione»: V. Hirsch,  Come vive la Svizzera? Ce lo dice la statistica degli edifici e delle abitazioni. Intervista con Fritz Gebhard, «ValeurS», 2011, n. 2, p. 14.

 

6 Con solo il 37% (dati 2008) la Svizzera è il paese europeo con il più basso numero di abitazioni in proprietà rispetto al totale. https://www.bwo.admin.ch/bwo/it/home/Wohnungsmarkt/zahlen-und-fakten/wohneigentumsquote.html. Consultato il  9 gennaio 2023.

 

7 F. Chiorino, Maria Giuseppina Grasso Cannizzo. Ristrutturazione di una casa unifamiliare. Ragusa 2004, «Casabella», aprile 2005, n. 732, pp. 54-59.

 

8 W. Angonese, Verso una vera sostenibilità: la casa a Mazzarrone, «L’architetto», novembre-dicembre 2019, n. 6, pp. 39-49.

 

9 M. Petzet, F. Heimeyer (a cura di), Reduce Reuse Recycle, cit., p. 82.

 

10 F. Druot, A. Lacaton, J.P. Vassal, PLUS + Les grands ensembles de logements - Territoires d’exception, Ministère de la culture et de la communication, Paris 2004.

 

11 K. Nathaniel, Sanchez Benton, «Architectural Review», novembre 2022, n. 1496, pp. 70-74.

 

12 Ivi, p. 73.

 

13 We Want to Re-program Buildings. A conversation with Reinier de Graaf, Interview: Franck Kaltenbach, «Detail», 2017, n. 1-2, pp. 14-20.

 

14 S. Marini, Sull’autore. Le foreste di cristallo di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Quodlibet, Macerata 2017, p. 167.

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