Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, mar­zo 2011

29 marzo 2011: Riflessione sulla provincia e la città

Data di pubblicazione
09-01-2012
Revision
19-08-2015

In quel di Tarragona
Weekend a Tarragona, compreso il nipotino. Domenica di visite alle archeologie romane. A un bel museo. Poi basta. Qui la domenica alle due del pomeriggio tutto chiude. D’accordo il pranzo al ristorante, ma poi? Fuori piove, e il nipotino come giusto ha un muso lungo così. Idea: andiamo al cinema! Ma in giro, in centro, di cinema non se ne vedono, così come di abitanti, del resto. Saltiamo allora su un taxi e chiediamo di portarci al cinema più vicino. Ce ne sarà almeno uno in una città in cui vivono centocinquantamila persone! E quello viaggia per oltre sette chilometri, oltre la periferia, e si ferma in mezzo ad un immenso posteggio. Quasi vuoto. Scendiamo dal taxi, e tra squallidi capannoni adibiti a shopping center e outlet, emerge – si fa per dire – uno scatolone in lamiera, con le insegne al neon dei film in corso. È il multisala. Dentro, nell’atmosfera dolciastra dei popcorn, con uno slalom tra gadget e giocattoli e film dvd troviamo anche l’entrata alle sale. Buio, finalmente.

In quel del Ticino
Da noi le cose non sono mica differenti. Il multisala Lugano lo ha a Cornaredo, e a Locarno si progetta – a leggere i giornali – di costruirne uno non ricordo se a Losone o a Tenero. Le conseguenze sono lì da vedere: la sera, il multisala Cinestar a Cornaredo è strapieno di gente, mentre il Cinema Corso, l’unico rimasto nel centro di Lugano, è semivuoto. Certo, nella stretta ottica del commercio è un ottimo affare, ma per la città, per il territorio e il loro modo di essere vissuti è un disastro. Primo, perchè il multisala in periferia non ha portato nulla a quella periferia, non è un centro dinamico di vita collettiva, non è una struttura aperta su uno spazio pubblico, su una piazza, ma un edificio in mezzo ad un anonimo posteggio. Peggio di così non si poteva fare. Secondo, il centro si è ulteriormente impoverito, la città pezzo dopo pezzo perde i luoghi di aggregazione e le dinamiche che la dovrebbero caratterizzare, in una catena che comporta inevitabilmente la progressiva chiusura degli altri luoghi di interesse pubblico. La città è una macchina delicata e toccarne una sua sola rotella può comportare il blocco degli ingranaggi. La sera, o le domeniche di pioggia, Lugano non è differente da Tarragona.

Città clonate
«Le vie del mondo sono tutte uguali» è l’articolo pubblicato da Repubblica il 20 settembre 2010 a firma Enrico Franceschini. Vale la pena di leggere alcune frasi. «L’espressione città clonate è stata usata per prima dalla New Economics Foundation (Nef), una fondazione di studi del Regno Unito (...) La Nef afferma che oggi il 41 per cento dei centri urbani del Regno Unito sono città clonate (...) hanno la stessa, identica highstreet, come si chiama qui la strada principale, la via dello shopping e del passeggio, equivalente della main street americana. Il caffè è uno Starbucks o un Costa. Il pub è un Wheterspoons o un All Bar One. Il ristorante è un McDonald per il fast food, un Wagamama per il cinese, Domino’s per la pizza, Nando’s per il pollo. Il supermercato è un Tesco, un Sainsbury o un Waitrose. La farmacia è Boot, la libreria è Waterstone, l’edicola è W. H. Smith. E il negozio di abbigliamento è Gap o Top Shop. Aggiungeteci un negozio di telefonini Vodafone, uno di elettronica ed elettrodomestici Curry, uno di arredamento Conran, e la strada è completa. La città è fatta. Anzi, clonata (...) Cambridge è la città più clonata di Gran Bretagna: proprio Cambridge, con la sua università ottocentenaria, le sue stradine medievali ornate di guglie, torri e pinnacoli. Eppure sulla sua high street convivono soltanto nove varietà di negozi, nove brand differenti (...) Tra il 1997 e il 2002, i negozi indipendenti di alimentari in Gran Bretagna hanno chiuso al ritmo di uno al giorno e quelli di prodotti specializzati al ritmo di 50 alla settimana (...) Nell’ultimo anno in Inghilterra hanno chiuso 700 pub nei villaggi».

Vie del Ticino
Anche i più importanti centri urbani del Ticino sono «clonati», chi più chi meno. A Lugano, se si percorre il chilometro tra via Canova, Piazza Riforma e via Nassa, esclusi sei o sette bar, tutti gli altri negozi – ma dico tutti – o sono per la vendita di orologi e gioielli, o per la vendita di scarpe, o per la vendita di vestiti. E come nelle altre strade pedonali europee, nelle vetrine sono in mostra gli stessi modelli di orologi e di gioielli e di scarpe e di vestiti. E le stesse marche. Come detto, la città è una macchina delicata e a toccarne una sua sola rotella può comportare il blocco degli ingranaggi. Ecco perchè poi da un lato per rendere attrattive le sere del centro città è necessario inventare festival musicali e spettacoli di marionette e teatrini all’aperto e piste di ghiaccio, mentre d’altro lato senza tali artifici ed eventi di massa i luoghi destinati alle relazioni sociali – le strade e le piazze – sono oramai vuoti e considerati in generale posti inospitali e sovente pericolosi.
Salvatore Settis, con la lucida acredine che lo contraddistingue, scrive: «Si è posto il mercato al di sopra di ogni altro valore e lo spazio sociale, che era carico di senso, è stato travolto dal meccanismo consumistico di una violenta rottamazione, è diventato esso stesso una merce, vale non perché possiamo viverlo, ma solo in quanto può essere occupato, prezzato, cannibalizzato».

Identità urbana e turismo
È un disastro cui occorre preoccuparsi. Non riguarda l’estetica. Non lo si può chiamare urbanistico, né sociale è il termine adatto, ma coinvolge comunque gli spazi della città, il modo in cui sono vissuti, il loro ruolo nella socializzazione degli individui che lo abitano. Riguarda il territorio. Con conseguenze del resto che toccano non solo la qualità urbana delle città, ma anche quelle fondamentali dell’economia, vale a dire del motore stesso che le ha provocate. Il serpente si morde la coda: la crisi del turismo che conosciamo in questi ultimi anni e la progressiva erosione nel numero dei villeggianti è imputabile – anche – alla progressiva perdita di identità dei nostri luoghi, un fatto grave perchè il valore delle città del Ticino risiede proprio nella loro identità. Né la crisi risparmia, o risparmierà, i negozi stessi che queste strade occupano, in concorrenza tra loro e in concorrenza con gli identici negozi che il turista ha già trovato nelle città di Spagna o dell’Olanda, a Copenaghen o a Stuttgart o a Atene. Nelle identiche strade pedonali.

Dalla città al territorio
Tutto ciò avviene anche a livello dell’intero territorio del Ticino. Identico. E ha un nome ben preciso: shopping center. Certo, lo shopping center oggi ci vuole, ha anzi un suo ruolo di aggregazione e socializzazione ben preciso dentro un territorio i cui fondovalle sono quasi totalmente urbanizzati. Ma quando è troppo è troppo. Non conosco i dati statistici, ma credo che la somma delle superfici di vendita di tutti i piccoli o grandi shopping center – dagli outlet ai shopping ai supermercati – sia una cifra assolutamente mostruosa rispetto al numero degli abitanti del Cantone Ticino. E se ne vogliono costruire altri, e non pochi. Tralascio ogni considerazione sullo spreco di territorio o sul traffico che generano, ciò che mi preme è sottolineare – esattamente come nei centri storici – quanto le conseguenze siano gravi per il territorio, per il suo modo di essere vissuto. E soprattutto per l’identità e qualità del paesaggio del Ticino, che proprio sull’identità e qualità basa il suo valore. Non solo, ma tutte queste superfici di vendita sono una bomba a orologeria, perchè al primo accenno di crisi economica o di ulteriore svalutazione dell’euro diventeranno una micidiale fonte di ricatti verso gli enti pubblici. Esattamente come i negozi nei centri storici. Qui reclamano animazione e sicurezza, là reclameranno (anzi, già reclamano) maggiori servizi, più strade, più posteggi.
Nuove strategie
A costo di uscirne con le ossa rotte, una possibile risposta è quella che chiamerei strategico-culturale, nella quale convergano in uno sforzo collettivo tutti i possibili attori di un processo di rinnovamento. Attori della politica, dell’economia, della pianificazione, dell’architettura, della cultura, della sociologia. Della storia anche. Della «coscienza collettiva» pure. Dubito che si abbia la forza e il coraggio di trasformare un posteggio in una piazza, di difendere e aiutare un piccolo commercio, di obbligare alla varietà commerciale una strada, di introdurre uno stop generale agli shopping center. Eppure è una soluzione possibile: gli strumenti esistono – dalla volontà politica e i suoi riflessi nelle strutture esecutive e giuridiche ai vari Piani Direttore e settoriali e comunali – per quello sforzo collettivo che ho chiamato strategico-culturale. Nel quale ci ficco anche i soldi necessari, che sono poi quelli spesi dagli enti pubblici per animare i centri storici, per allargare le strade, che so, a Grancia o a San Martino, quelli dei beni culturali per conservare strutture storiche come il cinema Corso, quelli di Cantone e Confederazione per riqualificare i luoghi di valore del paesaggio e i milioni spesi dagli enti turistici e dalle varie associazioni del commercio ed economiche. Le più interessate, del resto, se non oggi in un prossimo futuro. «Oggi la vera sfida è come costruire, come dar forma, alla città democratica. In questo senso il progetto – strategico, urbanistico o territoriale – deve diventare più che mai uno sforzo culturale da affrontare collettivamente. L’architetto deve sapersi inserire in questo processo, nel quale può assumere un ruolo centrale», scrive l’architetto Andrea Felicioni in un articolo che mi ha inviato tempo fa. Un testo questo di Felicioni interessante, che mi riprometto di riprendere per esteso nel prossimo Diario.

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