La cor­te di Ri­va. Un ini­zio

«Percepiamo lo spazio con tutto il nostro io indivisibile: al tempo stesso con la psiche, con l'intelletto e con il corpo, e quindi gli diamo forma impiegando tutti gli organi che abbiamo a disposizione». – Walter Gropius

Data di pubblicazione
29-08-2022

Per mia madre

Giugno. Un mattino arrivo da Pavia, dove abito, a Riva San Vitale. Lascio l'automobile al parcheggio sul lago e a piedi percorro il rettilineo che porta alla stazione di Capolago. All'automatico (la biglietteria non c'è più da anni) prendo un biglietto di andata e ritorno per Zurigo, metà prezzo. Una borsa leggera, per star via una notte. Forse.

È il primo di tanti viaggi che farò nell'estate-autunno del 2012. Mia madre, che ha 75 anni e abita soprattutto a Zurigo, per la prima volta nella sua vita è seriamente malata, le hanno diagnosticato un tumore. I medici dicono che è operabile ma prima bisogna ridurre la massa con la chemio e con la radio terapia.

«Tornerò a Riva soltanto dopo», dichiara lei.

Da più di quarant'anni la casa di Riva San Vitale è il nostro baricentro fisico e affettivo. In realtà, tra i famigliari, solo la mamma e io ci abbiamo abitato davvero per un periodo continuativo (tra il 1971 e il 1975). Il suo compagno, Leo Zanier, viaggiava allora da Zurigo, mentre mia sorella Elisa, nata nel 1974 a Mendrisio, ha vissuto a Riva per meno di un anno. Poi siamo partiti tutti per Roma. Ma LA CASA continuava a essere quella di Riva.

La casa di Riva non è soltanto un restauro riuscito, una casa, un giardino: è un'utopia concreta, un progetto di vita comunitaria nato nei primi anni Settanta dalla volontà e generosità di mia madre e dal suo bisogno anche molto privato di condividere. Un'utopia che non sarebbe però mai entrata nel quotidiano se non ci fosse stata la disponibilità di mio nonno, suo padre, e quella dei molti amici che fin dall'inizio hanno contribuito alla sua sempre rinnovata proiezione nella realtà.

Il legame con Riva San Vitale, per mia madre, Ivo Trümpy e Christel Göckel, era cominciato nella primavera del 1961, quando lo studio Galfetti-Ruchat-Trümpy, grazie ai buoni uffici dell'ingegner Roncati, riceveva dal Municipio l'incarico di progettare il centro scolastico. La prima tappa delle elementari terminò nel 1964. Seguirono la scuola materna (1968), la seconda tappa delle scuole elementari (1973) e la palestra (1974). Tra il 1968 e il 1970 lo studio Gafetti-Ruchat-Trümpy aveva anche presentato un progetto di restauro di Santa Croce, la chiesa principale del paese – che contiene cinque tele di Camillo Procaccini –, costruita tra il 1582 e il 1591 su progetto, assicurava mia madre incurante delle più recenti attribuzioni, di Pellegrino Tibaldi.

Fu Lio Galfetti, nel 1975, a eseguirlo.

Luglio. Il viaggio sul Tilo tra Riva e Lugano è una parentesi viva. Siccome sull'intercity sto male, prima di partire prendo una xamamina e normalmente tra Lugano e Zurigo mi addormento. È sempre molto presto quando parto. Anche se il treno è mezzo vuoto sto in piedi, appoggiata al corrimano. Il treno all'inizio avanza lentamente: vedo Santa Croce severa, in grembo al San Giorgio – montagna piena di fossili, verdissima – intuisco il sentiero nel bosco, dove si vanno a raccogliere le castagne. Lo sguardo poi cade nel lago verde cupo. Mi chiedo se riuscirò a fare un bagno al ritorno.

Mia madre, a Zurigo, sopporta male la cura, ha vissuto una vita da persona sana e non tollera le limitazioni che la malattia le impone. Intanto la casa di Riva risente della sua assenza. Il suo appartamento è chiuso da più di un mese. L'edera assale inselvatichita i davanzali delle finestre e i bordi della grande vetrata che dà sul giardino. Nessuno osa fare quello che in questa stagione faceva lei: strapparla con gesti bruschi e impietosi. Nella vetrata si specchia sempre aspro il Generoso, con le sue rocce che cambiano colore e consistenza.

La casa si trova a pochi passi dal battistero del V secolo, e i turisti spesso s'infilano a gruppi nella corte. Accaldati, incantati, si fermano, guardano su, verso la loggia, parlottano tra loro, finché qualcuno di noi non gli dice che no, il battistero è là fuori, a sinistra. Al centro della casa c'è la corte: chiusa da un muro che dà sul giardino della canonica, comprende tre corpi. Quello ottocentesco, verso via dell'Inglese. Quello centrale, con il portico e i due loggiati, e il terzo lato, il più antico, che dà sul giardino.

Negli anni Sessanta, quando mio nonno l'acquistò per mia madre, la casa era un rudere, il giardino una selva – dalla quale solo più tardi sono emersi i ponti sulla «roggia» e i viali, scanditi dai pilastri di gneiss. L'inaugurazione, nell'ottobre del 1969, fu una grande festa danzante per il matrimonio di Bruno Reichlin: il restauro era solo all'inizio.

C'erano, nel cortile, quando ancora era spoglio e senza ciottoli, un piccolo calicantus, oggi enorme, e un fico già vecchio, abbattuto dal vento in una notte di settembre del 1995. Nei primi anni sono stati piantati il glicine, la Pavlonia, la vite canadese, che ora ricopre la facciata esterna dell'ala più antica e, da ultimo, il gelsomino, che sale fino alla loggia del primo piano. Nei primi anni Novanta è comparso – Madonna protettrice – il Quadrato nero di Pierino Selmoni: prismatico specchio di marmo.

Agosto. Mi installo a Riva e viaggio direttamente da qui. Mia madre è entrata in ospedale. Il pensiero che possa morire si fa largo nei miei viaggi. Soprattutto al ritorno, quando a Lugano salgo sul Tilo. Guardo fuori e le immagini delle ore trascorse nella stanza d'ospedale ripassano nella mente con il lago e le montagne sullo sfondo. Galleria. Di nuovo lago. E finalmente la stazione. Il sottopassaggio. Il rettilineo. Poi all'ingresso del paese giro a destra. Arrivo al lido, gli ultimi bagnanti se ne vanno. Sulla riva infilo il costume, entro in acqua e nuoto, esco dalla recinzione galleggiante, raggiungo la solita boa.

Già nel 1970 al piano terreno, lato strada, s'installò per primo Franco Beltrametti con la moglie Judy e il figlio Giona. Laureato in architettura ma già poeta, Franco fece della corte il centro del suo mondo.

Fu però nel 1971 che la corte si popolò di architetti. L'ordine del lavoro, dei tavoli da disegno, degli squadranti, dei fixpencil allineati, regnava insieme al disordine delle abitudini sconvolte dalla vita comunitaria: i pranzi sul terrazzo, le cantate serali, le partite a ping pong.

Al primo e secondo piano ovest, nel duplex lato giardino, dove abitano ancora, Christel Göckel, prima, e poi Ivo Trümpy, mentre nel grande appartamento al primo e secondo piano est, lato giardino, ci siamo trasferite mia madre e io. Sempre nell'autunno 1971 si installò all'ultimo piano, lato strada e lato corte, lo studio di architettura Ruchat-Trümpy (dal 1976 Trümpy-Bianchini), mentre già nell'estate 1971 al primo piano lato strada si trasferì la famiglia Vicini: Pina e il marito falegname con le figlie Donatella e Mariateresa. Nell'appartamento al piano terra, lato giardino, doveva invece stabilirsi il ceramista greco Panos Tsolakos, amico delle sorelle Columberg, Cerere e Raffaella, biaschesi, anarchiche, ceramiste a loro volta, artefici delle piastrelle blu della nostra cucina e di tutti i nostri piatti. Le ragioni per cui Panos rimase a Faenza si sono perse, resistono invece, a testimonianza di quel progetto, le enormi prese di corrente per i forni incastonate nei muri spessi. Il posto di Panos lo prese nel 1971 Ivano Gianola con il suo primo studio di architettura, mentre l'abitazione di Ivano e Anna era allora al pianterreno e primo piano lato corte. Al primo piano lato giardino, nel duplex accanto a Ivo e Christel, dove poi si trasferirono Elda e Tino Bomio, si accamparono per qualche mese nel 1971 due architetti veneziani amici di Franco (Maurizio Allegretto e Gianantonio Pozzi con le rispettive compagne Alidina e Sonia e la piccola Mia), che lavorarono per qualche tempo nello studio con Ivo, Aurelio e mia madre.

Nel 1971 all'ultimo piano, lato strada, si trasferì la famiglia Consoli: Giacomo, Carla, Angelo, Maria Grazia e Marco, nato lì. Giacomo aveva un pollaio e dei conigli nel giardino e per un certo periodo ha tenuto addirittura delle capre, che piacevano molto a Franco e ai tanti poeti hippy americani che lo venivano a trovare. La parte sinistra del piano intermedio (lato strada) fu occupata dallo studio d'architettura Krähenbühl-Bomio: Marco Krähenbühl, abitò in corte poco dopo con la moglie Nicla (stesso piano dello studio, lato destro) e rimase per qualche anno. Tino Bomio invece (morto nel 1999) ha vissuto molto più a lungo nell'appartamento accanto a Ivo e Christel (lato giardino), mentre sua moglie Elda ha abitato qui fino al 2020. Nello stesso appartamento è subentrato l'atelier di sartoria di Franca Tomaino, figlia del poeta Franco Beltrametti.

L'appartamento più grande era il nostro: una cucina enorme col camino, dove si mangiava quasi sempre tutti insieme, si giocava a scacchi, si fumava molto e dove, con Guglielmo Volonterio, si diede vita a un circolo del cinema chiamato impropriamente «Cineprol». Poi il soggiorno con la doppia altezza e l'enorme vetrata, il bagno, sospeso sul soggiorno, che imbarazzava gli ospiti, e altre tre stanze in una delle quali vissero nel 1973-1974 due profughi cileni.

Sempre nei primi anni un architetto esperto di macrobiotica, Giorgio Lambrughi, coltivò in giardino il primo orto, cui seguirono gli orti di tutti gli abitanti stanziali della corte.

Settembre. Questa volta il Tilo da Capolago lo prendo con mia sorella. Ci hanno detto che non la opereranno. Che il tumore è cresciuto, che non c'è più molto tempo. Lo hanno detto anche a lei. Le chiediamo se vuole tornare a casa, a Riva, dice no… poi vede la delusione nei nostri occhi e aggiunge: magari dopo.

Quando prendo il Tilo (mia sorella prosegue con l'intercity per Milano) è già buio, il lago nero, le luci intorno sembrano i lumini delle processioni. Arrivo a Capolago e scende una pioggia sottile che lungo il rettilineo si intensifica. Decido di entrare dalla parte dei Durisch e di fare il giro da dietro, così che nessuno nella corte mi veda.

I Durisch: l'architetto Giancarlo Durisch (morto nel 2012, qualche mese dopo mia madre), sua moglie Marissa e i loro tre figli Anna, Pia e Ivo, arrivarono a Riva nell'estate del 1973, quando fu ultimata, in un angolo del giardino, la loro casa-studio, due prismi con base triangolare affacciati l'uno sull'altro, senza aperture verso l'esterno, che ancora oggi architetti di tutto il mondo vengono a visitare.

Nel 1973 arrivarono a Riva anche Giovanni Galfetti e Laurie Hunziker, che in un primo momento avevano un tavolo nello studio dietro il loggiato, poi hanno abitato al piano di sotto, e infine hanno avuto lo studio al primo piano dell'ala che dà sulla strada. È loro il restauro di Villa Maderni, oggi scuola di architettura Virginia Tech.

Molte altre persone si sono avvicendate a Riva in quei primi anni, come l'architetto Jaques Blumer, o lo storico militante Giovanni Blumer e poi i poeti Adriano Spatola, Giulia Niccolai, l'artista Giovanni d'Agostino, le cui ceneri, per sua volontà, sono sparse nel giardino, e ancora Virgilio Gilardoni, Tita Carloni, Mario Campi, Lio Galfetti, Pietro Martinelli e molti altri.

Ottobre, l'ultimo mese. I viaggi si intensificano. Il Generoso si staglia nero e minaccioso sul cielo bianco dell'alba quando aspetto il Tilo delle 6.40. Mia madre, pur soffrendo molto, rimane lucida. Le piace rievocare il passato e spesso proviamo a elencare le persone transitate da Riva negli anni. E lei dice: Riva è la cosa migliore che ho fatto.

Poi un giorno le chiedo, «C'è qualcosa che vuoi assolutamente che io scriva, dopo?» e lei risponde: «Riva, racconta di Riva».

Il testo qui riproposto e in parte rivisto è stato pubblicato all'interno del volume collettaneo Negli immediati dintorni (Edizioni Casagrande, Bellinzona 2015) una sorta di guida cultural-sentimentale sul filo della linea ferroviaria Ticino-Lombardia. Le modifiche rispetto alla prima versione concernono tutte i primi anni e l'assetto che la casa ha preso allora. Con l'aiuto degli amici che ancora abitano qui e che hanno vissuto quegli inizi ho cercato di aggiungere informazioni, dettagli che permettano di cogliere al meglio come la casa di Riva sia non solo un'opera architettonica, ma sia stata e conservi il carattere di una comunità. Non ideologica e nemmeno artistica (anche se all'inizio questi due aspetti erano molto presenti), una comunità solidale nell'esistenza quotidiana, capace di condividere spazi reali (dalla lavanderia all'orto, dal tavolo da ping pong all'altalena in giardino) e mentali, nelle amicizie e collaborazioni che nascono e si sviluppano ancora oggi tra vecchi e nuovi inquilini.

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