«La frontiera come inizio»
Apre la Biennale Architettura 2021
Il 22 maggio si inaugura finalmente, dopo un posticipo di oltre un anno dovuto alla pandemia, la Biennale Architettura curata da Hashim Sarkis: «How will we live together?». Nell'attesa di riportarvi le risposte dei vari ospiti e paesi alla domanda, vi riproponiamo un'intervista a Mounir Ayoub, co-curatore del Padiglione svizzero, realizzata l'anno scorso. Tra frontiere, progetti on the road, responsabilità e identità.
Silvia Berselli – La curatela del Padiglione svizzero è stata affidata a lei e Vanessa Lacaille del Laboratoire d'architecture di Ginevra, insieme a Fabrice Aragno e Pierre Szczepski, selezionati attraverso un concorso bandito da Pro Helvetia che ha visto la partecipazione di 51 candidati. Qual è il tema del Padiglione svizzero per la Biennale di Architettura di Venezia e come verrà declinato?
Mounir Ayoub – Il tema è la «frontiera», vista non più soltanto come una linea amministrativa, ma come uno spazio da abitare. Abbiamo percorso i territori della frontiera svizzera con un atelier mobile allestito in un camion che trasportava plastici e video. Abbiamo incontrato le persone che abitano la frontiera a con questi modellini smontabili abbiamo cercato di ricostruire la loro visione dei luoghi in cui vivono. Abbiamo organizzato dei percorsi a piedi con la gente del posto e abbiamo filmato queste esperienze, ripetendo lo stesso tipo di lavoro per una ventina di tappe tutto intorno al paese. Con questo metodo di indagine abbiamo raccolto una grande quantità di materiali: modellini, video, disegni, appunti, ed ora stiamo lavorando ad una fase di sintesi che porti alla produzione della mostra in Biennale.
Il Padiglione svizzero sceglie il suo progetto prima che il curatore annunci i temi generali della Biennale e questo ha prodotto a volte delle discrepanze: in che modo il vostro lavoro si relaziona al tema proposto dal curatore Hashim Sarkis, «How will we live together?»?
Quest’anno fortunatamente c’è una grande attinenza: la singolarità della Svizzera è quella di essere un paese che ha dappertutto dei vicini, a differenza delle grandi nazioni europee che confinano con il mare o con l’oceano. Non è uno stato conquistatore o imperialista, ma piuttosto un paese che costruisce rapporti di vicinato. Dunque il tema proposto è perfettamente coerente con il nostro lavoro, che si interroga su come si possa vivere bene oggi insieme ai nostri vicini e su quali siano le singolarità dei luoghi e delle comunità di frontiera. Si tratta sempre di contesti assimilabili a quelli delle periferie e bisogna comprendere come sono vissuti per capire quale è il loro potenziale spaziale, che è il centro del nostro interesse.
La storia politica della Svizzera ha fatto sì che, specie nel corso del Novecento, i suoi confini venissero spesso percepiti come una porta della libertà. Quale senso hanno oggi e perché è necessario indagarli?
Storicamente il senso del termine frontiera è cambiato: ai tempi dei romani era una linea, poi con la nascita degli stati nazionali diventano necessarie in Svizzera tre parole: confine, Grenze, frontière. Questi termini affiorano nel Medioevo e si consolidano durante il Rinascimento: la storia dei confini è tumultuosa e mobile, e oggi è necessario trovare una nuova definizione della frontiera che superi il senso di separazione dato dall’immagine della barriera. Il progetto non intende fornire risposte o costruire una teoria, ma piuttosto documentare lo stato attuale dei nostri territori di confine e portare l’attenzione su questo tema, restituendogli la dignità propria di un oggetto di studio. La frontiera è mobile, ha uno spessore ed è diversa per ciascuno di noi: per alcuni può essere una barriera, per altri un filtro o un passaggio.
Nella sua presentazione, Sarkis afferma che è necessario stabilire un nuovo «contratto spaziale», in grado di legare i luoghi alle persone e gli individui alla loro comunità: in che modo si costruisce questa relazione, tra spazio e comunità, e come viene indagata nel vostro progetto?
Il nostro progetto è fin dall’impostazione un lavoro partecipativo, pertanto abbiamo incontrato davvero molte persone; ma questo è normale nel lavoro di un architetto, che deve saper ascoltare i committenti e i luoghi. Includere il progetto in un filone partecipativo non significa però scaricare sugli altri le responsabilità del progetto, che rimangono dell’architetto: la partecipazione non deve essere un alibi.
Per quanto concerne il concetto di comunità, non possiamo dire che gli abitanti della frontiera ne costituiscano una, ma certo quei luoghi presentano una specificità. Sono i luoghi fisici dello scambio, della condivisione, dell’incontro con l’altro. Con il nostro progetto vorremmo che questi luoghi, considerati da sempre come un termine ultimo, siano visti, forse per la prima volta, come un inizio. Di che cosa, ancora non lo sappiamo.
Questa intervista è stata pubblicata originariamente il 18 febbraio 2020, in occasione della presentazione al Teatro dell'architettura di Mendrisio del Padiglione svizzero. In seguito i curatori hanno rivisitato i luoghi di frontiera per registrare come la concezione del confine sia stata trasformata dalla pandemia.