Il nuo­vo cam­pus di sa­naa per la Boc­co­ni di Mi­la­no

Il tema dei campus universitari è trattato contemporaneamente da TEC21, Tracés e Archi, a seguito di un programma di coordinamento tra le redazioni.

Data di pubblicazione
08-07-2013
Revision
12-10-2015

Con il progetto dello studio giapponese SANAA (Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa), che prevede nuovi spazi per la didattica, uffici, un centro sportivo, residenze per studenti e ampi giardini, l’Università Bocconi punta a rafforzare ulteriormente l’idea di cittadella universitaria che insegue dagli anni Trenta del secolo scorso. Nel 1937 infatti l’architetto Giuseppe Pagano fu chiamato a disegnare l’ormai storica sede di via Sarfatti, ai margini meridionali della città, poco distante dall’area oggi interessata dai nuovi piani di ampliamento.1

Questo edificio (bombardato durante la guerra e poi restaurato) fu concepito declinando i canoni della dottrina razionalista – ad esempio nell’impianto planimetrico, che ricorda il Bauhaus di Dessau – ed è diventato il polo magnetico attorno al quale aggiungere, decennio dopo decennio, nuovi spazi per un’utenza in continua crescita: il Pensionato Bocconi (arch. Giovanni Muzio, 1956), la Rettoria (arch. Ferdinando Reggiori, 1962), l’edificio della biblioteca (arch. Giovanni e Lorenzo Muzio, 1966), la sede della SDA Bocconi School of Management (ing. Vittore Ceretti, 1986), l’edificio a ellisse (arch. Ignazio Gardella, 2001) e infine l’intervento delle irlandesi Shelley McNamara e Yvonne Farrell (Grafton Architects), inaugurato nel 2008.

Il progetto di SANAA è stato scelto come vincitore del concorso internazionale ad inviti bandito dalla Bocconi all’inizio del 2012, a cui hanno partecipato anche Rem Koolhaas, David Chipperfield, Thom Mayne, Massimiliano Fuksas, Mario Cucinella, Cino Zucchi, Sauerbruch & Hutton, Benedetta Tagliabue – EMBT, Odile Decq.

Cellule

Mentre il pluripremiato edificio di Grafton Architects rappresenta per la Bocconi il baluardo più vicino al centro della città, il nuovo campus occuperà l’area dell’ex Centrale del latte di Milano (circa 35.000mq), al limite della terza circonvallazione cittadina, dove la forma urbis comincia a sfrangiarsi e a perdere omogeneità. Questa condizione, accentuata dalla forte presenza del parco Ravizza – con cui l’area confina a est – ha portato lo studio SANAA a creare un microcosmo di corpi di fabbrica liberamente collocati nel lotto a disposizione, negando qualsiasi riferimento diretto al tessuto urbano limitrofo o milanese in generale.

Prima ancora di conoscerne le funzioni specifiche, gli edifici colpiscono per i loro profili organici, che sembrano sottratti da un manuale di microbiologia: visti dall’alto ricordano le versioni ingigantite di mitocondri, centrioli, reticoli endoplasmatici, ribosomi e altri organelli presenti nelle nostre cellule. L’apparente metafora biologica richiama anche alcuni edifici del maestro di Sejima, Toyo Ito: ad esempio la Mediateca di Sendai (2000), nella quale fasci di pilastri simili a fasci nervosi ricordano in pianta le immagini di cellule viste al microscopio.

Più corretto sarebbe però inserire questi profili nella continua ricerca formale che SANAA – e soprattutto Sejima – porta avanti da sempre, spesso con l’approccio dell’industrial designer, smussando e levigando curve tracciate a mano libera.

Sul lato nord dell’area, due nastri piegati su se stessi (uno a forma di «8» e l’altro di «L») contengono gli spazi per i corsi di studio dei programmi executive, per gli uffici e l’amministrazione, fronteggiando in maniera non convenzionale gli edifici «storici» della Bocconi. Invece di costituire una cortina stradale rettilinea, rientranze e protuberanze generano infatti uno spazio urbano privo di contorni fissi, reso ancora più indefinito dall’utilizzo generoso del vetro.

Pur sottolineato da una lobby a doppia altezza a pianta (quasi) circolare – dotata di auditorium seminterrato e spazi comuni – l’ingresso sembra sfumare in una sovrapposizione di trasparenze che, in previsione, potremmo associare a progetti come il Museo d’Arte Contemporanea di Kanazawa in Giappone (2004), dove il perimetro curvo del complesso contribuisce a dissolvere la forma complessiva dell’edificio (un enorme cerchio) in prospettive continuamente mutevoli.

Sul fronte ovest si affaccia il volume ellissoidale dedicato ai corsi di Master, nel quale alle aule tradizionali (che si sviluppano seguendo la curvatura del perimetro) si sommano aule «auditorio» – con sedie e banchi mobili, che permettono una riconfigurazione libera in base alle esigenze didattiche – e «scatole» (box) per piccoli gruppi di studenti.

Verso sud è invece previsto il Recreation Center, centro per lo sport e il tempo libero che sarà aperto a tutta la città, con palestre e una piscina olimpica da 50 metri. Sul lato opposto – verso il parco, nel settore più tranquillo dell’area – svetterà una torre residenziale di pianta ellissoidale di 18 piani con 300 posti letto per studenti e visiting professors.

Tra claustrum e periferia

Non stupisce che questo tipo di approccio urbanistico, fondato a prima vista su una completa autoreferenzialità rispetto al contesto (non solo limitrofo), sia stato bollato da alcuni come espressione del pericoloso formalismo che minaccia la cultura architettonica. Il più agguerrito oppositore è stato Cesare De Seta, proprio uno dei membri della giuria del concorso,2 che ha reso pubblico il suo dissenso in un articolo sulla rivista «L’Espresso» nel febbraio 2013.

Per lo storico italiano il progetto di SANAA sarebbe infatti «un labirinto di ciambelle piovute come satelliti nel cuore di Milano»3, caratterizzato da una «morfologia biomorfa e ameboica» che ha poco o nulla a che vedere con la città.

Si potrebbe ribattere evidenziando la collocazione periferica dell’area, che pur costituendo una zona consolidata della città rappresenta – come già scritto – un punto di flesso e non un possibile ponte con le aree più esterne di Milano. Oppure, proprio per questo, reclamare un progetto di «resistenza», atto a confermare una regola (domanda: quale ) piuttosto che a inventarne una nuova e non riproducibile. Un po’ come fatto da Vittorio Gregotti negli anni Novanta per l’Università di Milano-Bicocca, parte di un grande masterplan che puntava innanzitutto a stabilire un chiaro ordine urbano per una porzione di periferia non più industriale.

Nei limiti dati dal livello attuale di definizione del progetto, si può ragionare su come funzionano gli spazi creati dall’atterraggio di queste «ciambelle», e in particolare gli spazi esterni a verde. Il progetto di SANAA tenta infatti di reinterpretare – a modo suo – la tradizione del chiostro, elemento tipologico che contraddistingue due dei più importanti atenei milanesi. (Un elemento evitato invece da Pagano nel 1942, in quanto foriero, a suo parere, di «inadatti atteggiamenti di irrazionale clausura.»4)

In primis ci sono i chiostri dell’ex Ospedale Maggiore (oggi Università degli Studi di Milano), fabbrica plurisecolare che grazie alla potenza ideale del suo impianto planimetrico è stata capace di accogliere secolo dopo secolo mani diverse, da quella del Filarete nel Quattrocento fino a quelle del team (guidato da Liliana Grassi) che ne ha ricucito magistralmente le membra sfigurate dopo i bombardamenti del 1943.5

Poi ci sono i celebri chiostri bramanteschi, fulcro del complesso del Monastero di Sant’Ambrogio, che a partire dalla fine degli anni Venti fu trasformato da Giovanni Muzio in Università Cattolica del Sacro Cuore.6

Per Sejima e Nishizawa il punto d’incontro con il claustrum rinascimentale non passa ovviamente – come per Muzio – attraverso l’utilizzo del mattone, e neanche dalla riproposizione di un ordine geometrico perentorio: i «chiostri» del nuovo campus Bocconi risultano dalla giustapposizione irregolare dei diversi edifici, tra i quali si sviluppa uno spazio verde di 17.500 mq aperto agli studenti e ai residenti della zona, pari al 50% dell’intera area, come previsto dal programma.

Alla definizione di questi spazi contribuiscono in maniera decisiva tre lunghi porticati coperti, che formano altrettanti nastri chiusi e che riescono a frammentare lo spazio verde in aree sempre fluide e comunicanti, ma dalla scala più contenuta. Si tratta di un espediente che distingue il progetto di SANAA da quello di buona parte dei concorrenti, che prevedevano invece una distinzione più netta tra edificato e giardini. Il riferimento al Serpentine Gallery Pavillion, disegnato da Sejima e Nishizawa nel 2009 a Londra, è immediato.7

Beinahe nichts?

Un’ultima riflessione, che abbraccia in maniera più ampia l’opera di SANAA, può essere fatta a proposito della loro «ricetta» architettonica. Guardando gli elaborati progettuali non si hanno sorprese sulla rosa dei materiali prescelti: mentre a pochi isolati di distanza lo studio Grafton aveva cercato un rapporto – tutt’altro che timido – con il carattere dell’edilizia milanese attraverso l’utilizzo estensivo del Ceppo di Gré (una pietra proveniente dal Lago d’Iseo molto comune in città), SANAA rimane fedele alla sua algida estetica fatta di vetro, vetro e ancora vetro, condito dai consueti pilastrini anoressici e da superfici bianchissime, quasi candeggiate. Il materiale più importante diventa quindi il verde, che farà da sfondo a tutti i settori del campus in continuità (anche per la scelta delle essenze) con il parco Ravizza.

Uno dei paralleli più sfruttati per descrivere questa sorta di «ascetismo» architettonico è quello con il beinahe nichts rincorso da Mies van der Rohe, quel «regno architettonico» in cui il nulla è quasi tutto, dove l’architettura sembra sparire, dove il tempo sembra congelato. Le differenze sono però numerose e sostanziali, e vale la pena elencarne qualcuna, al fine di comprendere meglio cosa si cela dietro al «minimalismo» di SANAA.

Si pensi innanzitutto al valore del dettaglio architettonico negli edifici di Mies, che punta quasi alla ridefinizione del principio dell’ordine classico in chiave moderna, e invece alla «banalità» (solo apparente) dei dettagli di sanaa, che sembra passare la spugna su qualsiasi cosa possa far indugiare lo sguardo sul corpo dell’architettura.

Si pensi al ruolo idealistico conferito da Mies all’elemento strutturale (a Berlino, Chicago, New York, etc.), specchio del significato da lui attribuito alla tecnica, e invece all’apparente elisione del fatto strutturale e di ogni ragione materiale negli edifici di SANAA. Paragoniamo i pilastrini cruciformi del tedesco e gli «stuzzicadenti» che popolano gli edifici del duo giapponese: se i primi sono trattati come gioielli dell’industria, isolati come fossero statue (vedi il padiglione di Barcellona), i secondi appaiono così effimeri che sembrano appartenere ancora al mondo della maquette architettonica, invece di aver raggiunto lo status di organismi statici.

Si pensi poi alla differenza tra la fluidità degli spazi di Mies, dove tutto rimane in tensione all’interno di un campo magnetico ordinatamente strutturato (basato ad esempio su un modulo quadrato di base, come nei famosi progetti per le case a corte), e la fluidità ricercata da SANAA nel Rolex Center di Losanna, dove lo smottamento tellurico da cui prende forma l’edificio elimina qualsiasi senso di proporzionalità geometrica.

Lo stesso si potrebbe dire a proposito del vetro: se Mies lo utilizza come etereo ma rigoroso strumento di determinazione dello spazio (nella Neue Nationalgalerie di Berlino, ad esempio), nell’opera di Sejima e Nishizawa è spesso utilizzato ai limiti del manierismo, come filtro ossessivo attraverso cui perdersi e ritrovarsi continuamente.

In questo senso è emblematico il progetto del Glass Pavilion di Toledo (2006), la capitale dell’industria vetraria americana, dove è chiaro come la sovrapposizione di molteplici trasparenze porti alla deformazione piuttosto che alla completa visibilità.
Vedremo tra qualche anno se il campus milanese confermerà tali interpretazioni o se invece ne aprirà di nuove.

Note

  1. Giuseppe Pagano, La nuova sede dell’Università Commerciale Luigi Bocconi, in «Costruzioni-Casabella», n. 170-171, febbraio-marzo 1942.
  2. La giuria, presieduta da Sir Peter Cook (fondatore di Archigram), era composta da: Guido Tabellini (allora rettore dell’Università Bocconi), Bruno Pavesi (consigliere delegato dell’Università Bocconi), Federico Oliva (professore di urbanistica al Politecnico di Milano),Yvonne Farrell (Grafton Architects), Martha Thorne (executive director Premio Pritzker), Deyan Sudjic (direttore Design Museum, London), Enrico Cucchiani (a.d. Intesa Sanpaolo, rappresentante della business community di Milano), Cesare de Seta (storico dell’arte e dell’architettura), Stefano Casciani (architetto).
  3. Cesare De Seta, Se un satellite cade a Milano, in «L’Espresso», 7 febbraio 2013, p. 79.
  4. Giuseppe Pagano, op. cit.
  5. Cfr. Gabriele Neri, L’Antico e il Moderno: texture alla Ca’ Granda, in «Lotus International», n. 144, dicembre 2010, pp. 123-125; Liliana Grassi, La Ca’ GrandaStoria e restauro, Università degli Studi di Milano, 1958.
  6. Cfr. F. Irace, Giovanni Muzio. 1893-1982. Opere, Electa, Milano 1994, pp. 102-117.
  7. Rebecca Morril e Melissa Larner (a cura di), SANAA: Serpentine Gallery Pavilion 2009, Koenig Books, London 2009.
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