La questione urbana: un nuovo manifesto
Intervista a Vittorio Magnago Lampugnani
Stefano Milan: Recentemente è uscito il manifesto dell’Associazione per una buona urbanistica che ha ottenuto un numero sorprendente di firmatari. Non è però chiaro chi vi sia dietro all’iniziativa: potrebbe spiegarci più approfonditamente chi sono stati i promotori?
Vittorio Magnago Lampugnani: Nessun mistero: Balz Halter e il sottoscritto. Un sodalizio, quello dell’imprenditore edile illuminato e dell’architetto studioso della città, che può sembrare improbabile. Ma abbiamo scoperto di condividere, anche se non sempre con la stessa motivazione, l’impegno per il disegno urbano.
SM: Perché un manifesto per l’urbanistica proprio oggi?
VML: L’opinione pubblica svizzera è allarmata dalla carenza di alloggi. Ci sembrava un buon momento per ricordare che se costruire case può essere un’azione positiva – e vorrei precisare: non lo è sempre – queste case devono essere elementi di città. Vanno posizionate in maniera sensata. In altre parole: occorre un governo del territorio consapevole e concepito a lungo termine.
SM: Costruire case può essere un’azione non positiva?
VML: Assolutamente sì. Costruiamo troppo, e non sempre per soddisfare un bisogno vero. Soprattutto costruiamo non curandoci di contribuire a un’ordinata crescita urbana e alla realizzazione di spazi pubblici di qualità.
SM: Il governo del territorio non le sembra adeguato?
VML: La Svizzera vanta una qualità progettuale architettonica eccezionale, ma il disegno urbano – termine che preferisco a quello di urbanistica – è rimasto una sorta di Cenerentola. Anzi, lo è diventato, perché non è stato sempre così: basta guardare indietro al Medioevo che ha generato gli straordinari centri storici, per esempio quello di Berna, ma anche quello di Lugano. O, se non vogliamo spaziare troppo lontano nella storia, all’Ottocento o ai primi decenni del Novecento. Oggi l’urbanistica è esitante, marginalizzata, se non addirittura assente: a livello nazionale, ma soprattutto regionale e sovente anche comunale. Basta guardarsi in giro nelle aree suburbane per rendersene conto: sembra che gli edifici siano sparsi a casaccio nel territorio. Ciò non vale soltanto per la Svizzera: è un fenomeno squisitamente europeo, internazionale, verrebbe quasi da dire: epocale. L’urbanistica si è ritirata, e tra la pianificazione territoriale e l’architettura si è aperto uno iato.
SM: Effettivamente: nel Cantone Ticino, che è di dimensioni medie e scarsamente abitato, opera una folta schiera di pianificatori, ma quasi nessun urbanista. Però vi sono molti architetti con spiccate competenze urbanistiche.
VML: Gli architetti bravi sono sempre attenti all’inserimento delle loro architetture nel contesto, urbano, periurbano o rurale che sia, e cercano di interpretarlo, trasformarlo e arricchirlo: sia dal punto di vista funzionale che da quello della volumetria e del linguaggio. Ma non tutti gli architetti sono bravi. Quando vedo planimetrie che a malapena raggiungono il margine del perimetro del lotto mi viene da pensare che alcuni colleghi siano davvero troppo timidi o rassegnati. Sia come sia: evidentemente non tutti hanno il coraggio e la forza di guardare oltre al confine del lotto a loro affidato. Che però è esattamente quello che un approccio urbanistico richiede. Per questo approccio occorrono visioni urbane ampie, ma anche precise e concrete.
SM: A chi spetta elaborare queste visioni?
VML: Alle pubbliche amministrazioni. Soltanto loro hanno l’autorità e la missione di organizzare lo spazio pubblico, espressione ed emblema della comunità. Ovviamente, le amministrazioni possono, anzi debbono appoggiarsi a tecnici che abbiano la competenza della disciplina dell’urbanistica nelle sue svariate dimensioni: ingegneri del traffico, climatologi, paesaggisti, sociologi. E in primis urbanisti.
SM: L’urbanista come moderatore?
VML: No, l’urbanista come sintetizzatore. O, meglio, come Gestalter. Diciamolo pure: come autore. Il complesso edilizio, il quartiere urbano, in alcuni casi addirittura la città sono veri e propri progetti che distillano innumerevoli condizioni, bisogni e richieste – ideologiche, politiche, sociali, economiche, ecologiche e culturali – in una forma ben definita. Questa forma risponde al programma, ma non ne discende direttamente. È frutto di una precisa volontà estetica basata sul sapere della città. E il progettista se ne deve assumere la responsabilità.
SM: Ma il progettista è un architetto o un urbanista?
VML: Non importa, il processo progettuale è lo stesso per una casa come per una città. Diverso è il sapere necessario: quello dell’architetto nel senso stretto della parola riguarda l’architettura, quello dell’urbanista la città. Sono però convinto che la formazione di un architetto debba necessariamente comprendere ambedue i saperi. Non si può tracciare un discrimine netto tra le due pratiche come non lo si può tracciare tra architettura e città. Ogni edificio contribuisce alla città dove sorge, e ogni città influenza i propri edifici. In tal senso, questo numero di Archi illustra una serie di esempi virtuosi.
SM: Ma allora gli edifici belli possono fare una bella città?
VML: Soltanto se si inseriscono in un piano di qualità, razionale e poetico al tempo stesso, altrimenti restano oggetti preziosi ma narcisisti. Un bell’edificio non può sopperire alle carenze o addirittura all’assenza del disegno urbano; lo dimostrano numerose aree di espansioni delle grandi città svizzere, da Zurigo a Ginevra, che si presentano come collezioni di splendide architetture senza anima urbana. Per contro, un bel disegno di città non genera edifici belli. Però può creare spazi urbani di qualità anche se gli edifici sono mediocri. Per questo mi sento di dare priorità al disegno urbano, perlomeno in termini di sequenza operativa. Deve necessariamente venire dopo la pianificazione territoriale e prima del progetto di architettura.
SM: I mandati di studi paralleli (MSP), gli studi di fattibilità non fanno esattamente questo?
VML: No, perché non vanno oltre all’approfondimento architettonico. Sono strumenti utili, ma sempre palliativi. Si sforzano, con risultati più o meno soddisfacenti, di riempire il vuoto dell’urbanistica assente. Bisogna risolvere il problema a monte, reinstaurando e rafforzando la disciplina che, pur avendo la vocazione di fungere da trait d’union tra pianificazione e architettura, ha una sua competenza specifica e una sua autonomia. Tale sua competenza e autonomia si rispecchiano nella sua ricca manualistica, il cui esaurimento negli anni Cinquanta del secolo scorso corrisponde significativamente al declino della disciplina stessa.
SM: Tornando al manifesto: nel suo libro Modernità e durata del lontano 1995, nel suo A Radical Normal del 2021 e ora in Gegen Wegwerfarchitektur (Verlag Klaus Wagenbach, Berlin-Wilmersdorf 2023), uscito in questi giorni, ho letto prese di posizione ben più radicali e anche più concrete.
VML: Il manifesto è deliberatamente aperto. E rivolto all’opinione pubblica, alle amministrazioni, alla politica, a quella che Le Corbusier apostrofava come «l’autorité», per sensibilizzarli rispetto all’importanza della disciplina urbanistica. E questa disciplina ha molte declinazioni diverse. Il manifesto è uno strumento per promuovere la disciplina in tutte le sue sfaccettature. Ovviamente continuo a mantenere, a precisare e a difendere la mia posizione, ma in altre sedi e soprattutto con i miei progetti.
Vittorio Magnago Lampugnani è architetto e professore al GSD di Harvard. È stato professore ordinario di Storia della progettazione urbana al ETHZ dal 1994 al 2016. In precedenza ha diretto la rivista «Domus» e il Deutsches Architekturmuseum di Francoforte sul Meno. È contitolare dello studio di architettura Baukontor a Zurigo