Cam­pus vir­tua­li

Prendendo in esame il caso di Milano, Fulvio Irace racconta la declinazione italiana (e svizzera-italiana) del campus: la «cittadella universitaria», un sistema integrato allo spazio urbano che prolifera nel tempo. Accompagna il testo un percorso fotografico di Marco Introini, che documenta gli edifici di questo "campus diffuso", da Pagano a SANAA.

Data di pubblicazione
19-05-2021
Fulvio Irace
Architetto e critico, professore di storia dell’architettura contemporanea dell’AAM e alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano

Nonostante l’uso generalizzato della parola «campus» come sinonimo di complessi universitari, si deve sottolineare come questa denominazione sia per molti versi fuorviante nel caso italiano per il quale è ancora adesso più calzante e pertinente l’appellativo di «città universitaria».

Le fotografie che accompagnano il testo sono state realizzate da Marco Introini in occasione di due campagne fotografiche: nel luglio 2017 e nel febbraio 2021.

La differenza semantica implica uno scarto tipologico: il campus american si riferisce a un complesso autosufficiente esterno al perimetro urbano; la cittadella universitaria invece si presenta come un sistema integrato alla città, stratificato nel tempo per addizioni rese di volta in volta necessarie per esigenze di ampliamenti e di aggiunte in base a specifiche esigenze. Con l’eccezione della Città Universitaria di Roma (che Marcello Piacentini disegnò come un’enclave dalla forma ben determinata all’interno di un recinto monumentale), le cittadelle universitarie italiane devono considerarsi come campus virtuali, concresciuti cioè progressivamente – e senza un masterplan preciso – a partire da pochi edifici fondativi cui, nel corso dei decenni, si sono andati aggiungendo corpi supplementari sfruttando le possibilità di aree inedificate ai margini. È un processo che si può leggere nella sua palmare evidenza nella città di Milano, sede di importanti istituzioni universitarie, pubbliche e private, come il Politecnico, la Bocconi, la Statale e la Cattolica. Se queste ultime due si sono insediate all’interno di edifici storici (l’Ospedale Maggiore di Filarete, la prima; i chiostri di Sant’Ambrogio, la seconda), le prime due nacquero ex novo in aree periferiche, interessate da programmi di sviluppo della città all’inizio del secolo e alla metà degli anni Trenta. Com’è noto, infatti, il Politecnico (inaugurato nel 1927) sorse col nome di Città Studi sulla spinta delle indicazioni del Piano di Angelo Pavia e Giovanni Masera, che nel 1913 destinava l’area delle cosiddette Cascine Doppie (tra Lambrate e Loreto) alla costituzione di un polo d’alta formazione che comprendeva anche il Regio Istituto Tecnico Superiore. L’originario piano di Augusto Brusconi e Gaetano Moretti (ripreso nel 1921, a conclusione della Grande Guerra, da Francesco Belloni, Giannino Ferrini e Vittorio Verganti) prevedeva un complesso di nove padiglioni collegati da percorsi coperti, che già negli anni della successiva realizzazione sembrarono a molti obsoleti e insufficienti, tanto da richiedere programmi di ampliamento che dagli anni Trenta ad oggi ne hanno ampliato la superficie e modificato in parte l’assetto per renderne più omogenea e integrata la disordinata espansione.

Discorso analogo quello dell’Università Commerciale Luigi Bocconi, nata nel 1902 su iniziativa dell’imprenditore milanese Ferdinando Bocconi, che voleva così ricordare la prematura scomparsa del figlio nella battaglia di Adua. La prima sede sorse nel cuore della città storica, in un edificio dell’ingegner Giorgio Dugnani: ma dopo poco più di due decenni il successo della scuola dettò le condizioni di un rilancio che si scontrò tuttavia con la cronica mancanza di spazi che fomentava la competizione tra nuove e vecchie università.

Pagano

Le trattative tra l’Università e il Comune si infittirono in un continuo scambio di proposte che nel 1934 raggiunsero un punto d’incontro nella proposta dell’area di Porta Ludovica compresa tra le vie Sarfatti e Castiglione, dove sorgeva la dismessa Officina del gas. Per quest’area il Comune aveva anche fatto redigere dai suoi tecnici un progetto che prevedeva l’intera occupazione del lotto secondo uno schema di impianto tradizionale a corte chiusa: un quadrilatero con due angoli smussati sugli ingressi ed edificazione perimetrale continua. Una pianta decisamente obsoleta per la capitale del razionalismo che, proprio a Milano, aveva il suo polemico baluardo nella «Casabella» di Giuseppe Pagano che, non a caso, fu imposto dall’autorità del filosofo Giovanni Gentile, dal 1931 vicepresidente della Bocconi, come sovrintendente artistico.

Da subito l’architetto istriano tentò di imporre la sua nota avversione alla stolida monumentalità in auge per gli edifici pubblici, ribadendo la sua etica del progetto come onesta e diretta soluzione di un problema allo stesso tempo tecnico e sociale. Partendo dall’idea di creare un esempio di corretta interpretazione dei temi della città moderna, Pagano – che aveva alle sue spalle le credenziali di adesione al fascismo della prima ora e l’esperienza dell’Istituto di Fisica nella Città Universitaria di Roma – elaborò almeno tre varianti prima di arrivare alla soluzione definitiva. L’analisi dei diversi progetti mostra come sin dall’inizio la sua idea fosse quella di svincolarsi dalla dittatura del lotto – secondo il noto assunto razionalista dell’indipendenza dei corpi di fabbrica dall’allineamento stradale – e di eliminare l’inerzia delle abituali corti chiuse in favore di una composizione aperta, porosa e permeabile. Il risultato fu un’organica interpenetrazione di quattro corpi di diversa altezza ruotanti attorno a un «centro di gravità» che fa da snodo ai flussi di studenti, docenti, personale della scuola, secondo la geometria dinamica di uno schema a svastica, memore del più celebre edificio della Bauhaus di Walter Gropius. Nella presentazione della sua Bocconi in «Costruzioni-Casabella» (nn. 170-171, 1942) e nelle fitta corrispondenza con i suoi committenti, Pagano ritorna più volte sul tema della gestione degli spazi contigui, aprendo in un certo senso al possibile programma di un’estensione del complesso e quindi insistendo sul suo stretto collegamento con la città, sicché le sue critiche al piano di lottizzazione del Comune contenevano le premesse ai futuri svolgimenti dell’Università.

La presenza di un portico animato dagli interventi scultorei di Leone Lodi, la cura dell’allestimento degli interni con l’ampio ricorso a mobili e arredamenti in legno che rivelano l’apprezzamento di Alvar Aalto, le soluzioni ingegnose di alcuni ambienti come l’Aula Magna, la Sala del Consiglio, il luminoso atrio e lo scalone principale con i gradini disposti in modo da far filtrare la luce della vetrata retrostante, fanno della Bocconi il capolavoro di Pagano e la dimostrazione del suo credo per cui «la bellezza deve risultare come una conseguenza e non come una premessa». Diffidente verso le tentazioni estetiche che rimproverava persino all’amico Terragni, Pagano intese realizzare con la nuova sede della Bocconi un modello di edilizia civile, che sostituisse alla artificiosa ricerca di soluzioni formali brillanti la misura di un’architettura realistica e «modesta», ma consapevole della necessità di dare risposte calibrate e consapevoli al consolidamento di una nuova idea di città.

Muzio

Che la sua intuizione fosse nel giusto, lo si verificò pochi anni dopo, quando l’istituzione di nuovi corsi di laurea rese inevitabile un primo ampliamento della sede universitaria. Nel 1953, Giovanni Muzio ricevette l’incarico di progettare i nuovi pensionati e le mense con accesso su via Bocconi, e quindi proprio alle spalle del nucleo progettato da Pagano. Nonostante Muzio fosse stato oggetto delle più severe critiche del direttore di «Casabella», si dimostrò in grado di comprenderne il valore esemplare, attenendosi a un senso di rispetto per l’ex rivale. Come già aveva dimostrato nei collegi Augustinianum e Ludovicianum a servizio dell’Università Cattolica di cui era stato nei decenni precedenti il grande artefice, Muzio adottò per i nuovi corpi a trifoglio un rivestimento in clinker bicolore, chiaro riferimento alla litoceramica adottata da Pagano. L’insolita pianta ad Y dei due edifici rispondeva alla volontà di eliminare lo spreco di grandi corridoi suddividendo le camere in gruppi di dodici e favorendo così la definizione di piccole comunità. Nel blocco delle mense, Muzio si avvalse con successo del contributo dell’ingegner Aldo Favini, autore dell’interessante soluzione di copertura con volta sottile autoportante costituita da nove prismi cavi a sezione triangolare variabile disposti inclinati a ventaglio.

Sempre a Muzio, questa volta coadiuvato dal figlio Lorenzo, toccò dieci anni dopo di progettare la Scuola di Economia e Commercio, con la biblioteca e l’aula magna. Erano i primi anni Sessanta e gli scenari della ricerca architettonica risultavano radicalmente mutati: eppure Muzio, consapevole di edificare proprio a fianco della fabbrica di Pagano, si attenne al massimo rigore formale, ponendosi quasi in punta di piedi davanti a quello che ormai veniva considerato un monumento del primo Moderno. Rispetto alla pianta aperta di Pagano, il complesso dei Muzio si presenta compatto, ma vistosamente tagliato in alcuni punti da strette feritoie in vetrocemento: è significativo però il dialogo intessuto sin dall’ingresso con il nucleo originario, attraverso la riproposizione del tema del porticato.

Muzio e Pagano si erano combattuti nella Milano tra le due guerre, ma condividevamo il clima etico del confronto nell’interesse superiore del far città attraverso l’architettura.

Gardella

Tutti gli ampliamenti successivi che a partire dalla metà degli anni Ottanta arricchirono la Bocconi con nuovi edifici – tra cui la nuova sede della Scuola di Direzione Aziendale (Vittorio Ceretti) e il complesso delle aule (Ignazio Gardella col figlio Jacopo) – dovettero sottostare alla logica di inserimenti condizionati dalla disponibilità di aree libere, e quindi al di fuori di un masterplan organico capace di collegare in maniera adeguata il vecchio e il nuovo.

Debbono dunque considerarsi come degli assolo sia l’ingegneristica performance di Vittorio Ceretti con i due corpi gradonati rivestiti da pannelli metallici in ossequio a certi moduli dell’high tech allora in voga, sia il peculiare volume ovale (ribattezzato per questo il «velodromo») dei due Gardella: anche se bisogna riconoscere all’ellisse che contiene quattro piani di aule la lodevole intenzione di creare un centro di riconoscibilità in un intorno condizionato dall’anarchica disseminazione di edilizia residenziale.

Grafton Architects

Quasi contemporaneamente all’inaugurazione dell’edificio dei Gardella, nello scorcio di passaggio tra vecchio e nuovo millennio, la Bocconi bandì un concorso ad inviti per realizzare un ulteriore ampliamento legato alle urgenze di potenziamento dell’infrastruttura didattica. Era la prima volta per la storica Università milanese che si passava dalla prassi dell’incarico diretto a quella della competizione internazionale, con la possibilità dunque di valutare tra molte proposte quella meglio rispondente ai criteri di funzionalità e di riconoscibilità. Il concorso vide emergere lo studio irlandese Grafton Architects – una piccola pratica professionale facente capo a Yvonne Farrell e Shelley McNamara – che seppe magistralmente interpretare lo spirito dell’originaria Bocconi di Pagano e di Muzio, riportando il disegno del manufatto architettonico alla scala della città.

All’incrocio tra la lunga arteria di viale Blignì (caratterizzata dalla continuità ottocentesca delle cortine stradali) e alla più appartata via Roentgen, Grafton Architects colse l’occasione di ribadire il valore civico della nuova infrastruttura per collegare finalmente l’istituzione universitaria al tessuto cittadino, dotandola di una salda «testa» d’appoggio sul grande viale cittadino e quindi facendola emergere in tutta la sua rilevanza espressiva come parte integrale di un vero e proprio intervento di rigenerazione urbana.

Per continuare a leggere questo articolo, acquista qui «Archi» 1/2021. Qui si può leggere l'editoriale con l'indice del numero.

Approfondimenti

Gabriele Neri, Il nuo­vo cam­pus di SANAA per la Boc­co­ni di Mi­la­no, da «Archi» 3/2013

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