Ci­ne­ma | Ar­chi­tet­tu­ra

Un’introduzione

Data di pubblicazione
26-07-2018
Revision
30-07-2018
Johannes Binotto
Dr. phil., esperto di media e studi culturali, UZH e HSLU Design+Kunst

All’inizio c’è una linea.

«Una linea abbastanza rigorosamente orizzontale si posa sul foglio bianco, annerisce lo spazio vergine, gli dà un senso, lo vettorializza: da sinistra a destra, dall’alto in basso. Prima, non c’era niente, o quasi niente; dopo, non c’è molto, qualche segno, ma che basta per avere un alto e un basso, un inizio e una fine, una destra e una sinistra, un recto e un verso».1

Così Georges Perec apre il suo libro Specie di spazi: un inizio che descrive anche l’inizio dell’architettura. Perché probabilmente il primo gesto architettonico consistette proprio nel tracciare una linea attraverso lo spazio per dividerlo in aree: solo dove vi è una tale distinzione si può parlare di un qui e un là. La linea segna dunque ciò che sarà poi segnato anche dal muro, questa forma architettonica elementare: erigendolo, si separano innanzitutto un interno da un esterno, un davanti da un dietro. La parete, dividendo lo spazio, lo ordina.

Eppure la separazione da sola non basta. Se non si vuole che i muri diventino una vera e propria prigione è necessario inserirvi delle aperture, come narrato da E.T.A. Hoffmann nella storia del folle consigliere Krespel, che costruisce una casa senza porte né finestre e solo in seguito vi fa aprire dei buchi a forza di colpi.2

Proprio separando due spazi il muro crea la necessità di un passaggio dall’uno all’altro. Così non ci vuole molto perché i muri chiamino a raccolta con loro, sulla pianta, anche porte e finestre: dove c’è muro, c’è passaggio. Infatti è inevitabilmente proprio là dove la linea suddivide lo spazio in zone che queste tornano a incontrarsi. La linea di separazione si rivela dunque Schnittstelle («interfaccia», «punto d’incontro») in tutto il paradosso del termine tedesco: è taglio che divide (Schnitt) ma anche canale aperto (Stelle). La linea rappresenta dunque quel che viene chiamato un medium: qualcosa che – come dice il nome latino – si trova nel mezzo, quindi tra due posizioni. Poiché sta nel mezzo, il medium è ostacolo, cesura, ma al contempo punto di contatto, luogo di mediazione.3

Va intesa proprio in questo senso anche la linea nel titolo Cinema | Architettura: linea di separazione e di congiunzione insieme, segna il complesso rapporto (o l’assenza di rapporto) tra cinema e architettura, illustrando in un solo colpo cesure e connessioni tramite cui le due si confrontano e sbilanciano a vicenda.

Che per il cinema non ci sia modo di sfuggire all’architettura è d’altronde evidente: durante le riprese, la telecamera cattura inevitabilmente gli spazi architettonici che si trovano di fronte al suo obiettivo, anche quando questi fungono solo da sfondo. Ma il cinema non si accontenta di rappresentare lo spazio dato: esso invece lo ricostruisce già nel trasporlo in un altro medium, lo espande e lo delimita, lo taglia e lo ricompone. L’architettura non rappresenta quindi, per il cinema, soltanto uno tra i tanti soggetti possibili, ma lo permea fin nelle sue procedure elementari. Tramite tecniche cinematografiche come l’angolo di ripresa, l’inquadratura, il montaggio, la colorazione o il sound design vengono creati nuovi spazi che, anche quando si rifanno ad architetture esistenti, non coincidono mai del tutto con esse.

Il critico e regista Éric Rohmer ha quindi risolutamente definito anche il cinema un’«arte dell’organizzazione spaziale», e a tal fine ha distinto tre modi in cui lo spazio si presenta in esso. Distingue tra: 1) espace pictural – lo spazio dell’immagine proiettata sullo schermo, 2) espace architectural – lo spazio architettonico che viene filmato con le sue infrastrutture reali, che si tratti di un set realizzato appositamente per le riprese o di edifici esistenti, e, infine, 3) espace filmique – quello spazio cinematografico virtuale che si compone soltanto nella percezione dello spettatore sulla base delle immagini osservate.4

Per quanto utile possa risultare una tale distinzione, è però evidente per ogni spettatore quanto le tre forme di spazio descritte da Rohmer siano indissolubilmente intrecciate: dell’espace architectural si sa solo ciò che viene mostrato dall’espace pictural; un «mostrare» in cui è compreso anche ciò di cui il film non fornisce immagini, e che viene reso percepibile in forma di assenza, di off che resta al di fuori della cornice dell’immagine. La presunta «esistenza oggettiva» dell’espace architectural, che secondo Rohmer possiede una «realtà con la quale il regista si misura durante le riprese per distorcerla o riprodurla fedelmente»,5 è, a pensarci bene, essa stessa qualcosa su cui si può solo speculare sulla base di ciò che ci viene mostrato. Quindi si può dire che la percezione apparentemente concreta che si ha dell’architettura non è mai oggettiva, ma sempre solo fenomenologica. Anche se camminiamo attraverso un edificio reale non lo cogliamo mai come edificio in sé, ma solo come appare a noi 6 – solo, quindi, sotto forma di percezioni frammentarie, soggettive, che vanno poi ricomposte in un insieme virtuale.

O, per dirla diversamente: anche quella che consideriamo essere un’esperienza concreta dello spazio architettonico in realtà si costituisce innanzitutto nella mente di chi osserva, come avviene di fronte a un espace filmique. A proposito degli edifici nel cinema, Frieda Grafe scrive: «I nuovi spazi, senza una pianta, si compongono nelle inquadrature e si definiscono attraverso il tempo».7 Lo stesso si può dire della percezione dell’architettura reale: non basta un solo sguardo ad abbracciare un edificio; per coglierlo bisogna esaminarne i dettagli nel tempo. Lo ricorda anche la studiosa Gertrud Koch: «Si potrebbe dire che l’architettura enfatica assomigli al cinema in questo: le sue opere si strutturano in primo luogo nello spettatore. L’edificio nel suo complesso emerge solo dalle diverse vedute prospettiche che ne ha chi lo visita».8

La linea posta tra cinema e architettura significa anche che i due fenomeni che qui si scontrano possono scambiarsi improvvisamente di posto: non solo il cinema, in quanto arte dell’organizzazione spaziale, segue procedimenti architettonici, ma anche l’architettura viene percepita in una sorta di dinamica cinematografica. I film operano architettonicamente, l’architettura è vissuta cinematograficamente. Ciò non significa tuttavia che il cinema e l’architettura siano meramente intercambiabili. Al contrario, sono proprio le loro diverse potenzialità che vanno messe a frutto, così che essi giungano a definirsi meglio a vicenda. Per Michel Foucault, il cinema è un esempio lampante di quelle che lui chiama «eterotopie»: «dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili».9

In questo senso anche gli spazi del cinema andrebbero considerati eterotopie dell’architettura: in essi l’architettura al contempo viene rappresentata e rovesciata, sviluppata e ricostruita. Nell’eterotopia del cinema si compie ciò che per l’architettura rimarrà sempre un’utopia: il cinema può facilmente scavalcare le leggi della statica e le regole della geometria euclidea a cui gli architetti non possono sottrarsi. Così in film, ad esempio, di Fritz Lang, Dario Argento, David Lynch o Jonathan Glazer vengono progettate topologie impossibili in cui non si riesce nemmeno più a tracciare le distinzioni più elementari (sopra e sotto, destra e sinistra, inizio e fine). I personaggi si muovono invece in spazi cinematografici che si rigirano su se stessi come nella figura topologica del nastro di Möbius (si pensi a Secret Beyond the Door di Lang o a Lost Highway di Lynch) o che si trasformano continuamente nel corso del film (come in Suspiria e Inferno di Argento), se addirittura non si dissolvono completamente (come in Under the Skin di Glazer).10

In questi film il pubblico è messo a confronto con architetture immaginarie che impediscono radicalmente ogni orientamento, con effetto spesso disturbante. Per contro, il cinema deve rinunciare alla plasticità dell’architettura reale, oltre che alla possibilità di creare un movimento negli spazi che si attui non solo tramite gli occhi ma con tutto il corpo. Alcuni esperimenti di Expanded Cinema potrebbero essere intesi anche in questo senso: tentativi di un’espansione spaziale del cinema che sia anche assolutamente concreta.11 Così non solo il cinema andrebbe letto come eterotopia dell’architettura, ma viceversa anche l’architettura rappresenterebbe un’eterotopia del cinema, dove si realizza a livello plastico ciò che il cinema può solo immaginare.

Studiare il cinema e l’architettura come eterotopie che si definiscono vicendevolmente significa non da ultimo rendersi conto che il loro rapporto non è solo questione di come l’architettura faccia il suo ingresso nel cinema.12 La ricerca non può dunque limitarsi a prendere in esame quei «film d’architettura» il cui compito consiste nel documentare gli edifici nel modo più «adeguato» possibile. Eppure questo è spesso l’atteggiamento che gli esponenti dell’architettura assumono nei confronti del cinema: lo giudicano erroneamente un mero mezzo tramite cui rappresentare le loro opere. Ma quando parliamo di architettura nel cinema, già stiamo sottintendendo una gerarchizzazione che rischia di portare a concepire l’una come l’elemento principale di cui l’altro costituisce solo una mera forma di rappresentazione.

L’architettura viene quindi dichiarata un contenuto, mentre il cinema è solo un veicolo che permette di visualizzare tale contenuto. Ebbene, è proprio questa l’idea che vuole essere contrastata dal discorso su Cinema | Architettura. Invece di studiare l’architettura nel cinema, bisognerebbe occuparsi del cinema come architettura. Bisogna dunque mostrare come lo stesso medium cinematografico si articoli in modo architettonico, ma anche, viceversa, come si possa pensare l’architettura come cinema. Che conoscenze ha il cinema sull’architettura che l’architettura stessa non ha e non può avere? In che misura il cinema ostacola, critica o accentua inevitabilmente le concezioni dell’architettura e dell’urbanistica per sperimentare invece forme proprie di organizzazione dello spazio? E ancora, cosa possono imparare a loro volta l’architettura e l’urbanistica dagli spazi del cinema? 

Sarebbe quindi necessario coinvolgere ancor più intensamente le discipline dell’architettura e dell’urbanistica nel dibattito sullo spazio cinematografico,13 attualmente molto acceso nella teoria del cinema e dei media. E questo è ancor più necessario se si considera che le immagini in movimento (post-)cinematografiche sono ora più che mai parte dello spazio pubblico. Anche per questo oggi bisognerebbe parlare, invece che di architettura nel cinema, sempre più di cinema nell’architettura: con i loro filmati, gli schermi pubblicitari, i tabelloni e soprattutto i display mobili che tutti portiamo con noi compenetrano ormai ogni edificio. Ma già all’inizio degli anni Novanta Vilém Flusser sottolineava che la proliferazione dei media è anche una perforazione dello spazio e da ciò concludeva: «Questo costringe i futuri ideatori di spazi [...] a smettere di pensare a cose come muri, finestre e porte, e anche a strade, piazze e portoni, per occuparsi piuttosto di cose come cavi, reti e informazioni».14

L’esortazione di Flusser ad architetti e urbanisti risulta ancor più veemente in un’epoca in cui le trasmissioni non avvengono nemmeno più via cavo, ma raggiungono le singole stanze tramite raggi e onde. In effetti, però, a influire per prime sull’architettura non sono state le attuali immagini in movimento, digitali e iper-mobili; è invece il cinema che, dalla sua invenzione alla fine dell’Ottocento, ha sempre contribuito a costruire il nostro spazio vitale e ad ampliare le sue architetture con i propri spazi mediatici. Così, di fronte all’attuale onnipresenza delle immagini in movimento, diventa ancor più evidente un fatto: l’architettura non può aggirare gli spazi del cinema. Capire come, invece di girar loro attorno, sarebbe possibile invece fronteggiarli, dovrebbe essere il progetto di un Cinema | Architettura – un progetto che non vuole limitarsi a cogliere l’architettura dalla prospettiva del cinema o il cinema dalla prospettiva dell’architettura, ma piuttosto che cerca di posizionarsi là dove esse si toccano, sulla linea che sta nel mezzo.

Traduzione di Sara Groisman. Versione tedesca qui.

 

Note

  1. G. Perec, Specie di spazi, traduzione di R. Delbono, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 16.
  2. E.T.A. Hoffmann, Rat Krespel, in Id., Werke, vol. IV, Atlantis Verlag, Zürich 1946, pp. 46-71.
  3. Si veda al proposito G.C. Tholen, Die Zäsur der Medien, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2002, pp. 7-18.
  4. Si veda É. Rohmer, L’organisation de l’espace dans le Faust de Murnau (1977), Cahiers du Cinéma, Paris 2000, pp. 6-7. Una tipologizzazione simile verrà proposta più tardi anche da A. Gardies, L’Espace au cinéma, Méridiens Klincksieck, Paris 1993 o da J. Paech, Eine Szene machen, in H. Beller, M. Emele, M. Schuster (a cura di), Onscreen/Offscreen. Grenzen, Übergänge und Wandel des filmischen Raumes, Hatje Cantz Verlag, Stuttgart 2000, pp. 93-121. Si veda anche V. Hediger, Begehen und Verstehen. Wie der filmische Raum zum Ort wird, in D. Müller, J. Pause (a cura di), Wissensraum Film, Reichert Verlag, Wiesbaden 2014, pp. 61-87, alle pp. 61-64.
  5. É. Rohmer, L’organisation de l’espace, cit., p. 7.
  6. Si veda E. Blum, Atmosphären. Hypothesen zum Prozess räumlicher Wahrnehmung, Müller, Lars, Zürich 2010, pp. 25-35.
  7. F. Grafe, Die saubere Architektur in Gefahr. Die Grandhotels in der Unterhaltungsindustrie, in Ead., Film/Geschichte. Wie Film Geschichte anders schreibt. Schriften Bd. 5Brinkmann und Bose Verlag, Berlin 2004, pp. 78-111, a pp. 84-85.
  8. G. Koch (a cura di), Umwidmungen. Architektonische und kinematographische Räume, Vorwerk 8, Berlin 2005, p. 8.
  9. Michel Foucault, Spazi altri – I luoghi delle eterotopie, a cura di Salvo Vaccaro, Mimesis Eterotopia, Milano 2001-2002, pp. 23-24.
  10. Si vedano anche J. Binotto, TAT/ORT. Das Unheimliche und sein Raum in der Kultur, Diaphanes, Zürich, Berlin 2013, pp. 195-280 e Id., Räume, Gänge, Kammern, Strassen. Das Unheimliche im Film, in N. Mitterer, H. Nagy (a cura di), Zwischen den Worten. Hinter der Welt. Wissenschaftliche und didaktische Annäherungen an das Unheimliche, Studien Verlag, Innsbruck, Wien, Bozen 2015, pp. 157-172.
  11. Si veda G. Youngblood, Expanded Cinema, E.P. Dutton, New York 1970.
  12. In questa direzione si muovono ad esempio M. Lamster, Architecture and Film, Princeton Architectural Press, New York 2000 e in parte anche C. Keim, B. Schrödl (a cura di), Architektur im Film: Korrespondenzen zwischen Film, Architekturgeschichte und Architekturtheorie, transcript Verlag, Bielefeld 2015.
  13. Si vedano ad esempio: H. Beller, M. Emele, M. Schuster (a cura di), Onscreen/Offscreen, cit.; G. Koch (a cura di), Umwidmungen. Architektonische und kinematographische Räume, Vorwerk 8, Berlin 2005; U. Meurer, Topographien. Raumkonzepte in Literatur und Film der Postmoderne, Wilheilm Fink, München 2007; F. van der Kooij, Über das Filmische, Zürich 2010 (www.vanderkooij.ch/Fred_van_der_Kooij/Filmbuch.html); V. Hediger, Begehen und Verstehen. Wie der filmische Raum zum Ort wird, in D. Müller, J. Pause (a cura di), Wissensraum Film, Reichert Verlag, Wiesbaden 2014, pp. 61-87.
  14. V. Flusser, Räume (1991), in J. Dünne, S. Günzel (a cura di), Raumtheorie. Grundlagentexte aus Philosophie und Kulturwissenschaften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2006, pp. 274-285, a p. 280.

Questo saggio è la versione abbreviata e leggermente modificata dell’introduzione a Johannes Binotto (a cura di), Film | Architektur. Perspektiven des Kinos auf den Raum, Birkhäuser, Basel 2017, pp. 10-23.


 

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