Dal­la fe­ri­to­ia al cur­tain wall

Figure e significati delle finestre di Vico Magistretti in due edifici milanesi.

Data di pubblicazione
29-07-2014
Revision
19-10-2015
Gabriele Neri
Dott. arch. storico dell'architettura, redattore Archi | Responsabile della rubrica 'Paralleli' per Archi

«Chi affronta, oggi, un problema creativo deve inserire il proprio pensiero nella realtà oggettiva che, di volta in volta, si presenta alla sua interpretazione, perciò non disegnerà una costruzione a Milano uguale a quella che avrebbe studiato per il Brasile, e, anzi, in ogni via di Milano, cercherà di costruire un edificio appropriato ai motivi circostanziati. (…) Una costruzione a Milano sarà diversa se debba servire per uffici piuttosto che per abitazione – è naturale – ma anche se sarà in un terreno o in un altro, vicino a certe costruzioni preesistenti o ad altre.»¹ - Ernesto N. Rogers

Con queste parole, esattamente sessant’anni fa, Ernesto Nathan Rogers (1909-1969) fissò una posizione teorica che ebbe un impatto molto forte sui giovani architetti milanesi chiamati ad affrontare i temi e i contesti eterogenei messi a disposizione dalla riemergente metropoli. Proponendo la ricerca di un perenne adeguamento alla fenomenologia del reale piuttosto che l’idealistica prefigurazione di grandi visioni ovunque valide, la posizione del direttore della rivista  «Casabella Continuità» entrava infatti in risonanza con la propensione all’«eclettismo» che diversi architetti dimostravano di possedere. Troppo giovani per aver vissuto in prima fila gli anni eroici del Movimento Moderno, essi non ne condividevano l’ortodossia linguistica e il rifiuto per la storia, ma continuavano a riconoscerne – come Rogers – la metodologia e non potevano dimenticare la fondamentale lezione delle avanguardie.

Oltre a Luigi Caccia Dominioni (classe 1913), che in quegli anni si misurò spesso con registri diversi alla scala architettonica e dell’arredo, su questa linea operativa si distinse il nome di Vico Magistretti (1920-2006): la sua produzione architettonica tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta rivela infatti una notevole varietà di soluzioni tipologiche e figurative che pur basandosi su radici specificamente personali devono molto alle sollecitazioni di Rogers, con il quale aveva stretto rapporti durante la guerra quando entrambi si trovavano rifugiati, l’uno come studente e l’altro come professore, al Champ Universitaire Italien di Losanna. Per comprendere nei fatti la natura di tale «eclettismo» può essere interessante mettere a confronto due edifici realizzati a Milano da Vico Magistretti nella seconda metà degli anni Cinquanta, molto diversi tra loro per contesto, premesse e risultati, concentrandosi su un aspetto fondamentale: il progetto delle facciate e nello specifico le figure e i significati del sistema di finestrature impiegato.

Finestre, feritorie, «bow windows» e altro ancora

Il primo edificio, non tra i più conosciuti dell’architetto milanese né tra i più apprezzati,2 si trova al numero 3 di via San Gregorio, una traversa di corso Buenos Aires.3 Realizzato tra il 1956 e il 1958, fu concepito per una destinazione mista, con residenze ai piani alti e un cinematografo al piede dell’edificio: in quest’area infatti fin dai primi anni del secolo c’era il cine-teatro Modena, che rimarrà attivo fino al 1958 per riaprire completamente rinnovato nell’agosto 1959.

Nonostante la regolarità dell’area, parte del tracciato del Piano Beruto, Magistretti si trovò a fare i conti con una condizione eccezionale: il lotto confina infatti con l’ultimo tratto esistente del grande lazzaretto realizzato a partire dal 1489 per far fronte all’emergenza sanitaria scatenata dalla peste. Collocato fuori dalla Porta Orientale della città, esso consisteva in un vasto recinto quadrato – con lato pari a circa 375 metri – circondato da un fossato pieno d’acqua, definito all’interno da 504 arcate su cui si affacciavano le celle dei malati e una cappella al centro dell’impianto, tutt’ora esistente. Dopo la peste del 1629-1630 il lazzaretto fu riconvertito per servire a scopi diversi – militari, agricoli, produttivi ecc. – fino agli anni Ottanta dell’Ottocento, quando fu acquistato dalla Banca di Credito Italiano e demolito per fare spazio alle lottizzazioni berutiane.4

Nel suo piccolo, e quasi inaspettatamente dato il tema progettuale e la distanza dal centro storico, il compito affidato a Magistretti può allora essere accostato a più celebri e rilevanti occasioni di progetto che in questi anni videro molti professionisti milanesi confrontarsi con le fabbriche storiche della città, a cominciare dal progetto di restauro e ridefinizione del corpo martoriato dell’ex Ospedale Maggiore, trasformato in Università degli Studi. Diversi disegni, conservati presso la Fondazione Magistretti,5 mostrano l’attenzione riservata dall’architetto al frammentario lacerto affacciato sulla via San Gregorio: ad esempio uno schizzo, tracciato con inchiostro blu, mostra l’essenziale restituzione della facciata del lazzaretto con il rilievo degli elementi architettonici; la misurazione di finestre, timpani e camini; l’analisi della tessitura in laterizio e della composizione di modanature e cornici.

L’impianto distributivo e volumetrico generale dell’edificio fu abbozzato in forma preliminare nell’ottobre del 1956.6 Il lotto, stretto e lungo, viene occupato quasi interamente dalla sala del cinematografo, che prende i primi due livelli fuori terra e il piano interrato con la platea ribassata e una galleria semicircolare; gli appartamenti sono invece nei quattro livelli superiori, secondo una sezione rastremata in altezza. Gli ultimi due piani sono arretrati rispetto alla strada e contengono solo due appartamenti per piano, contro i tre dei sottostanti. Oltre a raffinare le soluzioni planimetriche e ad approfondire l’allestimento della sala del cinema, per cui viene studiato un interessante sistema di pannellature policrome in legno a trama verticale, nei mesi successivi Magistretti può concentrarsi sulla composizione delle facciate, in particolare delle due rivolte verso strada e verso il lazzaretto.

Dato l’arretramento degli ultimi due piani, la facciata su strada viene definita prevalentemente dai primi quattro livelli fuori terra, scanditi in cinque campate di ampiezza variabile, legata alla distribuzione planimetrica retrostante, che negavano la simmetria generale. Al centro si trova la fascia più sottile, corrispondente all’ingresso alla zona residenziale e quindi al vano scale, posto in facciata. Al piano terra questa scansione è dichiarata da un arretramento che va a creare un piccolo portico, da cui si accedeva a un locale con funzione di negozio e all’atrio del cinematografo. Questa zona viene sottolineata dall’esternazione della struttura portante: al piano terra infatti i pilastri pentagonali in cemento armato, rivestiti con lastre di granito bocciardato, creano uno stacco cromatico rispetto al resto della facciata e soprattutto un lieve corrugamento che prosegue, con materiale diverso, nel corpo superiore. Come dimostrano gli schizzi di studio, più che questo andamento verticale l’attenzione di Magistretti si concentra dapprima sulla partitura orizzontale, tutta giocata sulla ricerca del ritmo delle finestrature rispetto alla massa piena della facciata. Il lucido o il foglio di carta si trasforma in una sorta di spartito musicale, dove il pentagramma è rappresentato dalle fasce orizzontali corrispondenti all’altezza d’interpiano, destinate a riempirsi di variazioni ritmiche in cui la misura di suono e silenzio è delegata a figure geometriche di varia derivazione. L’analisi di queste finestrature, così come effettivamente realizzate o come ipotizzate durante nel corso del progetto, offre spunti di riflessione interessanti.

La prima tipologia di bucatura, che assume la funzione di tema dominante e a cui spetta il compito di dettare l’andamento generale del prospetto, corrisponde alle finestre degli ambienti principali e si cristallizza fin da subito in forma di rettangolo verticale largo 90 cm, alto da pavimento a soffitto con un serramento  in legno laccato bianco. L’idea di utilizzare tale forma e proporzione per gli ambienti principali non è un dettaglio trascurabile: queste aperture si distanziano infatti in maniera evidente dalle tipiche figure della finestra razionalista così come declinata a Milano in alcuni edifici che serviranno da riferimento per l’edilizia cittadina degli anni successivi. Ad esempio la Casa Rustici (1935) di Terragni, dove grazie al telaio in cemento armato le bucature si allargano orizzontalmente denunciando la funzione non-portante dei tamponamenti; il Palazzo Montecatini di Gio Ponti (1936); il celebre isolato di Asnago e Vender in via Albricci (1939-1942 e 1953-1956), dove la finestra mantiene il senso verticale ma con proporzioni meno slanciate, spesso rimarcate dalla bipartizione verticale del serramento; oppure anche le Case Albergo di Luigi Moretti (1950), con bucature ancora orizzontali.

La finestra di via San Gregorio trova invece riferimenti in edifici come la Casa al Parco (1948) di Ignazio Gardella e la casa di Caccia Dominioni in piazza Sant’Ambrogio (1949); oppure – anche se qui la tipologia è molto diversa – nella Torre della Permanente di Achille e Pier Giacomo Castiglioni (1952). Analizzando l’opera di Magistretti questo tipo di finestra è ricorrente: si ritrova ad esempio nella torre di via Revere (1956) e nell’edificio per abitazioni e uffici di via Leopardi (1961). Tuttavia, il riferimento più diretto è in realtà quello dell’edilizia storica e popolare milanese (e non solo), fornita spesso di finestre a tutta altezza con parapetto metallico e persiane in legno. Non a caso negli ultimi due piani di via San Gregorio, dove l’arretramento concede la presenza di terrazzi, la tapparella avvolgibile usata ai livelli inferiori cede il posto a tradizionali persiane in legno, come farà in diverse occasioni Caccia Dominioni.

In parallelo, Magistretti si concentra su un altro tipo di apertura, di ampiezza minore, pensata soprattutto per gli ambienti di servizio (cucine, bagni, vano scala), a cui viene delegata la funzione di contrappunto contribuendo a generare una composizione più articolata e mossa. La matrice è sempre rettangolare, ma le dimensioni ridotte e le proporzioni molto allungate rendono queste aperture simili a feritoie incise nello spessore del muro, che nel corso del progetto sono pensate raggruppate in terzine – con l’apertura centrale più alta delle laterali –, in gruppi di cinque o addirittura in numero maggiore. Tali soluzioni lasceranno tuttavia il posto a un’altra versione, composta da una semplice feritoia molto stretta (20cm) e allungata, di altezza variabile: nella seconda, quarta e quinta campata essa prende la misura della finestra principale (259cm), mentre nella campata mediana, in corrispondenza del corpo scale, viene disegnata – rievocando l’idea germinale esplorata in precedenza – una terzina fatta di finestre sfalsate tra loro e anche rispetto alla scansione orizzontale dei piani.

Come sottolinea uno scatto di Pino Musi del 2012 (fig. 4), realizzato per la mostra «Facecity»,7 si tratta di una cesura particolarmente calcata e originale, che rompe la regolarità dell’orditura rimarcando l’asimmetria complessiva e la differenza funzionale di questa zona dell’edificio. Il tema diventa quello del taglio, che nella Milano degli anni Cinquanta non può non far pensare agli squarci verticali di Lucio Fontana ma anche alle fessure scavate in molti edifici della città da diversi architetti. Si pensi alle scanalature che percorrono l’intera altezza dei due lati corti del grattacielo Pirelli (1960) o agli edifici di Luigi Moretti in via Corridoni (1950) e corso Italia (1953): in quest’ultimo in particolare troviamo proprio delle sottili «feritoie» incise nella facciata cieca del corpo lanciato verso la strada. Interessante è come viene risolto il serramento da Magistretti: la parte apribile, in legno, si alterna infatti a una parte fissa composta da piccoli oblò di vetrocemento tipo Favaron, impostati sopra a una lastra di graniglia di porfido lisciata.

A mettere a sistema le finestre «principali» e le feritoie degli spazi di servizio ci pensano i davanzali, composti da una beola bianca martellinata inclinata di circa 35 gradi verso il basso, espediente che Magistretti utilizzerà di lì a poco nella casa per abitazioni e uffici in via Leopardi. Il colore chiaro della pietra crea così, come accade con i pilastri alla base, un deciso stacco cromatico rispetto alla superficie della facciata, che è scandita da pannelli prefabbricati di cemento color vinaccia con finitura superficiale in graniglia, in omaggio al laterizio del lazzaretto. Questi pannelli non hanno ampiezza uniforme, ma rispettano le dimensioni delle finestre diventando loro sottomoduli.

La facciata rivolta al lazzaretto svela altre soluzioni. In particolare, proprio in corrispondenza dell’edificio storico Magistretti decide di approfondire un’ulteriore tipologia di finestra, creando – al terzo, quarto e quinto piano fuori terra – dei leggeri bow windows composti da cinque serramenti verticali che si estendono per una larghezza complessiva di 400cm, adatti a sfruttare la vista e il respiro concessi dal ben più basso lazzaretto. Davanti ai serramenti bianchi è sovrapposto un parapetto metallico, anch’esso bianco, che continua il gioco cromatico già visto in precedenza e che si relaziona con i parapetti degli ultimi piani del fronte su strada, dando continuità alle due facciate. Un nodo fondamentale dell’edificio, di cui si trovano molti schizzi, è infatti costituito dal loro punto d’incontro: in corrispondenza del quinto livello fuori terra avviene l’arretramento della facciata principale, mentre la facciata laterale prosegue la scansione con l’ultimo bow window, sormontato dal terrazzo più alto, che ne riprende la sagoma. Per le finestre della terza e ultima facciata, rivolta verso l’interno del lotto, Magistretti pensa a ulteriori figure, come una bucatura a forma ottagonale per il primo livello sopra al cinematografo.8 

«Curtain wall» all’italiana

Completamente diversa è la facciata realizzata negli stessi anni da Vico Magistretti in corso Europa (1955-1957): qui infatti l’architetto fu chiamato a costruire un moderno palazzo per uffici in «un ambiente architettonicamente spurio e non qualificato».9 Per questo edificio, composto da un corpo doppio profondo 14 metri con otto piani fuori terra e due sotterranei, il ricorso al curtain wall era obbligato, per ragioni funzionali, tipologiche e rappresentative. Piuttosto che l’esplorazione di un abaco eterogeneo di finestre da disegnare caso per caso, come aveva fatto in via San Gregorio, l’architetto era chiamato a risolvere un problema a metà tra l’impaginazione grafica e il disegno industriale, campo in cui Magistretti si distinguerà di lì a poco: individuare un modulo geometrico e delle soluzioni costruttive replicabili per l’intera superficie, magari sfruttando prodotti già presenti sul mercato.

La necessità di ottimizzare la superficie interna, che la committenza voleva suddivisa nel maggior numero possibile di unità immobiliari indipendenti, portò a scartare fin da subito l’idea di avere una facciata completamente vetrata da pavimento a soffitto, cosicché fu posta a 140cm la quota del davanzale (e quindi della parte cieca) per poter disporre anche della parete esterna per appoggiare gli arredi. Come si vede in alcuni schizzi preliminari (fig. 6), inizialmente l’opzione più lineare appariva quella di dividere ogni interpiano in due fasce orizzontali: la prima alta 140cm, rivestita in intonaco in graniglia di porfido, e la seconda vetrata, con serramenti all’incirca quadrati e accoppiati, apribili a bilico orizzontale, oppure composti da moduli più piccoli leggermente sfalsati. Queste soluzioni sono però presto superate da una maggiore articolazione delle parti: Magistretti non vuole infatti rinunciare alla possibilità di avere una superficie vetrata a tutta altezza, e comincerà a verificare un «compromesso».

Ancora una volta i disegni conservati documentano lo studio comparativo di varie soluzioni, che foglio dopo foglio fanno abbandonare la prima soluzione smembrando la fascia cieca e quella vetrata in composizioni grafiche di memoria neoplastica. Si tratta di schizzi tracciati prima a matita e poi ripassati a pennarello a punto spessa che tengono conto sia delle necessità funzionali – verificando la posizione dei classificatori da ufficio – sia della figura umana e del suo punto di vista: in uno di questi (fig. 7) si vedono addirittura affiancate due soluzioni con le scritte «NO» e SÌ», che segnano l’irreversibile momento in cui si compie la «liberazione» di un breve tratto di facciata e la nascita della definitiva tripartizione verticale del modulo. A sinistra e a destra permane l’alternanza in verticale di fascia cieca e trasparente, con serramento a ghigliottina da un lato e ad anta a ventola (apribile solo per la pulizia) dall’altro; al centro invece, per poche decine di centimetri, il vetro si fa continuo e dona finalmente la visuale da pavimento a soffitto, come del resto – in maniera però molto diversa – accade negli appartamenti di via San Gregorio. Per ovvie ragioni di sicurezza, quest’ultima fascia è divisa in due parti: quella superiore con serramento ancora a ghigliottina e quella inferiore fissa, con vetro di sicurezza. Tende alla veneziana color grigio chiaro provvedono a schermare la luce in eccesso.

Il risultato è un modulo molto articolato, con la parte vetrata a forma di «T» asimmetrica (le due fasce laterali sono di ampiezza diversa) e due zone basse ai lati in lastre di granito bianco lucidato, che si ripete sei volte in orizzontale e sei in verticale. In alcuni disegni di studio (fig. 10) i moduli della facciata sono pensati sfalsati, giocando sulla loro asimmetria; Magistretti tuttavia preferirà allineare in verticale le fasce centrali vetrate, per formare un unico nastro interrotto soltanto, in corrispondenza delle solette, da brevi inserti in granito. Ad esse si aggiungono poi le fasce verticali costituite dai pilastri in cemento a vista della struttura portante – più strette e senza interruzioni – che separano in verticale un modulo dall’altro (fig. 11). L’accoppiata di queste linee infonde un eccezionale dinamismo alla facciata, rinforzato ulteriormente dall’asimmetria di ogni modulo e dalle leggere ma ben percettibili divisioni orizzontali costituite dai serramenti a ghigliottina, posti ad altezza variabile nel corso di una stessa giornata in funzione della loro apertura. Per certi versi questo ritmo potrebbe ricordare lo smottamento provocato in via San Gregorio dalle «feritorie» sfalsate in corrispondenza del blocco scale.

La scansione verticale di corso Europa viene inoltre sottolineata da elementi a T in alluminio verniciato grigio scurissimo, che servono sia come coprigiunto tra i diversi materiali (granito-cemento armato-serramento) sia come montante di battuta per i serramenti. Viene di certo alla mente l’utilizzo di profilati metallici nel lessico di Mies van der Rohe, inevitabile punto di riferimento internazionale per la progettazione di curtain wall in quegli anni; tuttavia a Milano la facciata è complanare e quindi gli elementi metallici hanno una funzione grafica, e senza intervenire per dare rilievo tridimensionale all’ordito, secondo una concezione architettonica molto diversa. Se le facciate di Mies ostentano la sublimazione dell’assemblaggio meccanico di elementi industrialmente prodotti in un ordine architettonico della modernità, ponendosi come modello ideale per l’edilizia commerciale americana, Magistretti offre invece una performance «tipografica» in cui il montante, il serramento e la lastra di vetro sono ridotti a componente grafica di un impaginato che delimita la nuova quinta urbana. 

Su questo dettaglio l’architetto milanese si concentra studiando a mano libera (fig.12) la silhouette del singolo profilo metallico e la sua unione con le varie componenti della facciata, dando prova della sua dimestichezza con la «meccanica» dell’architettura. Egli è inoltre molto attento alle questioni realizzative e produttive: come precisa nella relazione tecnica, l’idea di dividere in questo modo le parti vetrate della facciata consentì «di valersi di serramenti già prodotti in serie e in dimensioni relativamente piccole con evidenti vantaggi economici di funzionamento; le differenze di misure sono state assorbite nel grande serramento a ventola semi fisso e «fuori serie”».10 La divisione dei serramenti, fatti in lega d’alluminio, permetteva anche «lo spostamento dei tavolati divisori secondo uno scatto di misura che permette ai locali una variazione di dimensione adatta alle probabili o possibili future destinazioni (piccola segreteria, grande ufficio ecc.)».11 Dettaglio tecnico, organizzazione planimetrica e risultato estetico sono insomma perfettamente coordinati. 

La moltiplicazione orizzontale e verticale del modulo di facciata, che si ripete sei volte in orizzontale e sei in verticale, viene confinata da una fascia basamentale e una di coronamento. In basso, una pensilina in cristallo opaco divide piano terra e piano ammezzato dal corpo dell’edificio; serrande a inferriata verniciate di bianco proteggono, scorrendo a saliscendi tra un pilastro e l’altro, le vetrine dei negozi. In sommità invece la presenza di un cornicione ad ala inclinato verso l’alto – presente negli schizzi di Magistretti fin dalle prime soluzioni di facciata – segna la conclusione dell’edificio, anticipata da un arretramento del volume e delle superfici, che nelle due campate esterne si fa più marcato e dà vita a una terrazza che rompe la regolarità dell’impaginato. In questa tripartizione dell’organismo architettonico si può trovare un’analogia di metodo rispetto all’edificio di via San Gregorio, anch’esso diviso in base, corpo e coronamento arretrato; inoltre proprio nella terrazza asimmetrica all’ultimo livello troviamo inaspettatamente l’utilizzo di due portefinestre con le imposte a persiana e una ringhiera metallica che rievocano il carattere domestico dell’edificio davanti al lazzaretto.

Si ricorderà infine che mentre Magistretti progetta il curtain wall di corso Europa Gio Ponti stava mettendo a punto la facciata del grattacielo Pirelli (1955-1960), a cui l’edificio deve una parte consistente del suo carattere differenziandolo da molti altri esempi coevi. Composta da un sistema di montanti e traversi in alluminio – il cosiddetto stick system, molto diffuso negli anni Sessanta – anche la facciata del Pirelli fu studiata in accordo con la disposizione interna: un modulo di 95cm, su cui si basa l’intero sistema degli arredi, scandisce infatti la misura dei serramenti in alluminio secondo un ritmo 1-2-1. La necessità di collocare arredi in facciata decretò inoltre la divisione verticale di tali serramenti in tre fasce: pannello cieco, vetro-camera Saint-Gobain Thermopan 79 e ancora pannello cieco.

Sia in corso Europa sia nel Pirelli ci si trova di fronte a una declinazione tutta italiana di una tipologia trattata in altri paesi in termini più rigidi: sebbene, come si è visto, anche Magistretti e Ponti si relazionino con le disponibilità del mercato, i loro curtain wall non possono essere intesi come il risultato di un assemblaggio ma come frutto di un preciso disegno, in cui l’approccio artigianale è visibile nelle premesse e negli esiti finali. Emerge allora un’interpretazione polemica del curtain wall, come ha osservato il catalano Oriol Bohigas: «L’aspetto vibrante e quasi gratuito della facciata è un deciso attacco nei confronti di tutta l’architettura neocapitalista dell’efficienza levigata, delle convenzioni dello standard sociale, del perfezionismo tecnologico apparente e del falso razionalismo che appaga le coscienze».12

Complessità e contraddizioni

Gli edifici progettati da Vico Magistretti per via San Gregorio e corso Europa dimostrano la sua camaleontica capacità di passare con disinvoltura da un tema – e da uno specifico registro – all’altro: in questo caso da un appartato edificio d’abitazione (con cinematografo) in cui proporzioni e dettagli alludono alla nostalgia di un passato borghese affiancandosi con sobrio rispetto a un frammento di una Milano scomparsa, a un visibilissimo e moderno edificio di rappresentanza nel cuore pulsante della città degli affari trattato in superficie secondo la lezione delle avanguardie e con grande consapevolezza tecnologica. Paradossalmente, nonostante la profonda distanza tipologica e contestuale tra le due facciate, l’analisi svolta ha portato all’identificazione di non pochi punti di contatto: ad esempio la suddivisione dell’edificio in tre fasce orizzontali (base, corpo e coronamento); l’esternazione della struttura portante, tesa a rimarcare un ritmo verticale; il favore per la figura geometrica del rettangolo allungato, che sotto forma di finestra, di fascia vetrata o di feritoia diventa la matrice ricorrente in entrambi gli edifici, spesso soggetta a uno sfalsamento tendente a dare dinamicità all’edificio; la propensione per la finestra vetrata da pavimento a soffitto; l’utilizzo della pietra; il richiamo alla tradizione edilizia cittadina ecc.

A stupire, però, al di là di questi elementi apparentemente in comune, sono anche quegli inaspettati momenti di rottura che contaminano il carattere dell’uno e dell’altro edificio: quelle improvvise alterazioni che scompaginano il tema dominante seguito per il resto del progetto. In via San Gregorio l’«intrusione» è rappresentata dalle fessure verticali così ben catturate dallo scatto di Pino Musi, asimmetriche, irrispettose dell’altrimenti regolare scansione orizzontale dell’impaginato e capaci di instillare una frattura neoplastica (o futurista, o spazialista) nella domesticità milanese alla quale si vorrebbe alludere. In corso Europa è invece quel bizzarro piano attico, con la sua terrazza fuori asse dotata di persiane in legno, che immette un tono domestico sopra a un curtain wall sperimentale e inequivocabilmente moderno, seppur non allineato con l’internazionalismo della coeva edilizia commerciale. 

Per alcuni, una simile «versatilità» progettuale, e più in generale la visione «fenomenologica» di Rogers, avrebbe presentato limiti intrinseci nella «adesione senza riserve […] all’unicità dell’occasione, vale a dire la tendenza all’episodicità; il fatale modellarsi dei principi sulle pieghe autobiografiche della poetica».13 Si può discutere a lungo sul carattere positivo o negativo di questa tensione alla performance14, singolare, autosufficiente e spesso anche manierista; sta di fatto che nei casi migliori tale approccio ha dimostrato di sapersi tradurre in una flessibilità critica lontana dai pericolosi schematismi di formule apparentemente più sobrie e consolidate. Al «razionale» appiattimento al ribasso di buona parte dell’edilizia milanese di quegli anni, architetti come Magistretti sostituirono infatti un’architettura piena di complessità e di contraddizioni – per utilizzare le categorie che Robert Venturi esplorerà pochi anni dopo15 – inserendosi in quel delicato processo di ripensamento della modernità che stava sconvolgendo la cultura architettonica.

Vom Schartenfenster zur Vorhangfassade
In seinem Essay vergleicht Gabriele Neri zwei in Mailand in der zweiten Hälfte der 50er-Jahre von Vico Magistretti (1920–2006) errichtete Gebäude und analysiert anhand von originalen, in der Fondazione Magistretti aufbewahrten grafischen Darstellungen die Fassaden und die unterschiedlichen Fensterformen. Die beiden Gebäude unterscheiden sich hinsichtlich der Voraussetzungen und der Ergebnisse stark voneinander. Im ersten (1956–58) befinden sich ein Kino und Wohnungen. Es steht in der Via San Gregorio neben einem wichtigen historischen Bauwerk aus früherer Zeit (dem letzten Fragment eines Lazaretts, das gegen Ende des 15. Jahrhunderts errichtet wurde) und tritt mit diesem in einen Dialog. Das zweite   (1955–57) dagegen liegt am Corso Europa – einer damals neu im Stadtzentrum angelegten Verkehrsader – und ist ein modernes Bürogebäude, das genauen Vorgaben bezüglich der Raumanordnung und der Technologie entsprechen musste. Dieser Unterschied kommt in der Gestaltung der Fenster zum Ausdruck. In der Via Gregorio entwirft Magistretti unterschiedliche Lösungen, die eindeutig von der modernen Architektur der vorhergehenden Jahrzehnte abweichen. Am Corso Europa setzt er dagegen auf die Modularität der Vorhangfassade, die er eigenständig mit großer Distanz zu den herkömmlichen Modellen interpretiert. Die Analyse, aus der auch unerwartete Ähnlichkeiten zwischen den beiden Gebäuden hervorgehen, zeigt die Flexibilität und Anpassungsfähigkeit an unterschiedliche Themen, die das Werk Magistrettis kennzeichnen. Er wurde von der Theorie Ernesto N. Rogers beeinflusst und steht für die allgemeine kritische Neubetrachtung der rationalistischen Dogmen in der Architektur jener Zeit.

Note

  1. E.N. Rogers, Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei, in «Casabella Continuità», n. 204, febbraio-marzo 1954, p. 4.
  2. Cfr. M. Grandi, A. Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1980, p. 308: l’edificio è descritto come «appesantito da dettagli scarsamente comunicativi».
  3. Su questo edificio si veda: F. Irace, V. Pasca, Vico Magistretti architetto e designer, Electa, Milano 1999, p. 50.
  4. Cfr. L. Patetta, L’architettura del Quattrocento a Milano, Città Studi, Milano 1987.
  5. Costituita nel gennaio 2010, la Fondazione Studio Museo Vico Magisretti occupa i locali in cui si trovava lo studio dell’architetto, in via Conservatorio 20 a Milano.
  6. Cfr. Fondazione Magistretti, V. Magistretti, Cinema Modena. Studio di massima, tavola con disegni in scala 1:200, 29/10/1956.
  7. La mostra «Facecity» (a cura di F. Irace) si è svolta durante la Biennale di architettura di Venezia del 2012. Chi scrive ha curato la sezione dedicata agli elaborati grafici all’interno della stessa mostra.
  8. Cfr. Fondazione Magistretti, V. Magistretti, Fronte verso corte, scala 1:50, 17/1/1959.
  9. [V. Magistretti], Relazione, in «Casabella Continuità», n. 217, 1957, p. 32.
  10. [V. Magistretti], Relazione, cit., p. 32.
  11. Ibidem.
  12. O. Bohigas, Aspectos ya historicos en la obra de Vico Magistretti, in «Cuadernos de arquitectura», n. 72, 2° trimestre 1969, pp. 35-49, qui p. 38.

  13. M. Grandi, A. Pracchi, Milano, cit., p. 285.

  14. Ibidem, p. 286.

  15. R. Venturi, Complessità e contraddizioni nell’architettura, Ed. Dedalo, Bari 1980 (ed. or. Complexity and Contradiction in Architecture, New York 1966).

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