Il Cen­tro Sviz­ze­ro di Mi­la­no do­po Ar­min Mei­li

Aggiunte, sostituzioni e perdite dal 1952 a oggi

Dal 17 maggio 1952, data dell’inaugurazione ufficiale della torre che ne caratterizza l’impronta urbana, il Centro Svizzero di Milano progettato da Armin Meili è stato interessato da numerosi interventi di manutenzione, ristrutturazione, adeguamento impiantistico e tecnologico, nonché da cambi di funzione in diverse parti del complesso. L’insieme di questi assestamenti somatici e strutturali, di genere e portata variabili, influisce profondamente sul carattere attuale della sua architettura.

Data di pubblicazione
06-08-2015
Revision
22-10-2015
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

Come dimostrano le fotografie pubblicate in quest'articolo sono infatti molti gli spazi del Centro Svizzero che hanno radicalmente cambiato il loro aspetto, con aggiunte, sostituzioni o inesorabili eliminazioni rispetto al progetto originario.

Data la varietà delle trasformazioni edilizie – corrispondenti in diverso modo a quelle di carattere gestionale, economico e sociale –, una valutazione unicamente «architettonica» del valore o dell’impatto di questi interventi non appare facilmente esprimibile. Tuttavia, un primo passo per una loro considerazione passa innanzitutto – come già fecero Karin Gimmi e Michael Burckhardt in una mostra di ormai più di un decennio fa,1 e come tentiamo di continuare qui – attraverso una ricognizione analitica delle sue principali tappe.

L’arte perduta

Le prime modifiche sostanziali del Centro Svizzero avvennero intorno al 1960, a pochi anni dal suo completamento, e riguardarono l’eliminazione del ristorante posto al 19° e 20° piano della torre e la relativa sostituzione dei serramenti2, a cura degli architetti Fritz & Batello. La stessa sorte interessò il «Quickbar», punto di ristoro posto al piano terra: la posizione arretrata della torre rispetto a piazza Cavour e via Palestro non favoriva infatti la frequentazione di questi due ambienti, e ne decretò la rimozione.

Purtroppo, in questo modo sono scomparse alcune interessanti testimonianze dell’architettura degli interni dell’epoca: ad esempio sulla parete del bar, leggermente inclinata, l’artista svizzero Fritz Fricker (che abitava a Milano) aveva realizzato un dipinto astratto a metà tra Mondrian e Paul Klee, sotto al quale si svolgeva un «arredamento all’americana» disegnato dall’architetto Hans Fritz con bancone curvo e sgabelli girevoli. Un sistema di illuminazione con tubi al neon dalla forma organica – molto simili a opere coeve di Lucio Fontana – pendevano dal blu del soffitto, riflettendosi nel pavimento in seminato nero brillante.

Tale menomazione fa emergere un tema interessante, ovvero il ruolo che l’interazione tra arte, design e architettura ebbe nel progetto originale di Meili. Come il «Quickbar», molte altre zone dell’edificio furono infatti disegnate con la collaborazione di giovani artisti svizzeri, attivi allora nello Schweizerischer Werkbund, che conferirono un carattere peculiare attraverso decorazioni, elementi d’arredo, sistemi d’illuminazione e contributi di vario genere, di cui oggi purtroppo si sono perse in gran parte le tracce.

Negli anni Cinquanta il Centro Svizzero presentava in particolare le opere del Textildesigner Arnold (Noldi) Soland (1910-1959), come uno schermo rettangolare in vetro dipinto, decorato con tipici fiori svizzeri su fondo oro – realizzato per gli spazi dell’Ufficio nazionale svizzero del turismo nel corpo basso – e il suggestivo controsoffitto dell’auditorium, composto da coloratissimi pannelli. Tali pannelli, purtroppo perduti, illustravano – su richiesta della committenza – motivi araldici e diversi simboli naturali elvetici. Soland, che aveva frequentato la Kunstgewerbeschule di Zurigo tra il 1926 e il 1932 studiando con Ernst Gubler e Otto Morach, era specializzato nel disegno del tessile: nel 1937, ad esempio, la sua collezione di tessuti decorativi stampati a mano aveva avuto un discreto successo alla Fiera Mondiale di Parigi, che si ripeté a Zurigo alla Schweizerische Landesausstellung del 1939. Nel decennio successivo si fece notare per diversi allestimenti di mostre e padiglioni legati all’industria tessile.3 Soland, che nel 1947 aveva fondato a Zurigo una ditta insieme ad Hans Buser (la Soland & Co.), collaborò con Armin Meili anche per il Centro Svizzero di New York, concependo dei pannelli in vetro dipinto (1953).

Perdute, purtroppo, sono pure le decorazioni murali disegnate dalla pittrice, grafica e scultrice Cornelia Forster (1906-1990) sulle pareti del ristorante con terrazza posto al quarto piano del corpo basso, oggetto – come si vedrà più avanti – di diversi interventi a partire dagli anni Novanta. Come Soland, anche la Forster – una delle prime donne svizzere a emergere nel campo delle Arts&Crafts in Svizzera4 – aveva frequentato la Kunstgewerbeschule a Zurigo (nel 1922-1926) e poi, a Parigi, la scuola del postcubista André Lhote e la Académie de la Grande Chaumière. Negli anni successivi, e in particolare durante la seconda guerra mondiale, realizzò numerosi schizzi e decorazioni per l’industria tessile; nel 1947 studiò la tecnica dell’arazzo nell’atelier di André Lurçat a Saint-Céré, in Francia. Proprio a Milano, nel 1952, con il Centro Svizzero appena ultimato, si svolse la sua prima rilevante mostra, organizzata dal Movimento Arte Concreta.5 Sull’opera della Forster nel ristorante del Centro Svizzero si possono citare le parole di Alfred Roth, a quel tempo caporedattore della rivista «Werk»: «Nell’esecuzione pratica tuttavia le molte ipoteche tematiche si rivelarono troppo gravose per l’artista. La committenza pretendeva che venissero illustrati in abbondanza articoli d’esportazione e prodotti tipici del paese. E benché la pittrice si sia seriamente impegnata, non si rivelò all’altezza del compito e la sua opera si esaurisce in una certa accentuazione degli spazi e delle nicchie attraverso i colori.»6

Per fortuna, ciò che non è andato perso è il grande e divertente mosaico realizzato su disegno dell’artista Alberto Salvioni (1915-1987) per la pavimentazione della corte interna tra i due corpi, il cui programma figurativo si basa, ancora una volta, sull’iconografia elvetica. Si riconosce infatti l’Armoriale dei Cantoni svizzeri, realizzato con diverse tonalità di grigio sullo sfondo bianco: il toro del Canton Uri, l’Aquila del Canton Ginevra, le stelle del Canton Vallese ecc. L’artista realizzò un mosaico più piccolo anche sulla terrazza panoramica in cima alla torre, con l’indicazione delle viste offerte da tale prospettiva, che al tempo era visibile a chi frequentava il ristorante all’ultimo piano.

Nato a Ravecchia (Bellinzona) nel 1915 in una famiglia svizzero-milanese, Salvioni aveva studiato pittura all’Accademia di Brera di Milano nel 1935-1938 con maestri come Aldo Carpi, Benvenuto Disertori e Francesco Messina, e dopo la fine della guerra si era trasferito nuovamente nel capoluogo lombardo, pur trascorrendo periodi anche a Parigi e Londra. Oltre ai mosaici del Centro Svizzero, l’artista realizzò diversi affreschi religiosi e profani in Ticino (chiesa di Ravecchia, 1941; cappelle della Via Crucis 1952; ecc.); i mosaici della Scuola d’arti e mestieri a Bellinzona (1953) ecc.7 Nel 1952 fu tra i fondatori del Gruppo della Barca, sodalizio di artisti ticinesi. Da segnalare sono anche la decorazione dell’atrio della Posta di Lugano-Stazione (1961), il mosaico presso la Clinica Hildebrand a Brissago (1967) e la decorazione a Fresco nella mensa degli studi televisivi di Lugano a Comano.8

L’insieme dei contributi artistici presenti in origine nel Centro Svizzero costituisce un caso di sicuro rilievo nel contesto milanese di quegli anni, ma non un’eccezione. Una simile attenzione verso il ruolo dell’arte nell’architettura deve infatti essere inserita nel clima culturale coevo. Come ha ben descritto Paolo Campiglio,9 negli anni Cinquanta a Milano si può parlare di «sintesi delle arti», intendendo con questa espressione «una ricercata unità di stile e la collaborazione tra pittori, scultori e architetti teorizzata fin dal 1947 da Le Corbusier e ripresa dai maestri dell’architettura contemporanea quali Giedion e Gropius nei vari congressi del CIAM»10 dal 1947 in avanti.

Gli esempi sono innumerevoli: dalla collaborazione di Lucio Fontana con Menghi e Zanuso per l’edificio di via Senato (1947), dove l’artista realizzò diversi motivi decorativi e la splendida maniglia in ceramica della porta d’ingresso, agli interventi di Fausto Melotti per il negozio Motta in piazza Duomo o per la birreria Forst in Galleria Vittorio Emanuele (entrambe opere di Melchiorre Bega); dal grande pannello murale di Mattia Moreni per l’ingresso del Palazzo Olivetti in via Clerici (progetto di Gian Antonio Bernasconi, Antonio Fiocchi e Marcello Nizzoli, del 1954) alla partnership tra Gio Ponti e Piero Fornasetti, ad esempio nell’appartamento Lucano, del 1952. E ancora: il mosaico di Roberto Sambonet per l’edificio di Vito e Gustavo Latis in piazza della Repubblica (1955); i pavimenti di Francesco Somaini nelle architetture di Caccia Dominioni; la facciata disegnata da Giovanni Dova per l’edificio di Marco Zanuso alla Darsena (1950-51).L’elenco potrebbe continuare a lungo, e a questo bisognerebbe aggiungere la vitalità delle gallerie attive in quegli anni, l’inaugurazione di spazi come il Padiglione d’Arte Contemporanea di Ignazio Gardella (1953) ed eventi «magnetici» quali le Triennali del 1951, del 1954, del 1957.

Le performances del Centro Svizzero fanno dunque parte un diffuso fermento culturale, e rispetto ad esso si deve considerare ciò che l’edificio rappresentava e offriva alla sua apertura. Su questo tema è ancora da segnalare un commento di Roth a proposito del risultato ottenuto al Centro Svizzero: «Come abbiamo potuto vedere, il Centro Svizzero, con i suoi risultati positivi e negativi, nell’ambito della decorazione artistica, offre alcuni preziosi spunti sul tema: architettura e arti figurative. Poiché la questione oggi è diventata ovunque di grande attualità, non possiamo, in conclusione, non segnalare l’aspetto più problematico di questa interazione: i committenti, nonostante le buone e condivisibili intenzioni, dovrebbero mantenersi un passo indietro e dimostrare nei confronti degli artisti e delle opere d’arte, maggior comprensione e tatto. Il compito straordinariamente difficile di creare un’interazione organica e sensata tra architettura e arti figurative non potrà che fallire, se non vengono tenuti in considerazione l’unitarietà artistica e la proporzionalità dell’intera opera e se quindi viene messa in primo piano una tematica illustrativa puramente esteriore, priva quindi di sostanza artistica.»11

Nuove esigenze dagli anni Ottanta

Se il complesso ha funzionato in maniera soddisfacente per molto tempo, a partire dagli anni Ottanta – con l’evoluzione dell’organizzazione degli spazi di lavoro e delle relative esigenze – il Centro Svizzero ha cominciato a subire una serie di trasformazioni dettate innanzitutto dal tema dell’adeguamento tecnologico e funzionale. Si è così sollevato il problema, cruciale, del rapporto tra l’organismo architettonico originale e le parti «inadeguate».

Nel 1988 furono ad esempio cambiati quasi tutti i serramenti dei due blocchi (con l’eccezione di quelli degli ultimi piani della torre), cercando di rispettare il disegno originale di Meili con la produzione di pezzi speciali. Negli anni Novanta, a quarant’anni dalla nascita dell’edificio, gli interventi si sono fatti sempre più frequenti ed estesi: anche per questo, oltre alla manutenzione ordinaria, la proprietà decise di affidare le opere più significative a studi di architettura che fossero capaci di risolvere i problemi funzionali con una visione architettonica e non puramente tecnica.

In quest’ottica, tra il 1992 e il 1997, lo Studio Campi e Pessina – già in precedenza consultato per una serie di progetti preliminari12 – si è occupato della ristrutturazione di una parte consistente del corpo basso (tra cui gli spazi della Società Svizzera, il Centro congressi e il ristorante con terrazza al quarto piano) e della realizzazione del nuovo Centro Culturale al piano terra della torre. La «Sala Meili», fulcro del Centro congressi, costituisce uno degli interventi più significativi, per la funzione che ricopre e per l’atteggiamento progettuale qui applicato. Se prima lo spazio (circa 300 mq) si definiva come una semplice scatola rettangolare contraddistinta dalle decorazioni policrome del controsoffitto di Noldi Soland, vivacemente contrapposte al rivestimento laterale in pannelli di acero, l’intervento di Campi e Pessina ha optato invece per una totale uniformità, con toni omogenei indotti da un rivestimento continuo in pannelli di legno di ciliegio.

Un simile trattamento delle superfici prosegue negli spazi contigui al piano terzo, dove parquet, pannelli di legno e il bianco delle pareti e dei controsoffitti segnano il nuovo lessico architettonico degli ambienti dedicati all’attesa e alle sale riunioni. Qui, originariamente, una serie di lampadari in vetro di Murano, con bracci a forma di campanula, punteggiava il foyer prima dell’ingresso alla grande sala, facendo dialogare tali forme sinuose con la silhouette organica della balconata superiore. Un simile discorso si può fare per il ristorante al quarto piano, dove, al posto delle originali decorazioni di Cornelia Forster, Campi e Pessina hanno applicato un’analoga pannellatura omogenea in legno.

Confrontando le fotografie degli anni Cinquanta13 e gli scatti di Giovanni Chiaramonte degli anni Novanta, appare evidente il profondo mutamento del carattere architettonico originale. Il rigoroso modernismo dei volumi disegnati da Meili era infatti in qualche modo mitigato all’esterno e all’interno dalla verve decorativa di Salvioni e colleghi, che assorbirono le richieste della committenza – la volontà di vedere i simboli araldici svizzeri, o la flora tipica, ad esempio – e le reinterpretarono in maniera piuttosto libera. Con il progetto di Campi e Pessina, ispirato – secondo le parole degli stessi architetti – ai toni di un certo razionalismo italiano14 e contestualizzabile in un decennio dominato dal minimalismo architettonico, venne così favorita invece una sobrietà pervasiva, forse in linea con un certo rigore formale dell’architettura elvetica.

A questa semplificazione espressiva, peraltro ben eseguita, corrisponde però, nella Sala Meili, un impianto spaziale maggiormente articolato, che viene a crearsi con il disegno di una nuova parete mobile inclinata – dietro al quale si nascondono tutte le attrezzature tecniche – e con la sagoma della balconata che segna l’ingresso alla sala. Agli interventi descritti, che hanno reso più flessibili e funzionali gli spazi dell’intero complesso, si deve aggiungere la modifica (nel 1996) dei serramenti degli ultimi piani della torre, riportati – dopo la sostituzione del 1960 – al disegno originale.

Con il passare degli anni le esigenze di manutenzione, le richieste dei nuovi inquilini (a metà del decennio la società UBS affitta gli uffici della torre, che occupa ancora oggi) e la necessità di adeguamento alle più recenti normative di carattere energetico e di sicurezza (in particolare la legge 626/1994) imposero una nuova serie di interventi edilizi e impiantistici, affidati questa volta allo studio degli architetti Mario Broggi e Michael Burckhardt. Il primo intervento realizzato fu la ristrutturazione del Consolato svizzero, al secondo piano del corpo basso, in cui – come spiega Burckhardt nelle pagine seguenti – le richieste funzionali sono state esaudite riflettendo anche sul tema dell’angolo dell’edificio15, uno dei punti nodali del progetto di Armin Meili. Il layout interno, dipendente da questioni legate allo space planning e da vincoli di sicurezza, presenta infatti elementi divisori curvilinei che si adattano all’angolo ottuso dell’edificio.

Diversi interventi hanno poi riguardato l’adeguamento degli impianti: il principio di economia utilizzato da Meili nel dimensionamento dei volumi tecnici, finalizzato a lasciare il massimo spazio possibile a disposizione dell’utenza, era entrato in contrasto con le esigenze contemporanee. Richiedendo in diversi punti un considerevole aumento di questi volumi, Broggi+Burckhardt hanno dunque dovuto affrontare operazioni molto delicate, dalla scala del dettaglio a quella della città, con l’obiettivo di non snaturare il progetto originale ma senza rinunciare a dare all’edificio standard prestazionali contemporanei.

Sulla facciata nord della torre, orientata verso i giardini, l’originale corpo in aggetto è stato ampliato mediante la realizzazione di un volume tecnico complanare, destinato alle tubazioni verticali e rivestito con pannelli prefabbricati in GRC applicati su una leggera struttura in acciaio. Tali pannelli, che contengono inerti costituiti da polvere di marmo, definiscono una continuità cromatica con le tesserine rettangolari della facciata di Meili in marmo di Carrara.

Un altro intervento importante ha riguardato la sostituzione, per ragioni di sicurezza, della scala di collegamento tra il terzo piano del corpo basso (in corrispondenza della Sala Meili) e la corte interna, non più in regola dal punto di vista dimensionale. Invece di sporgere come un parallelepipedo regolare, com’era in origine, la nuova scala presenta un volume trapezoidale, inclinato in modo da avere in alto una lunghezza adeguata alla normativa. Nella corte interna, inoltre, sempre per ragioni di adeguamento normativo, si è resa necessaria l’installazione di una scala di emergenza collegata all’autorimessa sottostante. Tale intervento ha dovuto fare i conti con il disegno pavimentale di Alberto Salvioni, che è stato tagliato, ricucito e completato in base al nuovo volume della botola, che sporge dal terreno di qualche decina di centimetri.

Sempre nella corte, Broggi & Burckhardt hanno poi ripensato il disegno della pavimentazione sul lato verso la strada (via del Vecchio Politecnico): dove in origine c’era una fontana, oggi troviamo un piccolo giardino dalla forma organica, tagliato in diagonale da un percorso in lastre di marmo e segnato da un tiglio.

Un intervento di notevole impatto ha riguardato il sopralzo della copertura, per ragioni impiantistiche, di entrambi i corpi. In tutti e due i casi si trattava, in pratica, di aggiungere un nuovo piano, costituito da un volume tecnico di notevoli dimensioni. Nell’ottica di minimizzare l’impatto visivo dal basso, in sommità della torre tale volume è stato arretrato quanto possibile e rivestito in pannelli di alluminio grigio chiaro. Sulla copertura del tetto basso la situazione era molto diversa, data la visibilità che il volume tecnico avrebbe avuto dalla strada e dai piani alti della torre. Broggi+Burckhardt hanno così deciso di utilizzare, per il nuovo volume, una griglia di alluminio stirato che alleggerisce la sua percezione: dalla corte interna, ad esempio, l’angolo di visuale lascia intravedere il cielo, mentre dall’alto la griglia riesce a celare le macchine installate sopra la copertura.

Nel ristorante La Terrazza, come visto già modificato radicalmente alla metà degli anni Novanta, la necessità di dotare l’ambiente di un adeguato impianto di climatizzazione ha portato i progettisti ad appendere alla volta dei canali in tessuto, che portano l’aria e hanno anche un sistema integrato di illuminazione. Tale soluzione ha consentito di evitare la realizzazione di un vero e proprio controsoffitto, che avrebbe nascosto il profilo curvo della volta, risalente al progetto originale e mantenuto da Campi e Pessina.

Tra gli altri interventi sono da segnalare l’eliminazione del bar pensato da Campi e Pessina al quarto piano (che non essendo quasi mai utilizzato è stato sostituito da un piccolo spazio multifunzionale); la realizzazione di un ponte di collegamento sospeso tra torre e corpo basso; il trattamento del punto di incontro tra la torre e il corpo basso, in cui è stato inserito un manto vegetale steso su una specie di ragnatela di cavi d’acciaio.

L’ultimo significativo progetto che ha interessato il Centro Svizzero riguarda alcuni tra gli spazi più visibili del complesso, ovvero quelli a piano terra affacciati direttamente sull’incrocio tra via Palestro e piazza Cavour. Qui lo studio Bearth & Deplazes Architekten ha realizzato (per la Camera di Commercio Svizzera in Italia) un bar con annesso spazio espositivo, il cosiddetto «Swiss Corner», inaugurato nell’ottobre del 2012. L’ambiente, che in totale prende nove delle vetrate rivolte verso la strada, è caratterizzato dalle pareti di fondo, composta da nove pannelli retroilluminati a tutta altezza (circa 80 mq), che possono essere utilizzati per proiezioni qualsiasi tipo. Dalla strada, tali pareti rendono lo spazio cangiante; all’interno invece le immagini vengono moltiplicate da superfici cromate e riflettenti.

I lavori ovviamente non sono finiti. Di recente è stato infatti indetto un bando di gara di progettazione per uno studio complessivo dello stato attuale degli impianti e delle facciate, che si risolverà entro la fine dell’estate con una prima fase preliminare di progettazione di massima. Incaricato di questa indagine è ancora lo studio Broggi & Burckhardt.

Un organismo vivo

L’importanza di questi interventi, anche i più minuti, non è da sottovalutare. Distribuiti per tutto il complesso, essi influenzano infatti in maniera considerevole la percezione e la fruizione dell’architettura nonché il suo rapporto con il tessuto urbano circostante, con il parco, con lo spazio pubblico e con la città. Da un lato, ad esempio, il turnover funzionale riflette e segue il movimento della società che ruota quotidianamente attorno a questo nodo urbano strategico: dalla Milano del «Quickbar», lanciata con entusiasmo verso il boom economico, alla Milano dello «Swiss Corner», all’ombra dell’Expo. Dall’altro lato, la storia del Centro Svizzero ci mostra invece quanto la scelta di un materiale, il profilo di una  finitura, il colore di una nuova aggiunta, lo spessore di una griglia metallica o di qualsiasi altro elemento possano trasformare il carattere architettonico di un edificio, facendo quasi dimenticare ciò che esisteva prima all’interno delle stesse pareti e segnando così un rilevante mutamento dei paradigmi estetici del tempo.

Diversi per posizione, dimensione e impatto, i progetti di Campi & Pessina, di Broggi & Burckhardt, di Bearth & Deplazes si sono cimentati dunque – mediante toni e argomenti diversi – con un tema progettuale che si dimostra essere di primaria importanza nel disegno della città contemporanea, mettendo in atto quelle necessarie alterazioni che un simile organismo, per mantenersi vivo, deve accettare ma anche vagliare con estrema cura. Aggiungere nuova linfa in un organismo storicizzato ma pienamente funzionante non è infatti un’opzione, ma una pressante necessità.

Note

  1. Cfr. K. Gimmi, M. Burckhardt, La costruzione del Centro Svizzero. Una mostra in quattro capitoli su quattro piani, catalogo della mostra (Milano, Centro culturale svizzero), s.e., Milano 2001. La mostra è stata poi portata a Zurigo: cfr. K. Gimmi, M. Burckhardt, Meili, Mailand und das Hochhaus: Das Centro Svizzero di Milano, 1949-52, catalogo della mostra (Zurigo, Architekturfoyer der eth-Hönggerberg, 29 maggio-18 luglio 2002), gta Verlag, Zürich 2002.

  2. Sul disegno dei serramenti del Centro Svizzero si veda: «Vitrum», n. 41, marzo 1953.

  3. Cfr. la nota biografica in A. Rüegg (a cura di), Swiss Furniture and Interiors in the 20th Century, Birkhäuser, Basel 2002.

  4. Cfr. ibidem, p. 81.

  5. Sulla sua opera si veda ad esempio Cornelia Forster. Pitture, acquarelli, disegni, sculture ed arazzi, catalogo della mostra (Lugano, Galleria Pro Arte, 1989), Lugano 1989.

  6. A. Roth, Das Centro Svizzero in Mailand, «Werk», 39, 1952, p. 356.

  7. Sull’opera di Salvioni si veda: G. Mandozzi (a cura di), Alberto Salvioni (1915-1987), Civica galleria d’arte, Bellinzona 1992;

  8. Cfr. S. Donati, S. Piccaluga, M. Will (a cura di), Alberto Salvioni, catalogo della mostra (Lugano, ex Municipio di Castagnola, ottobre-novembre 2003), Visarte, Tegna 2003.

  9. P. Campiglio, Esempi di «sintesi delle arti» a Milano negli anni Cinquanta, in F. Gualdoni (a cura di), Milano 1950-59. Il rinnovamento della pittura in Italia, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 22 giugno-21 settembre 1997), Comune di Ferrara-Civiche Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, Ferrara 1997, pp. 101-116. Cfr. anche S. Soldini, Ticino 1940-1945. Arte e cultura di una nuova generazione, Museo d’arte di Mendrisio, 2002.

  10. P. Campiglio, op. cit., p. 101.

  11. A. Roth, Das Centro Svizzero in Mailand, cit.

  12. Si trova traccia di questi progetti (e di quelli effettivamente realizzati) nel Fondo Mario Campi conservato presso l’Archivio del Moderno di Mendrisio.

  13. Cfr. ad esempio le fotografie e gli elaborati grafici pubblicati in A. Meili, Das Centro Svizzero in Mailand, «Schweizerische Bauzeitung», n. 69, 1 settembre 1951, pp. 485-494; W. Jegher, Das Centro Svizzero in Mailand, «Schweizerische Bauzeitung», n. 72, 30 gennaio 1954, pp. 57-61; A. Roth, Das Centro Svizzero in Mailand, cit.

  14. Cfr. la relazione di progetto pubblicata nelle pagine successive.

  15. Cfr. il testo di Michael Burckhardt pubblicato nelle pagine seguenti.

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