L’ar­chi­tet­tu­ra sco­la­sti­ca, sche­de tec­ni­che e af­fi­ni

Divagazioni sul tema

Data di pubblicazione
14-04-2022
Paolo Canevascini
Architetto e docente AAM, membro della commissione concorsi SIA Ticino

Rispondere alla richiesta di scrivere un testo sui temi enunciati nel titolo, dal punto di vista di un architetto attivo nella progettazione, a volte con ruolo di coordinatore o giurato di concorso, mi è sembrato a prima vista un compito arido e difficile. Mi son chiesto cosa avrei potuto aggiungere, anche al cospetto dei testi che, sempre nello stesso numero, avrebbero presumibilmente portato la firma di chi questo soggetto lo conosce più intrinsecamente, avendolo elaborato e tradotto in nuove schede. Arriverò alle dieci righe? Questo il dubbio che mi son posto – scoglio peraltro aggirato con l’aiuto di questo preambolo – poi, riflettendoci, ho intravisto la possibilità di approfondire alcuni aspetti più generali del progetto scolastico e quindi del concorso d’architettura, ambiti indissolubilmente legati e che mi stanno particolarmente a cuore.

Le schede tecniche dell’edilizia scolastica, nel nostro come in altri Cantoni, rappresentano le linee guida che danno indicazioni sui contenuti, le dimensioni e l’organizzazione di una scuola e sono utili, per non dire vincolanti, nella progettazione della stessa. Chiunque partecipi a un concorso le riceve assieme ai vari allegati specifici. Essendo attivo da diversi anni, i primi ricordi in merito risalgono al periodo a cavallo del millennio. Ho scomodato l’archivio cartaceo del nostro studio per rinfrescare la memoria e ho fatto scoperte archeologiche notevoli dalle quali vorrei partire. Uno dei primi concorsi affrontati riguardava una scuola dell’infanzia, il cui bando era accompagnato da un fascicolo giallo, datato 1996, che era appunto la detta scheda, redatta dall’allora Ufficio degli stabili erariali, oggi Sezione della logistica cantonale. La stessa ampliava i contenuti di un documento curato invece dall’Ufficio dell’educazione prescolastica del 1992. La scheda – poi ulteriormente aggiornata nel 2010 con contenuti e struttura simili – fino ad oggi è stata il riferimento per la progettazione. Nel 2021 assistiamo infine all’enunciazione da parte degli enti cantonali di una svolta radicale: attraverso l’elaborazione di nuove schede, in verità per ora solo riferite alle scuole medie e superiori, si mettono sul tavolo dei progettisti rinnovate strategie didattiche.

Evidenzierei dapprima un dato apparentemente marginale, l’evoluzione del numero di pagine: nel 1992 ne bastavano tre per descrivere l’impostazione delle attività educative, nel 2021 sono diventate centotredici. Si potrebbe fare un’analoga osservazione sul numero degli allegati che accompagnava un bando di allora rispetto a uno di oggi, oppure sulla documentazione complessiva da consegnare con l’inoltro delle proposte. Questi numeri rappresentano la metafora dell’evoluzione in complessità del nostro mestiere in poco più di vent’anni. Affrontare un progetto di concorso, come in generale qualsiasi progetto, necessita di un lavoro di avvicinamento impressionante, giustificato a volte, altre meno. C’è da chiedersi se tutto questo processo preparatorio o accessorio non vada a scapito della libertà progettuale e la risposta può essere in parte affermativa, guardando a una certa stagnazione della ricerca tipologica rispetto a decadi più epiche dell’architettura ticinese. Sia chiaro che questo è uno degli aspetti del saper progettare, importante quanto l’inserirsi correttamente in un dato contesto, tema oggigiorno considerato obsoleto, al quale però continuo a credere fermamente, consapevole di far parte di una specie a rischio di estinzione (ma se è stata data speranza di sopravvivenza al gipeto barbuto, perché non darla anche a noi?).

Torniamo al tema; partirei da uno degli ambiti didattici cui mi sono riferito all’inizio del testo: la scuola dell’infanzia. Se dovessi fare un distinguo tra le varie categorie, vi riconosco, riguardo alle linee guida, un maggiore grado d’interpretazione e quindi di libertà progettuale. Le forme più fluide e le diverse caratteristiche degli ambiti didattici, le loro possibili connessioni ma anche le generosità dimensionali singole e complessive, rendono questo campo più facile da interpretare in maniera personale. Avendo fatto esperienza di progetti anche al di fuori della nostra regione, mi sono reso conto che in Ticino il perimetro d’intervento a disposizione è addirittura più ampio e i risultati sembrano dimostrarlo.

Ritengo più critica la situazione per le scuole che seguono quella dell’infanzia ed è utile fare un passo indietro nel tempo, a prima che le stesse linee guida esistessero. Negli anni Sessanta e Settanta l’architettura ticinese ha osato parecchio nell’edilizia scolastica, ambito di ricerca prediletto e proficuo. Due esempi che amo a pochi metri uno dall’altro a Locarno: le Scuole elementari ai Saleggi di Livio Vacchini e le Medie di via Varesi di Dolf Schnebli. Ambedue propongono innovazioni sia nella concezione dell’aula, sia negli spazi di connessione (interni o esterni che siano) che smettono di essere solo luoghi di passaggio, ma diventano parte integrante di una nuova organizzazione didattica e della vita collettiva degli allievi. Sono esattamente gli ambiti principali che oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, l’Amministrazione cantonale intende rinnovare perché ha compreso che qui si è perso terreno rispetto alla realtà dell’insegnamento e uno sguardo verso altre regioni svizzere ci conferma il ritardo. La concezione di aule più grandi e flessibili, combinata alla rinuncia ad alcune funzioni specifiche – perché inglobate in esse – e soprattutto la ritrovata generosità degli spazi distributivi e ricreativi sono esigenze acquisite da più di un decennio in molti altri Cantoni.

Ci siamo persi proprio in quegli ambiti in cui eravamo all’avanguardia, fermo restando che architetti bravi continuino a esistere e quindi eccezioni siano sempre presenti. In alcune realtà comunali, che sono direttamente responsabili dell’edificazione delle scuole elementari, questi cambiamenti sono già in corso e in alcuni casi conclusi. Penso al lavoro di recupero e ampliamento delle scuole a Massagno, per opera degli architetti Durisch Nolli Giraudi Radczuweit (cfr. Archi 3/2020, pp. 46-51), su una sostanza già generosa del 1974, disegnata dall’architetto Alberto Finzi. In questo caso il modulo delle aule è stato ampliato verso le corti rispetto all’originale proprio per dare luogo a spazi didattici più versatili, rendendo possibili più attività e non solo la lezione frontale. Un adattamento analogo lo sta mettendo in atto il comune di Locarno per il concorso delle scuole di Solduno, dell’architetto Agostino Cavadini, altra opera colta anche per la delicata sensibilità rispetto alla morfologia del terreno e con una concezione tipologica assonante a quella di Finzi a Massagno. Oppure a Tegna, per mano di Baserga e Mozzetti, con la trasformazione a uso didattico delle aree di percorso, grazie a una semplice e felice scelta distributiva (ogni aula ha una propria scala) che la ridotta dimensione dell’istituto permette.

Queste soluzioni dimostrano come si debba andare oltre l’impostazione troppo rigida degli spazi didattici nei suoi moduli costituenti, le aule, ma anche che il deficit più importante, a mio modo di vedere, stia nello scadimento di quello spazio che può davvero fare la differenza, ossia le zone connettive. Le stesse vecchie linee guida ne parlano poco, ma indicano comunque un rapporto delle aree di percorso attorno al 30% rispetto alla superficie degli spazi didattici singoli;  tale parametro, tuttavia, raramente viene  rispettato. La lacuna è in stretta relazione con uno dei mali endemici del concorso in Ticino: troppo spesso gli enti banditori sottostimano l’investimento (per inadeguatezza degli studi preliminari o per irrealistiche soglie di accettazione politica) e costringono i progettisti a condensare il programma in volumi inappropriati dove i primi a pagarne le conseguenze sono appunto questo tipo di spazi. Potremmo infischiarcene, andare fuori bando e a volte lo facciamo, ma il problema non sarebbe comunque risolto perché si deve intervenire alla base. Io stesso, come giurato, in un'occasione mi sono dimesso dal consesso, perché ritenevo che i presupposti finanziari non fossero corretti. La qualità dello spazio ha un costo, va stimato correttamente già dai primi passi ed è un investimento che val sempre la pena di fare. Sarà un tema di approfondimento anche per gli edifici scolastici che dovranno seguire le nuove direttive perché risulta difficile immaginare che, malgrado le rassicurazioni avute, i cambiamenti proposti non abbiano conseguenze sugli investimenti. Questo si potrà verificare unicamente in una fase sperimentale che si svolgerà nei prossimi anni su casi concreti. Ben venga questa ventata d’aria fresca, da accogliere molto favorevolmente come progettisti, ma lo spirito innovativo dovrà essere accompagnato da questa consapevolezza.

È paradossale infine che in questo importante momento di rinnovamento didattico-tipologico gli stessi enti mostrino di rinunciare alle giovani generazioni, quelle che fisiologicamente potrebbero dare risposte nuove. Porre criteri d’idoneità e di esperienza troppo elevati semplicemente per accedere alla procedura, come visto più volte in recenti concorsi di architettura scolastica, è un segno di sfiducia poco lungimirante che contraddice la nostra storia. Lo abbiamo affermato più volte ai committenti pubblici, per voce delle associazioni professionali, per cui mi permetto di riprendere, contestualizzandola, un’osservazione già fatta all’interno dell’ultima assemblea della SIA Ticino. Andiamo a guardare nella lista dei Beni Culturali protetti del Moderno, contiamo dapprima quante scuole pubbliche derivano da concorsi di architettura (quando peraltro non vigeva nemmeno l’obbligo normativo) e scopriamo l’età degli autori, poi diventati Maestri. Per dirne un paio, presi dagli esempi descritti in questo testo: Livio Vacchini aveva 37 anni al momento del concorso dei Saleggi, Dolf Schnebli 32 per via Varesi. La più giovane della lista? Flora Ruchat quando consegnò le tavole del concorso della Scuola dell’Infanzia di Chiasso di anni ne aveva 23 e neppure era laureata. E potrei andare avanti a lungo. Erano altri tempi? Era meno complesso progettare? Certo, l’ho spiegato all’inizio, ma questo non basta a spiegare i timori attuali che possono essere affrontati e risolti con più fiducia da parte di tutti gli attori coinvolti.

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