Ani­mal Ar­chi­tec­tu­re

Data di pubblicazione
15-06-2023

La dialettica tra natura e artificio costituisce uno degli spettacoli più affascinanti di Manhattan, riassunti nella coesistenza della sua implacabile griglia stradale e di Central Park, sorta di espiazione urbanistica per quell’atto geometrico così violento e totalizzante. A pochi passi dal cuore verde dell’isola si è da poco inaugurato un nuovo capitolo di tale rapporto, ovvero la nuova ala dell’American Museum of Natural History: il Richard Gilder Center for Science, Education, and Innovation.

Jeanne Gang, una delle architette americane più in voga, lo ha pensato come un intervento di rottura rispetto ai linguaggi eterogenei ma in generale morigerati (e ortogonali) degli altri edifici che compongono l’AMNH, esteso su quattro blocks dell’Upper West Side. Ispirandosi, dice, a formazioni rocciose plasmate dal vento e dall’acqua, come i canyon americani, ha creato un’architettura «geologica» che all’interno affascina parecchio, almeno al primo impatto. Il grande atrio sembra infatti un’immensa grotta con percorsi sospesi e profonde bucature, bagnata dalla luce che penetra dall’alto. Per ottenere un insieme continuo e avvolgente si è utilizzata una tecnica chiamata shotcrete, che consiste nello spruzzare direttamente il cemento sulle armature metalliche, evitando l’impiego di casseforme ed ottenendo superfici ruvide e granulose, rifinite a mano.

Sarà che anche lei si distingue per il contrasto con una griglia urbana altrettanto radicale, cioè la scacchiera di Ildefonso Cerdá, ma tra gli infiniti esempi accostabili al Gilder Center ci viene in mente la favolosa Casa Milà di Antoni Gaudí a Barcellona. Numerose sono le vignette umoristiche che ne derisero le forme, rappresentandola come un magazzino di baccalà, un garage per dirigibili e una grande Arca di Noè con grotte zeppe di animali esotici al posto dei normali inquilini. Assomigliava a tutto, insomma, tranne che a una casa per esseri umani.

Le somiglianze tra quest’ultima caricatura e il nuovo museo americano ci fanno pensare all’altalenante fortuna della metafora naturale nella storia dell’architettura, e alle ragioni che ne hanno decretato o giustificato l’impiego. Se per Gaudí quelle geometrie erano le più appropriate per dare forma a una spiritualità che andava oltre il ruolo funzionale (egli intendeva Casa Milà come un santuario per la Vergine del Rosario), a New York esse corrispondono invece a uno spettacolo hollywoodiano che, secondo l’autrice, dovrebbe metterci in sintonia con scienza e natura, minacciate da negazionismi pandemici e peccati ambientali.

Anche questo edificio si meriterebbe qualche sberleffo: mica per i dettagli e gli spazi non troppo riusciti che si rivelano dopo lo stupore iniziale, e neanche per il carattere “preistorico” che gli è già valso simpatici soprannomi (da Manhattanhenge a Bedrock, la città dei Flintstones). Piuttosto, per l’immancabile retorica sulla sostenibilità che l’accompagna. Nonostante i proclami (certificazioni LEED, aria che circola, acqua riciclata, vetri anti-schianto per gli uccelli ecc.), l’impatto di un simile colosso fatto di enormi quantità di cemento, acciaio e vetro, costato 465 milioni di dollari, non è certo un esempio di quel virtuosismo ambientale che vorrebbe stimolare. «Dobbiamo affrontare il cambiamento climatico dal punto di vista razionale ma anche emotivo», ha però detto Jeanne Gang. Forse, allora, un buon risarcimento sarebbe trasformare il Gilder Center in un hotel a cinque stelle per animali (mica uno zoo!), sull’esempio della caricatura di Gaudí, con servizi personalizzati dall’antilope alla zebra, senza visitatori tra i piedi a scattare selfie. Si chiuderebbe finalmente il cerchio, dando vita a una vera architettura dedicata alla natura.

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