Pe­cu­lia­ri­tà e im­pli­ca­zio­ni sul­la si­cu­rez­za del­le co­stru­zio­ni in ce­men­to ar­ma­to

Data di pubblicazione
05-10-2021
Bernardino Chiaia
Centre for Safety of Infrastructures and Constructions, SISCON, POLITO
Gianfranco Piana
Department of Bridge Engineering, Tongji University, Shanghai; SISCON, POLITO

Manutenzione e controllo dei ponti «tipo Maillart»

La figura di Robert Maillart (1872-1940), ben nota a studiosi e appassionati di storia dell’ingegneria strutturale, è spesso scarsamente conosciuta, se non del tutto ignorata, dalla maggior parte degli ingegneri progettisti. Eppure si tratta di una figura di estremo rilievo proprio per quanto attiene alle applicazioni, e in particolare alla costruzione di ponti ad arco in calcestruzzo armato, più che agli studi teorici, sebbene Maillart abbia fornito contributi significativi anche in tal senso (si pensi, ad esempio, al problema del centro di taglio delle sezioni trasversali delle travi). Numerosi sono infatti, in Italia e in Europa, i ponti ad arco in calcestruzzo armato che adottano schemi «tipo Maillart». Ma, al di là delle opere dello stesso Maillart e della «imitazione» che può ritrovarsi in realizzazioni di altri progettisti del secolo scorso, è interessante chiedersi se sia possibile attualizzare il lascito di Maillart per calarlo nelle sfide che l’ingegneria strutturale contemporanea presenta. Maillart fu, infatti, esempio di figura determinata e spesso controcorrente, capace di rivoluzionare l’uso del calcestruzzo armato, allora ai primordi, nella costruzione di edifici, ponti e infrastrutture (condotte idrauliche, acquedotti). Con le sue indagini sperimentali e le sue realizzazioni, ne mise in luce le potenzialità proponendo soluzioni originali, quando fino ad allora il calcestruzzo era stato usato come surrogato della pietra, e il calcestruzzo armato soggiogato a forme proprie delle costruzioni in acciaio o in legno.

Nel duplice ruolo di progettista e costruttore, Maillart introdusse soluzioni strutturali innovative (strutture cellulari, solai a fungo, ricorso alla resistenza per forma, schemi collaboranti arco-trave, uso della post-tensione …). Egli fu uno dei massimi esponenti della cosiddetta architettura strutturale, estremo fautore del connubio tra arte (estetica, armonia) e razionalità (efficienza, durevolezza, economicità). Il suo approccio «tecnico» ai problemi strutturali, in contrapposizione a quello maggiormente «scientifico» di alcuni accademici suoi contemporanei e che fu anche all’origine di numerosi scontri e controversie nell’arco della sua carriera professionale, vede al centro il progetto inteso come processo completo in cui forma, struttura e aspetti costruttivi sono integrati.

Se, all’epoca di Maillart, l’ingegneria strutturale, soprattutto grazie all’allora recente introduzione del calcestruzzo armato quale nuovo materiale da costruzione, poneva all’ingegnere problemi nuovi di progettazione, calcolo e costruzione, oggi essa offre sfide diverse al progettista, al costruttore e al gestore delle opere d’arte, ponti e viadotti in primis. I problemi di calcolo appaiono infatti superati dalla disponibilità di sofisticate teorie strutturali e di efficienti metodi numerici per la risoluzione di problemi, anche non lineari, ad alto numero di incognite. A questo si aggiunga che, nonostante i notevoli passi avanti compiuti dalla Scienza e Tecnologia dei materiali, i materiali impiegati nella costruzione delle grandi opere rimangono essenzialmente quelli del secolo scorso. Si aggiunga ancora l’attuale tendenza alla standardizzazione e all’adozione di soluzioni semplici ed economiche nella costruzione di strutture e infrastrutture pubbliche. Inoltre, nelle opere di nuova costruzione i requisiti di robustezza e durabilità possono essere soddisfatti con un’attenta scelta dello schema statico e delle caratteristiche dei materiali e un’adeguata cura dei dettagli costruttivi nelle fasi di progettazione e realizzazione.

Per contro, la vera sfida attuale è quella delle costruzioni esistenti, per via della loro vulnerabilità dovuta all’invecchiamento e al degrado delle caratteristiche statico-meccaniche (durabilità) o all’esposizione al rischio sismico o idrogeologico. È in tale ambito che l’ingegneria strutturale deve ancora fornire risposte alle esigenze di conservazione, manutenzione, gestione e controllo delle opere esistenti. Ciò è tristemente ricordato dai numerosi e sempre più frequenti eventi di crollo di ponti registrati, soprattutto nell’ultimo decennio, in Italia e in altri Paesi le cui infrastrutture abbiano più di 50 anni. Esigenze di manutenzione, gestione e controllo si presentano, ovviamente, anche per le opere di nuova costruzione, per le quali però dette operazioni risultano più agevoli, se non altro perché il loro monitoraggio può iniziare già dalle fasi di costruzione o dalla loro messa in servizio. È peraltro risaputo che le principali cause che portano a una significativa riduzione della vita utile delle strutture sono in gran parte riconducibili a errori nella cura dei dettagli costruttivi, all’uso inappropriato dei materiali, alla cattiva esecuzione e alla carenza di manutenzione. Escludendo quindi eventi di natura eccezionale, i precedenti aspetti sono potenzialmente controllabili.

Caratteristiche e peculiarità

I ponti realizzati da Maillart tra il 1901 e il 1940 possono essere presi ad esempio in quanto rappresentativi di un corretto approccio alla progettazione strutturale. Ciò è testimoniato dal loro generale buono stato di conservazione, a distanza di quasi, od oltre, un secolo dalla loro costruzione. In nessun caso noto agli autori si evidenziano sintomi di degrado tali da compromettere la funzionalità o la stabilità della struttura. A vantaggio della buona conservazione delle opere di Maillart vi è la loro ubicazione (ambiente secco montano), la corretta definizione dei dettagli costruttivi e, soprattutto, una progettazione della struttura finalizzata all’instaurarsi in essa di un regime statico ottimale e congeniale al materiale, ossia con prevalenti sforzi di compressione. Circa gli effetti superficiali di degrado dovuto alle azioni atmosferiche (agenti meteorici, gradienti termici, gelo-disgelo), gli interventi manutentivi messi in atto hanno generalmente previsto l’asportazione del calcestruzzo ammalorato al fine di ripristinare lo stato originario. Gli schemi strutturali proposti risultano essere quindi vincenti.

Le realizzazioni di Maillart nel campo dei ponti possono ricondursi a tre categorie principali: i ponti ad arco a tre cerniere, i ponti a volta sottile e impalcato irrigidente e i ponti a travata. La terza categoria vanta, in realtà, poche realizzazioni, peraltro non di particolare rilievo. Ben più numerose e significative sono, invece, le opere appartenenti alle prime due tipologie. Queste ultime, che potrebbero apparire simili a un primo sguardo disattento, sono in realtà profondamente diverse tra loro dal punto di vista del comportamento statico. Lo schema di arco a tre cerniere alla Maillart prevede un piccolo rapporto di ribassamento, vincoli di cerniera ben identificati, struttura cellulare, arco a sezione variabile dalle imposte alla chiave (forma lenticolare) per assecondare l’andamento del momento flettente indotto dai carichi variabili agenti sull’una o sull’altra semi-arcata (cfr. Ponte Salginatobel, 1930, luce 90 m). Lo schema presenta i tipici vantaggi delle strutture isostatiche, con possibilità di assecondare (limitati) cedimenti vincolari e variazioni termiche con rotazioni delle cerniere. Ancor più innovativi, dal punto di vista strutturale, sono i ponti a volta sottile e travata irrigidente (cfr. Ponte Valtschielbach, 1925, luce 43,2 m). In questo schema, la volta regge il peso della costruzione operando in regime di compressione, mentre la sovrastante soletta, invece che costituire un inutile aggravio di peso, è deputata all’assorbimento dei momenti flettenti indotti dai carichi variabili. La volta è così sottile da non risentire, per effetto della sua flessibilità, della caduta di spinta per accorciamento elastico dell’asse e per ritiro, né degli effetti dei primi assestamenti del terreno.

Di contro, il fluage e le variazioni termiche giocano un ruolo negativo, specialmente al ridursi del rapporto di ribassamento. Oltre a presentare vantaggi costruttivi (centine molto leggere), notevole risulta la rigidezza torsionale del ponte, il che ne rende l’utilizzo ottimale per l’inserimento dei ponti in curva (cfr. Ponte Schwandbach, 1933, luce 37.4 m). La convenienza dei ponti a volta irrigidita rispetto ai ponti ad arco ordinari tende a diminuire all’aumentare della luce, per via dell’aumento del rapporto tra il peso dell’impalcato e quello della volta. Entrambe le tipologie di ponte appena descritte richiedono una solida stabilità delle spalle, e risultano tanto più sensibili agli effetti del secondo ordine indotti dalle variazioni di forma quanto più il grado di ribassamento è piccolo. Come si vedrà più innanzi, questo effetto è particolarmente rilevante per i ponti a più campate con arco tipo Maillart, per i quali la stabilità delle pile, oltre che delle spalle, risulta fondamentale.

Gli schemi proposti da Maillart, data la loro efficienza statica, sono stati ripresi da altri progettisti e applicati, anche in Italia, alla costruzione di ponti a una o a più campate. Diversi sono gli esempi in tal senso, per i quali si rimanda a quanto scritto da altri autori e reperibile in letteratura; l’argomento è trattato anche in altri contributi del presente numero di Archi. In questa sede, gli autori ritengono utile segnalare una realizzazione (unica) in Torino, probabilmente ignota ai più. Si tratta del nuovo Ponte Vittorio Emanuele II, sul fiume Stura di Lanzo, in corrispondenza di corso Vercelli, costruito nel 1964 dall’Impresa Palmieri di Roma su progetto (datato maggio 1961) di Guido Oberti, allora direttore dell’Istituto di Tecnica delle Costruzioni del Politecnico di Torino. È un esempio di ponte ad arco a tre cerniere tipo Maillart, con due strutture affiancate, staticamente indipendenti tra loro e collegate da elementi prefabbricati di tre metri di lunghezza. Ogni arcata è costituita da due volte collegate tra loro da setti trasversali (struttura cellulare).

L’arcata unica di 92 m di luce supera del doppio quella del noto Ponte Mosca (in pietra) che fino ad allora era stata l’arcata di maggior luce tra i ponti in Torino. Il profilo d’intradosso è circolare, con rapporto di ribassamento di circa 1/10. Ai due lati dell’arcata il piano stradale è costituito da due travi semplicemente appoggiate, lunghe 18 m, ciascuna gravante sull’arcata portante e su una spalla del ponte. Il Ponte Vittorio Emanuele II è l’ultimo esemplare in Torino di arcata costruita su centina. È qui interessante rilevare che il precedente Ponte Vittorio Emanuele II, in pietra, fu inaugurato nel 1882 e crollò spontaneamente nel settembre 1961 a causa dell’ultimo di vari scalzamenti delle fondazioni, quando ne era ormai stata decisa la demolizione. Infatti, i fenomeni premonitori rilevati dal personale dell’Ufficio preposto alla manutenzione comportarono la chiusura al transito alcuni mesi prima del crollo e la nomina da parte dell’Amministrazione comunale di un’apposita Commissione tecnica che valutasse la situazione. Quest’ultima, prevedendo la possibilità di un cedimento improvviso, dichiarò assolutamente pericolosa la riapertura del ponte, sconsigliò qualunque intervento di restauro e ne propose la demolizione.

Le estrapolazioni degli schemi alla Maillart fatte nel progetto di altri ponti del Novecento rendono le opere sensibili all’esposizione ambientale, al rischio idrogeologico e a quello sismico. Nel prosieguo del presente saggio si accennerà a una realizzazione italiana di ponte a più campate con schema tipo Maillart: il viadotto di Albiano Magra (frazione del comune di Aulla), in provincia di Massa-Carrara, purtroppo recentemente crollato. Si tratta di un esempio di tipologia di opera la cui valutazione dello stato di conservazione tipicamente richiede competenze specialistiche e un approfondito esame delle sue caratteristiche di unicità. Ciò è in accordo con l’approccio proposto dalle Linee Guida per la classificazione e gestione del rischio, la valutazione della sicurezza e il monitoraggio dei ponti esistenti, emanate nel maggio 2020 dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Tali linee guida insistono molto sull’importanza dell’acquisizione di un adeguato livello di conoscenza sulle opere d’arte (ponti e viadotti), raggiungibile soltanto tramite personale ben addestrato e specializzato nel campo strutturale e mediante indagini e monitoraggi sufficientemente approfonditi su materiali e strutture.

Il crollo del ponte sul Magra e la lezione per il monitoraggio

Il ponte sul fiume Magra, che collegava Caprigliola e Albiano, fu costruito nel 1949, su progetto degli ingegneri Arrigo Carè, Giorgio Giannelli e Giulio Ceradini, per ricostruire il ponte precedente, minato e abbattuto dall’esercito tedesco. Il nuovo ponte, a cinque arcate come il precedente, preservava completamente le fondazioni, le spalle e le pile preesistenti, che non avevano subito particolari danni; queste ultime furono infatti demolite solo parzialmente, rimuovendo la parte in elevazione e il pulvino per consentire la realizzazione di un nuovo basamento in calcestruzzo armato su cui sarebbero state impostate le nuove arcate (fig. 3). L’interasse tra le pile era pari a 51,15 m, la larghezza della carreggiata era pari a 6,5 m più due marciapiedi laterali di larghezza pari a circa 83 cm. Per annullare le sollecitazioni dovute alle variazioni di temperatura e al ritiro, e per evitare gli effetti di eventuali assestamenti della fondazione e della muratura di pietrame delle pile (che erano state sottoposte al cimento della deflagrazione delle mine), furono adottati archi isostatici a tre cerniere con uno schema cellulare alla Maillart.

Questa scelta, insieme alla volontà di ridurre le spinte testimoniata dalla proposta di un’altra soluzione alternativa (non realizzata) che prevedeva un abbassamento del piano d’imposta al fine di ridurre le spinte sulle pile, fanno presumere che i progettisti del nuovo viadotto fossero, già nel 1949, consci degli assestamenti fondali e delle problematiche ben note delle pile in alveo. La configurazione strutturale delle arcate mostrava una soletta di spessore costante pari a 35 cm, irrigidita da tre nervature ad altezza variabile controventate da trasversi. L’impalcato confluiva, nel tratto centrale, nelle tre nervature dell’arco, mentre nei due tratti laterali scaricava su tre telai trasversali solidarizzati sulle nervature e tra loro collegati mediante travi longitudinali. Le solette erano giuntate in corrispondenza dell’asse pila e pertanto le singole campate erano strutturalmente indipendenti (tranne ovviamente che per l’equilibrio delle spinte su ciascuna pila). Infine, le cerniere in chiave e alle imposte erano realizzate mediante ferri incrociati Φ30 (fig. 4). Successivamente alla costruzione, due importanti interventi strutturali, prevalentemente rivolti al consolidamento delle fondazioni contro l’annoso problema dello scalzamento delle pile, furono eseguiti nel 1978 e nel 1988.

Sul ponte di Albiano Magra furono eseguite prove statiche dopo la costruzione. Con riferimento alla fig. 5, Albenga riporta a pagina 420 del libro I Ponti – I. L’Esperienza edito a Torino nel 1958: «Utili indicazioni diedero le prove sugli archi con 3 cerniere: la Tav. III riporta i risultati delle prove al ponte sul Magra tra Caprigliola ed Albiano, caricato con un rullo nelle indicate posizioni. Le linee a tratto continuo sono quelle sperimentali, le linee a tratti sono le linee teoriche nell’ipotesi di funzionamento perfetto delle cerniere, quelle a tratto e punto nell’ipotesi di cerniera in chiave inattiva. Le cerniere sono del tipo Mesnager [I f. 216]: il modulo elastico si ritenne nei calcoli eguale a 350.000 kg/cm2, per il carico di rottura 291 kg/cm2 su cubetto prelevato all’atto della costruzione. I risultati principali furono: la cerniera di chiave ruota pochissimo: quelle d’imposta ruotano sensibilmente ma meno di quanto vorrebbe la teoria; le frecce d’inflessione misurate sono inferiori alle teoriche; le linee elastiche osservate e quelle calcolate hanno andamento analogo». Quanto testé riportato sottolinea quali e quante importanti informazioni sul comportamento di una struttura possano evincersi dal raffronto tra quantità misurate e corrispondenti quantità attese dal calcolo, anche limitatamente a misure statiche. Si noti la piccolezza degli spostamenti e rotazioni rilevate e la si rapporti all’epoca dell’esecuzione delle misure! È evidente come la ripetizione delle misure a distanza di tempo possa fornire utili indicazioni sulle condizioni statiche della struttura.

Il viadotto sul Magra è crollato l’8 aprile 2020, provocando solamente due feriti per un fortuito caso. Sulle cause del crollo sono al momento ancora in corso le indagini tecniche. Tuttavia, con buona probabilità, la nota paleofrana di Caprigliola (conosciuta fin dai primi anni Novanta e che ha il piede proprio in prossimità della sponda sinistra del fiume Magra) è stato il motore che ha alimentato e poi innescato il crollo. La paleofrana è – per definizione – un movimento gravitativo di versante antico e con evoluzione molto lenta nel tempo. Le cause primarie del dissesto sarebbero pertanto da individuarsi nell’interazione progressiva tra il fenomeno di scivolamento franoso insistente sulla spalla sinistra lato Caprigliola e l’abbassamento dell’alveo del fiume Magra in corrispondenza della pila n. 1. La distruzione totale del viadotto si spiega facilmente con l’assenza di robustezza nello schema strutturale isostatico delle campate: ciascuna campata era realizzata mediante un arco a tre cerniere isostatico, la cui stabilità era assicurata soltanto dalle spinte alle imposte. Tali spinte erano garantite dalle due spalle per i soli semiarchi terminali, e dal bilanciamento (controspinte) dell’azione orizzontale, su ciascuna delle quattro pile, per tutti gli archi dalle campate contrapposte.

Considerando inoltre l’alta deformabilità delle pile (dovuta sia al vincolo unilatero dei massicci fusti superiori, sia alla progressiva perdita del grado di incastro dei pozzi per abbassamento del letto del fiume Magra), si deduce come lo schema complessivo del ponte potesse diventare addirittura labile al superamento della forza di ribaltamento dei fusti delle pile, ad esempio sotto forti asimmetrie di carico tra due campate. L’equilibrio statico vigeva quindi grazie alla sostanziale simmetria geometrica e di carico. Nel caso del ponte sul Magra, è quindi molto evidente come, a seguito del collasso improvviso dell’arco della prima campata, i restanti archi, in rapida successione dalla seconda alla quinta campata, perdendo l’equilibrio di spinta a partire dalla pila n. 1 e fino alla pila n. 4, sono progressivamente collassati con un «effetto domino» ben visibile dalla posizione dei resti. Il fenomeno del collasso progressivo si spiega quindi, nel caso in esame, con l’assenza di ridondanza nella concezione strutturale del ponte sul Magra. È bene notare come il concetto di robustezza strutturale solo recentemente venga considerato fondamentale nella progettazione e verifica delle opere civili.

Quale lezione si può trarre dal crollo appena descritto per il monitoraggio di ponti «unici» come quelli qui esaminati? Informazioni sulla vulnerabilità sismica, sul degrado delle proprietà dei materiali e sul danneggiamento degli elementi strutturali possono ottenersi con una caratterizzazione e un monitoraggio delle caratteristiche dinamiche della struttura. Indicazioni circa la stabilità globale dell’opera possono invece essere tratte da un monitoraggio di tipo statico e attivo, nel caso specifico volto a misurare, in particolare, le rotazioni delle cerniere e il mantenimento della sagoma del ponte. In ogni caso, risulta fondamentale individuare i possibili punti di debolezza della specifica costruzione in esame, ripetere le misure nel tempo e valutare l’evoluzione della situazione.

La comunità scientifica e tecnica dovrà continuare a interrogarsi per cercare risposte al pressante problema della gestione, del controllo della sicurezza e della manutenzione delle opere d’arte esistenti, di costruzione più o meno recente. Tra queste, attenzione speciale richiedono sicuramente opere «uniche» come quelle di cui si è qui accennato, le cui peculiarità impongono un’approfondita conoscenza del loro funzionamento statico e la definizione di interventi di controllo attivo e manutenzione predittiva specifici.

In conclusione, alla luce di quanto si è detto in questa sede, ci si pone la seguente domanda: saranno gli ingegneri e i tecnici contemporanei all’altezza delle sfide del nostro tempo, così come Robert Maillart lo fu nel suo? Se la risposta definitiva non potrà che arrivare dal futuro, quando il nostro tempo sarà ormai alle spalle, sicuramente la via additata da Maillart col suo insegnamento non potrà che essere d’aiuto nel trovare le risposte che cerchiamo.

La sicurezza delle opere in cemento armato, Zurigo 1909, Robert Maillart

Osservazioni retrospettive, Bernardino Chiaia, Gianfranco Piana

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