Ca­ril­lon con­tro la «fin­zio­ne» del­la for­ma mu­si­ca­le aper­ta

Il contributo di Hans Ulrich Lehmann al Padiglione svizzero della Triennale 1968.

Data di pubblicazione
27-02-2023

Tradizionalmente, la forma di un brano musicale è determinata dal rapporto delle parti con il tutto e delle parti tra loro. Mentre queste ultime si susseguono in un determinato arco temporale e ogni nuova parte (indipendentemente da come viene stabilito il concetto di parte) può essere colta come una ripetizione, una variante o un contrasto rispetto alla precedente, l’insieme di un brano musicale si presenta, per così dire, come un oggetto all’interno del quale le parti svolgono determinate funzioni e a loro volta costituiscono il tutto. Così esistono strutture musicali più congeniali all’apertura e altre più adatte alla chiusura. Questo genere di coerenza creativa e funzionale genera, in via categoriale, un’impressione di determinazione e unità formale.

Nell’ambito delle avanguardie musicali del Novecento, tuttavia, si sono verificati sviluppi che hanno messo in discussione questa concezione – in ultima analisi classicista – della forma. In particolare, dagli anni Cinquanta in poi, la composizione di brani musicali prevede fattori di indefinitezza strutturale o funzionale, derivati ad esempio dallo stabilire in maniera approssimativa la durata e l’altezza delle note. Altre opere che ci interessano qui sono quelle dalla cosiddetta «forma aperta» (a volte chiamata anche «forma mobile»), che si ha quando le singole parti del pezzo sono sì composte e fissate per iscritto, ma la loro sequenza è lasciata libera. I musicisti sono particolarmente sollecitati da opere di questo tipo, poiché non devono limitarsi, come nella musica convenzionale, a eseguire una partitura, ma fanno confluire le parti variabili in una forma, che è certamente solo una tra le tante possibili. Tra i primi e più noti esempi di forma aperta vi sono le Twenty-five Pages per 1-25 pianoforti (1953) di Earle Brown, il Klavierstück XI (1956) di Karlheinz Stockhausen e la Terza Sonata per pianoforte (1955-57/1963) di Pierre Boulez.

Questo è, a grandi linee, il background teorico e storico di Régions II, il contributo del compositore Hans Ulrich Lehmann (1937-2013) al Padiglione svizzero della Triennale di Milano 1968. Come è noto, il motto del Padiglione era «libertà di scelta»: in un mondo sempre più particolarizzato e orientato alla produzione industriale in serie, gli organizzatori avevano deciso di rivolgersi «in maniera diretta a ogni persona moderna, interessata al problema della forma oggi», come si legge in una presentazione per il padiglione.1 Il fatto che questo concetto tematico tenesse conto anche della musica moderna è più che logico, vista l’attualità della forma aperta in quel momento. Lehmann – che aveva studiato tra gli altri con Boulez e Stockhausen ed era apparso per la prima volta in pubblico come compositore nel 1962 – aveva già composto diverse opere in forma aperta, come Quanti per flauto e ensemble da camera (1962), Régions per flauto (1963) e Mosaik per clarinetto (1964).

Régions II è composto per sedici carillon che consistono in altrettante brevi sezioni, articolate secondo quattro principi distinti – superfici, punti, linee, forme (fig. 2) – in modo che le sezioni seguano quattro a quattro uno di questi principi. Le quattro sezioni «di superficie» sono dominate dagli accordi; i «punti» presentano per lo più note singole o complessi tonali separati da pause; le «linee» sono contraddistinte da rapide sequenze tonali per lo più monofoniche (fig. 1), mentre le «forme» hanno carattere melodico. I sedici carillon, su ognuno dei quali si poteva suonare una sezione – realizzati appositamente dalla ditta Reuge di Saint-Croix – erano azionati da motori elettrici e montati su corpi di violino per ottenere una migliore sonorità. I sistemi potevano essere messi in movimento tramite una console di controllo e si potevano selezionare quattro sezioni per ogni esecuzione. Allo stesso tempo, il testo musicale poteva essere seguito sulla parete (fig. 3).

Con Régions II Lehmann dà il suo ultimo contributo alla forma aperta e al tempo stesso formula una critica nei confronti di questo genere. Per l’occasione il compositore sottolineò giustamente come in tutte le composizioni in forma aperta scritte fino a quel momento, la «mobilità» delle singole parti fosse «una pura finzione», in quanto l’ascoltatore «non ha alcuna possibilità di determinare alcunché». Infatti, anche se conosce la concezione formale di un brano, la versione che ascolta in concerto o su un supporto audio rimane per lui l’«unica possibile». La determinatezza di cui sopra fa sì che l’ascoltatore «non abbia a disposizione altre possibilità»:2 la libertà di scelta appartiene esclusivamente all’esecutore.

Nel padiglione della Triennale, invece, i visitatori erano stati affrancati dalla loro passività: avendo la possibilità di selezionare quattro sezioni e la loro sequenza, erano in grado di realizzare autonomamente una o più versioni all’interno nella struttura aperta dell’opera. La libertà di scelta inoltre non riguardava solo la selezione e la sequenza, ma anche la forma complessiva, visto il carattere diverso delle singole sezioni. Il visitatore poteva scegliere, ad esempio, le quattro sezioni «linee», creando così una sequenza di varianti oppure concepire una forma ad arco collocando «punti» frammentati nelle sezioni esterne e contrapporli a «superfici» dense in quelle centrali, a sua totale discrezione. Tutto questo rende evidente, tuttavia, che la libertà di scelta implica anche la necessità di dover prendere decisioni consapevoli.

Note

 

1 Programm für Triennale 1968 Mailand dello studio di architettura Schwarz, Gutmann + Gloor, Zurigo, in collaborazione con Lucius Burckhardt, 1967, dattiloscritto, p. 2. Fonte Collezione Hans Ulrich Lehmann, Fondazione Paul Sacher, Basilea).

 

2 Hans Ulrich Lehmann, Régions II, objet sonore pour boîtes à musique (1968), dattiloscritto, p. 2. Fonte Collezione Hans Ulrich Lehmann, Fondazione Paul Sacher, Basilea.

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