Canaletto con il mouse
Filippo Bolognese e l’immagine dell’architettura svizzera
Pensavo di trovarlo davanti al computer, immerso nella realtà virtuale di qualche concorso. Invece sta ragionando sul colore della facciata del suo nuovo studio milanese, al piano terra di una palazzina in zona nord-ovest non distante dall’imbocco dell’autostrada. Un posto comodo per tornare a Como o in Ticino, dove rimane parte della sua attività come architetto.
Filippo Bolognese, classe 1985, è cresciuto vicino a Milano ma dice di sentirsi anche svizzero. Della Svizzera ha acquisito la cultura studiando prima all’Accademia di architettura di Mendrisio – che lo «rubò» al Politecnico milanese grazie alle campagne di reclutamento fatte all’inizio degli anni Duemila – e poi collaborando con diversi studi, tra cui Durisch+Nolli. Lo vogliamo incontrare per il suo particolare contributo all’architettura contemporanea elvetica: sono suoi i rendering di molti progetti di studi come EM2N, Miller e Maranta, Stefano Moor, Hosoya Schaefer architects, Lopes Brenna (con cui collabora da anni) e altri. Tra i suoi clienti figurano inoltre studi esteri noti tra cui Snøhetta, Michele De Lucchi, Gonçalo Byrne. Come si scopre dal suo sito, molte delle sue immagini hanno contribuito a far vincere concorsi importanti.
Come ci è arrivato, in questa posizione? Non casualmente. C’è un fil rouge, racconta, che va indietro fino al liceo artistico, quando si accese la passione per la sperimentazione grafica, per il disegno, l’immagine. Tale passione è stata poi coltivata all’università – «aiutavo i miei amici nella presentazione dei progetti» – e trasportata nella pratica professionale, fino a diventare un esperto nel «raccontare» l’architettura non ancora costruita.
Il computer, però, non sembra interessargli molto. Dice che è uno strumento come un altro. «La mia è una piccola battaglia contro il tecnicismo delle immagini», afferma in modo pacato. «Nel mondo di chi fa i rendering rischi di perdere di vista il racconto del progetto, che deve invece essere protagonista». Così non parliamo di software e tecniche di modellazione, ma del concetto che sta dietro alle immagini prodotte da lui e dal suo team di circa dieci persone.
È un mondo molto quieto quello dei suoi rendering (esiste una parola più brutta?). L’occhio sembra distante, sembra guardare da una finestra più che essere immerso nella realtà virtuale che vuole rappresentare. Di solito il punto di vista è ad altezza uomo, anche se qualche volta usa la vista aerea, come fa ad esempio il fotografo Iwan Baan. «Ma preferiamo delle viste che ricordino i prospetti: la tranquillità di una forma ortogonale». Quali sono i riferimenti per quest’opera di restituzione? Oltre alla fotografia d’architettura, Filippo Bolognese cita i vedutisti del Settecento. «Canaletto, ad esempio. Anche loro cercavano di restituire l’immagine della città e dell’architettura».
Potrebbero sembrare immagini «fotorealistiche», ma «è più un discorso di verosimiglianza», precisa Clara Lopez, office manager dello studio. Affinando lo sguardo, si nota infatti come tutto sia abbassato di un tono, grazie a un lavoro di postproduzione fatto a Photoshop ma che per Filippo ricorda tecniche più antiche. «Si avvicina al chiaroscuro a matita; ogni parte dell’immagine è molto lavorata, passata innumerevoli volte con delle pennellate digitali». Con la «patina» che si viene a creare, l’immagine diventa più quieta, attutita, con non più di tre o quattro colori dominanti, in controtendenza rispetto alla legge della comunicazione odierna, che predilige le urla alla conversazione. «Quando navigo sul web ormai il mio occhio si ferma solo quando trovo una pausa, pochi elementi, pochi colori». Anche i suoi rendering scelgono di dare pochi elementi in pasto all’occhio. In questa selezione, si ritrova anche una consonanza con un certo «modo» dell’architettura svizzera quando essa si definisce per ordine e compostezza. Gli chiedo: in che misura influiscono le tue immagini sul risultato di un concorso? Sembra che abbia trovato la formula giusta, dati i recenti successi. Mi smentisce. «In Svizzera le giurie guardano molto attentamente i progetti, l’architettura. Non le immagini». (Non so se sia una frase politically correct; probabilmente è vero). «All’estero invece tutto è molto più rumoroso».
Come si svolge, in pratica, il suo lavoro? La prima fase è quella più noiosa: l’architetto di turno consegna un progetto e vuole vederlo in tre dimensioni. Osservando il modello digitale, finalmente capisce che cosa ha progettato. Allora lo mette in discussione, lo cambia, e bisogna modellarlo nuovamente. Tante volte. È la parte più meccanica per Filippo e il suo team: in fin dei conti qui il lavoro è quello del «vecchio» modellista. A dimostrazione che piante, prospetti e sezioni non bastano a visualizzare lo spazio, a capire il progetto nella sua complessità volumetrica. Nella seconda fase, intermedia, si cominciano a delineare delle scelte «stilistiche», con la precisazione di dettagli e materiali. Ma la fase più stimolante è la terza: il progetto è ormai finito e si può finalmente «percorrerlo», visitarlo, esplorarlo e infine raccontarlo. Filippo sostiene infatti che il suo lavoro somiglia a quello di un fotografo di architettura, che ha davanti l’edificio e deve trarne un’immagine. Come per un fotografo, esistono le basi tecniche del mestiere, ma la parte più importante è ciò che si vuole far emergere del mondo, reale o virtuale che sia. Per questo «non assumiamo nerds nel nostro studio, ma persone – preferibilmente architetti – che abbiano uno sguardo più aperto e consapevole. Non è facile trovarle».
La conversazione si interrompe. Gli scatoloni da sistemare nel nuovo studio sono ancora tanti e la settimana prossima sono già previste ore di straordinari per la prossima consegna. E poi bisogna sistemare la facciata scrostata: per quella, Photoshop non basta.