Dia­rio del­l'ar­chi­tet­to, ago­sto 2015

A quarant’anni da «Tendenzen - Neuere Architektur im Tessin»

Una conferenza a Lucerna sulla «Tendenza» in Ticino

Data di pubblicazione
25-08-2015
Revision
12-10-2015

Pochi mesi fa ho svolto all’università di Lucerna – la HSLU di Horw – una conferenza sull’architettura in Ticino degli anni Settanta, in particolare sul tema della Tendenza, oggetto di ricerca per il loro Master. Mi è stato precisato che gli studenti «... zum ersten Mal davon hören, und selbstverständlich weder die damalige Ausstellung gesehen haben noch das Buch kennen».

Gli anni Settanta: un passato trapassato per i giovani di oggi

Mi sono chiesto: cosa posso dire a questi giovani architetti oltre a quello che possono già trovare su Wikipedia o simili? Come evitare che architetture di quarant’anni fa viste (forse) per la prima volta vengano banalmente valutate come quelle sfogliate in Internet, i Nouvel o Hadid o Gehry? Se così facessero, uscirebbero dall’aula discutendo se fosse più bella la villa di Botta a Riva San Vitale o quella di Ivano Gianola a Cugnasco. Ma nulla saprebbero dei perché. Perché quell’architettura era ritenuta così nuova? Perché allora ci fu così tanto interesse per quello che si costruiva in quegli anni tra Chiasso e Airolo? Perché proprio in Ticino e non altrove? E poi, come era il Ticino di allora? Quale la novità di questa architettura?

Per loro, sarebbe impossibile rispondere a queste domande: per questi giovani, la distanza temporale tra oggi e allora è enorme. Sono vicende avvenute quarant’anni fa, quasi mezzo secolo, storie sconosciute per questi giovani, nati vent’anni dopo la mostra di Zurigo Tendenzen – Neuere Architektur im Tessin del 1975. Un’enormità, per loro è un passato trapassato, è una storia già lontana. Nulla sanno del mondo di allora.

Che fare quindi, se non spiegare e raccontare a questi giovani che la Tendenza non è sorta così per caso, non è stata un’invenzione subitanea, né uno sghiribizzo di giovani architetti seduti al tavolino di un bar, ma ha invece radici profonde. Si addentrano nei decenni precedenti. Così, un racconto di per sé semplice sull’architettura in Ticino negli anni Settanta si è trasformato inevitabilmente in un «c’era una volta» delle fiabe per bambini, ed è diventato un racconto a ritroso.

Dai bombardamenti al Piano Marshall, alla ricostruzione europea

Un po’ incosciente, il «c’era una volta» l’ho iniziato addirittura dalla seconda guerra mondiale. Un incipit a mio parere necessario, perché tutto ha inizio quell’8 maggio del 1945 quando la Germania firmò l’armistizio.

Infatti, la guerra lascia dietro di sé l’enormità di 10 milioni di morti e il dramma di un continente intero distrutto. Le nazioni europee si devono confrontare con cumuli di macerie, prive di elettricità, strade e ponti e ferrovie, popolazioni allo sbando, le più importanti città senza più stazioni ferroviarie e porti, interi quartieri e aree industriali annientati: Londra bombardata nel dicembre 1940 e primavera 1941, Rotterdam nel maggio e giugno 1940, Milano nell’agosto del 1943, Berlino nel 1945. E se i vinti lasciano dietro di sé il vuoto di strutture politiche e sociali oramai franate (Germania, Francia, Italia), i vincitori si confrontano con veementi contrasti politici e sociali. Nessun paese ha un soldo in cassa: tutto è stato speso per costruire armi e aerei.

Considerata l’enormità delle distruzioni, per la ricostruzione e la ripresa dei paesi devastati si pensava fossero necessari molti anni. Inizia invece con inaspettata rapidità un periodo di espansione economica, determinata sia dall’urgenza di ogni nazione nel riorganizzare lo Stato, sia dallo stanziamento nel 1947 di oltre 17 miliardi di dollari – il Piano Marshall – deciso dagli Stati Uniti per evitare il caos in Europa, e sia dal progressivo favorevole andamento della congiuntura mondiale. A cui occorre aggiungere – come ovvio – i progressi della tecnica e della tecnologia, e l’impiego dei nuovi materiali.

Il boom edilizio degli anni ’50 e ’60 e la Modernità tradita

Il «c’era una volta» rivolto agli studenti è poi proseguito – inevitabile – spiegando che quel periodo di espansione economica è come quei condimenti agrodolci. Da un lato impone importanti trasformazioni sociali, più rapide e più profonde che in altri periodi della storia, d’altro lato provoca contrasti tra i provvedimenti d’emergenza richiesti dalla ricostruzione e quelli a lungo respiro necessari per uno sviluppo pianificato. Insomma, manca un dibattito – anche culturale – adeguato ai gravi problemi del momento. Non solo, ma le pressioni degli ambienti economici e il dover agire in fretta rendono piene di incertezze ogni decisione politica e tecnica.

Anche nella pianificazione e nell’architettura i risultati sono agrodolci: ricostruzione e pianificazione hanno modi e richiedono tempi ben diversi. Così, da un lato si realizzano opere importanti e di valore, come le New Towns inglesi, le città satelliti, la ricostruzione dei porti (quello di Le Havre su disegno di Auguste Perret), o come singoli gioielli, architetture di Le Corbusier in Francia, di Ralph Erskine in Svezia, di Arne Jacobsen in Danimarca, di Aldo van Eick in Olanda, di Carlo Daneri o Piero Bottoni in Italia. È poi anche un periodo che non ha il timore di tradurre nel concreto persino le utopie, il cui apice è nella costruzione di due nuove città: Brasilia in Brasile e Chandigarh in India!

Ma c’è anche l’altro lato della medaglia, il lato agro. Lo sviluppo postbellico degli anni Cinquanta e Sessanta non ha effetti solo positivi, ma genera anche travasi tra il settore primario, secondario e terziario, forti migrazioni verso i nuovi luoghi di lavoro, sconvolgimenti sociali. Lo sviluppo economico e industriale, così come gli interessi finanziari si intrecciano tra loro e danno fiato a degli eccessi che non trovano argini sufficientemente forti per controllarli. E tra queste distorsioni emerge quella sullo sfruttamento del suolo, nascono periferie senza qualità, architetture banali, aggressive, indifferenti al paesaggio. È quel meccanismo perverso della speculazione edilizia, come ben spiega un film come Le mani sulla città di Francesco Rosi, del 1963.

Il ritorno alla Regola

Il «c’era una volta» si avvia a concludersi nel raccontare che contro la degenerazione dell’architettura, agli inizi degli anni Sessanta prendono forma delle «resistenze», e una nuova generazione di architetti riflette e ricerca nuovi concetti progettuali. Alcuni lo fanno al tavolo da disegno: come Louis Kahn (Newton Richards Medical Center a Philadelphia, 1965), Venturi e Rauch (Guild House a Philadelphia, 1963), James Stirling (Engineering Building a Leicester, 1963), Alison e Peter Smithson (quartiere The Economist a Londra, 1964), Giancarlo De Carlo (Dormitori studenteschi a Urbino, 1963-1966), BBPR (Torre Velasca, 1957), Aldo Rossi (Fontana monumentale a Segrate, 1965).

Se questa è la «resistenza» fatta al tavolo di disegno, quella affidata invece alla riflessione e alla teoria è svolta soprattutto in Italia. La sintesi si legge nei libri scritti da Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Manfredo Tafuri, Giorgio Grassi. Appare anche per la prima volta il termine di Tendenza nel catalogo Architettura razionale (Franco Angeli Editore, 1973) che accompagna la XV Triennale di Milano (1973). Come scrive Massimo Scolari la Tendenza è basata su concetti come «... lo stretto rapporto con la storia, la priorità degli studi urbani e del rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana, il monumentale, l’importanza della forma». E più oltre precisa che il rapporto con la storia – tutta la storia – è «... intesa come storia dei tipi e degli elementi costitutivi, e non come palestra di mimesi stilistica e formale...» e che «... appare chiaro come il punto di travaso tra storia e progettazione possa essere riassunto dal concetto di tipo come principio di architettura e anche di come l’invenzione progettuale si possa esercitare attraverso un’ottica indifferente alle funzioni e ai riferimenti di tempo e di luogo, cioè per analogie».

La Tendenza in Ticino negli anni Settanta

Qui termina il mio «c’era una volta». Perché è dentro questo humus che affondano le radici della Tendenza in Ticino, definizione appioppata all’architettura del Ticino degli anni Settanta nella mostra Tendenzen–Neuere Architektur im Tessin organizzata dal Politecnico di Zurigo nel novembre 1975. È in questa occasione che quanto realizzato nel breve arco di un decennio trova la sintesi e il riconoscimento nazionale e internazionale. A chi legge questi miei Diari la storia di quel decennio è arcinota, e non credo debba ricordarla.

Basta aggiungere che i giovani architetti di allora – per citarne alcuni: Aurelio Galfetti, Flora Ruchat, Ivo Trümpy, Luigi Snozzi, Giancarlo Durisch, Tita Carloni, Roberto Bianconi, Bruno Reichlin, Fabio Reinhart, Livio Vacchini, Ivano Gianola, Mario Campi, Franco Pessina, Franco Ponti – non hanno solo seguito i dibattiti in Italia e letto i libri di Tafuri o visitato la XV Triennale di Milano, ma hanno frequentato o lavorato negli studi di Rino Tami e di Peppo Brivio, hanno alzato i tacchi e sono andati a vedere (internet era di là da venire) le opere del primo Novecento, dei Maestri, e ammirano e conoscono e discutono le prime opere di Kahn, di Stirling, degli Smithson, di De Carlo, di Gregotti, dei bbpr, di Aldo Rossi e Giorgio Grassi.

Dentro la testa degli studenti

È ovvio che agli studenti di Lucerna non ho avuto il tempo di raccontare i dettagli di tutto questo, e mi sono invece soffermato maggiormente sulle vicende dell’architettura in Ticino degli anni Settanta, scopo dell’invito rivoltomi. Ma comunque una sintesi dal ’45 in poi l’ho fatta. Non so cosa è rimasto nella loro testa di questo sommario racconto lungo oltre trent’anni. Ma spero almeno due cose. Primo, che così come oggi per comprendere quello che capita al paesaggio e alle città, per comprendere le architetture di Zaha Hadid o di Frank Gehry o di Herzog & de Meuron occorre sapere cosa sia la globalizzazione e perché il mondo si è globalizzato, così per lo stesso motivo se si vuol comprendere la Tendenza degli anni Settanta in Ticino occorre sapere quello che è capitato in precedenza. È l’importanza della storia.

Secondo, che se oggi prevale (purtroppo) un sentimento di difesa e di chiusura e di individualismo esasperato, di scetticismo per la tecnica e il progresso, di pessimismo per il domani, in quel lontano Dopoguerra invece ciò che prevaleva – perché il mondo intero aveva appena terminato l’autodistruzione in una guerra atroce – era l’ottimismo, la certezza che pur con fatica si va verso un futuro non certo peggiore del passato. Quindi, fiducia nel progresso e nella modernità, fiducia nella scienza e nella tecnologia. È l’oscillante storia delle genti, è la storia dell’architettura.

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