Tra pe­dago­gia, ti­po­lo­gia e con­tes­to

Intervista a Sandy Attia e Matteo Scagnol

Questa intervista con Sandy Attia e Matteo Scagnol offre una riflessione sfumata sull'architettura scolastica come atto civico e culturale. Radicato nel contesto, nella pedagogia e nella tipologia, il loro approccio resiste alla standardizzazione e rivendica il potere dell'architettura di plasmare l'apprendimento, la memoria e l'identità collettiva.

Publikationsdatum
14-07-2025
Luca Cardani
arch., lect., res. in Architectural and Urban Design DABC POLIMI

Among pe­dago­gy, ty­po­lo­gy and con­text english version 

Luca Cardani: Si tende a ritenere che la qualità di un progetto rifletta il grado di maturazione dell’idea di architettura all’interno di una società. In base alla vostra esperienza, come è evoluta negli ultimi anni la consapevolezza collettiva rispetto all’idea di scuola, e in che modo questa trasformazione influisce concretamente sulla progettazione di nuovi edifici scolastici?

Sandy Attia e Matteo Scagnol: È utile unire il tema della scuola ai luoghi in cui lavoriamo e alla nostra esperienza. Negli ultimi 25 anni abbiamo lavorato sull’architettura scolastica principalmente in Alto Adige, con una committenza pubblica che potremmo definire privilegiata, capace di riconoscere nella scuola e nell’educazione uno dei principi fondanti della propria cultura. La consapevolezza dell’intera comunità altoatesina nei confronti della scuola è molto forte per motivi sia sociali sia geografici. La micro-urbanizzazione delle valli vive attraverso la scuola, luogo il cui valore è riconosciuto da tutti come centrale, capace di rappresentare l’intera comunità e, in parte, anche di plasmarla. Ad esempio, nei primi anni Duemila sono stati indetti numerosi concorsi per scuole professionali, spinti da una volontà politica volta a valorizzare l’artigianato locale come tradizione del lavoro.
L’idea di scuola in Alto Adige ha dunque una complessità profonda, legata alle persone e alla specificità dei luoghi; non è mai una questione numerica o generalizzante, ma – pur all’interno di regole e conoscenze condivise su tutto il territorio – si sviluppa caso per caso, aumentando la consapevolezza critica sul tema e precisandolo.

Negli ultimi decenni, contesti come l’Alto Adige e il Canton Ticino hanno saputo rinnovare profondamente il progetto architettonico della scuola, riconoscendo il valore strategico dell’orientamento pedagogico. Se da un lato esistono elementi spaziali fissi e imprescindibili, dall’altro la loro relazione non può essere definita una volta per tutte, né ridotta a uno schema standard. Come si costruisce, allora, un dialogo autentico tra pedagogia e architettura nelle diverse fasi del progetto? Quali sono, secondo voi, gli ambiti in cui l’interazione tra le due discipline può produrre innovazione e quali invece richiedono una certa autonomia progettuale?

A tal proposito, sin dal 1995 la provincia di Bolzano ha adottato una normativa specifica rispetto a quella italiana, che si aggiorna costantemente e che ha risposto così all’esigenza di esprimere una cultura peculiare in materia di scuola. Esistono moltissime normative, ovviamente, nella costruzione di una scuola. Da un lato sono una «gabbia» che può causare una standardizzazione o un appiattimento delle risposte progettuali. Dall’altro lato, però, spesso non sono realmente controllate, e il loro valore finisce per apparire puramente indicativo.
In Italia, per esempio, la normativa scolastica imposta dal DM 18/12/1975 è ancora alla base della programmazione delle scuole, ma poi per molti aspetti viene dimenticata. Contiene idee interessanti, ma espresse con un linguaggio ormai superato, e alla fine sembra essere applicata solo attraverso la tabella degli standard dimensionali, che però riguardano proprio gli aspetti più mutati nell’interpretazione contemporanea della scuola. Ad esempio, gli spazi distributivi sono dimensionati sull’idea di corridoio minimo, ma oggi queste zone sono divenute essenziali poiché assumono anche il ruolo di spazi collettivi, di scambio, di socialità: veri e propri luoghi rappresentativi del «fuori aula».

Un altro aspetto che, dal punto di vista della nostra esperienza, potrebbe essere approfondito nella normativa riguarda la specificità degli spazi rispetto al dimensionamento. Non intendiamo che tutto debba avere una sola funzione, ma piuttosto che ogni luogo possieda un suo carattere, una sua atmosfera specifica in relazione agli altri, consentendo una trasformabilità d’uso che non sia rigidamente legata a funzioni predeterminate, ma che possa adattarsi nel tempo. Questa normativa tende a far concepire gli spazi come frammentati, ma non bisogna dimenticare che essa è utile solo se si riesce a mettere in relazione i diversi ambienti all’interno di un’idea complessiva di scuola. Noi crediamo che il futuro della scuola risieda proprio nella sua caratterizzazione attraverso il progetto, che può esistere solo a partire da un indirizzo pedagogico su cui i progettisti sono chiamati a lavorare per tradurlo in forma architettonica.

L’aggiornamento dei temi e dei programmi architettonici legati alla scuola è stato, in molti paesi europei, accompagnato da una revisione significativa del quadro normativo di riferimento. A vostro avviso, quali sono gli aspetti più rilevanti delle normative attuali entro cui ti trovi a operare e in che modo questi apportano valore aggiunto al progetto scolastico? Le norme, tuttavia, riflettono spesso anche istanze esterne al discorso architettonico: come si può garantire, all’interno di un sistema prescrittivo, uno spazio effettivo di libertà progettuale e di ricerca spaziale?

Il rapporto tra pedagogia e architettura non è stabilito, non è bianco o nero, ma si articola su diverse scale di grigio.1 Ci sono molti preconcetti sui rispettivi ruoli: spesso i pedagogisti fanno notare agli architetti che, nel progettare gli spazi, non tengono conto dei modi di svolgimento delle attività scolastiche, ma è altrettanto vero che gli architetti spesso sanno evidenziare qualità latenti degli spazi che i pedagogisti non hanno colto.

Il dialogo è bello per diversi motivi. È bello e assolutamente necessario tenere assieme pensiero pedagogico e pensiero architettonico attraverso il confronto, ma il percorso è molto slabbrato: non esiste un metodo definito, e i dirigenti scolastici2 – che forniscono l’orientamento pedagogico – cambiano nel tempo, facendo così evolvere idee e, talvolta, perfino i principi di fondo. Questa interazione funziona solo se vengono rispettate le competenze: al pedagogista il compito di fornire un indirizzo pedagogico chiaro, e all’architetto quello di saperlo interpretare con il progetto. Non bisogna trasformare i pedagogisti in architetti, né gli architetti in pedagogisti. Il senso più profondo di questo dialogo tra le parti, nei processi di coinvolgimento e partecipazione, è la necessità di comprendere e costruire insieme un significato condiviso, che, se imposto dall’alto, rischia di perdere il contatto con le realtà locali.

La cosa difficile da stabilire attraverso questo dialogo sono le priorità della scuola: definirle, orientarsi verso di esse, ma senza irrigidirle in prescrizioni eccessivamente vincolanti. Un’altra difficoltà di questa fase preliminare del progetto è costruire uno strumento concreto, realmente utile come base di confronto per affrontare i nodi progettuali. D’altro canto, la qualità dello spazio influenza il modo in cui viene vissuto e contribuisce all’esperienza e alla conoscenza delle persone, accrescendo la cultura architettonica.
La bravura degli architetti, e il compito più difficile, sta quindi nel rispondere alle esigenze pedagogiche sapendo accogliere anche i loro futuri cambiamenti. Concepire un progetto che vive al di sopra delle specializzazioni, pur sapendo includerle, accettarle, sperimentarle. Una buona architettura ha una sua forza oltre il tempo: è capace di trasformarsi nell’uso, adattandosi funzionalmente senza perdere il proprio carattere.

Il concorso è spesso considerato uno strumento privilegiato per la ricerca progettuale in architettura. Qual è, secondo voi, il suo valore specifico nella costruzione di un progetto e, più in generale, nella riflessione sul tema della scuola? Se da un lato il concorso rappresenta un’occasione positiva per sperimentare e confrontarsi, dall’altro, nelle condizioni attuali della pratica architettonica, non rischia talvolta di orientare le proposte verso soluzioni convenzionali, pensate per essere ampiamente accettate o, per così dire, «vincenti»?

Noi lavoriamo principalmente su concorso e per noi è fondamentale, perché, se interpretato con la necessaria libertà, il concorso consente di interrogarsi sulla scuola di oggi per progettare la scuola più giusta. Crediamo nell’architettura e, quindi, in un certo senso ci affidiamo alla forza di un pensiero architettonico, più che ad altri fattori. L’occasione del concorso diventa così una possibilità di dare continuità a una ricerca e, ogni volta, di far progredire la conoscenza sull’architettura della scuola.

Nel nostro approccio cerchiamo sempre di essere radicali. Cerchiamo un’idea forte di scuola in rapporto all’occasione e, una volta trovata, lavoriamo su quella e la portiamo avanti. Tuttavia, il nostro lavoro mantiene anche un carattere di imprecisione: non è mai rigidamente assertivo, ma sempre critico, per cui portare avanti un’idea non esclude profonde modificazioni se emergono elementi che non convincono più. Pensiamo che sia necessario conservare un margine di manovra con cui mettersi in discussione, non chiudendo il progetto su se stesso, ma mantenendolo aperto per accogliere nuovi stimoli. Questa, per noi, è la ricerca più impegnativa, che a volte costa molto, ma permette di considerare il lavoro nella sua complessità come un contributo continuo sullo stesso tema, che si arricchisce e si valorizza nel tempo.

Il ripensamento dell’orientamento pedagogico, che ha progressivamente spostato il fulcro dell’educazione dall’insegnamento all’apprendimento, ha inciso in modo profondo sulla concezione degli spazi scolastici. L’aula, sempre più spesso ridefinita come home base, ha assunto nuovi significati, mentre anche gli spazi accessori e di transizione si sono caricati di ruoli educativi inediti. Da un punto di vista tipologico, quanto incide questa trasformazione nel progetto contemporaneo della scuola? Possiamo riconoscere una continuità con i modelli precedenti o siamo di fronte a una discontinuità radicale? In questo contesto, quanto influisce il carattere del luogo – inteso sia come specificità geografica che come tessuto urbano – nella definizione della forma architettonica e del programma spaziale? La scuola si struttura ancora come oggetto autonomo o tende piuttosto a costruire relazioni con la città e il territorio che la ospitano, modificando di conseguenza l’equilibrio tra pedagogia, tipologia e progetto architettonico?

Più andiamo avanti nel nostro lavoro, più cresce la convinzione che alcuni elementi canonici e tipologici dell’architettura abbiano una potenza espressiva e funzionale senza tempo, capace di dare forma alle idee. Questo vale soprattutto per la scuola, che è per definizione un complesso sistema di relazioni: prima di tutto tra persone e poi tra spazi con caratteri differenti. Un portico con un ritmo di colonne, ad esempio, ha la forza tipologica ed espressiva di contenere tutte le novità che oggi si chiedono a una scuola, come il difficile equilibrio tra senso di libertà e senso di appartenenza. Noi, fondamentalmente, guardiamo con attenzione il sito in cui operiamo, riflettiamo su alcuni concetti architettonici e cerchiamo poi di calarli nel luogo, per stabilire una relazione tra i caratteri del contesto e dell’architettura: vedere cosa offre il luogo e cosa riceve, e viceversa.

Una delle scuole recenti che abbiamo progettato, una scuola elementare e media, è impostata sul riferimento alla basilica. Lo spazio di una grande navata centrale tiene insieme e distribuisce tutte le aule e gli spazi di apprendimento, creando una ritmica interna. La facciata riflette questo studio sulla ripetizione, il ritmo e le relazioni proporzionali tra le parti e il tutto. Nella scuola che abbiamo realizzato a Bolzano, invece, il tipo della corte è fortemente evocativo per esprimere un’idea di luogo riconoscibile. È un impianto ad H, con al centro l’atrio della scuola e due corti rivolte verso lati opposti: da un lato si conforma lo spazio collettivo dell’apprendimento, su cui si affacciano le aule e i luoghi della didattica; dall’altro, si definisce la piazza come spazio pubblico, con l’edificio della palestra e le funzioni più aperte. L’aspetto tipologico ha una sua scala, una sua enfasi e una sua durata oltre il tempo. Se si valorizza il carattere di un tipo, esso può acquisire un aspetto monumentale: non nel senso di un linguaggio retorico, ma nel senso che il suo carattere essenziale può fissarsi nella memoria dei bambini e delle bambine per il resto della loro vita, facendo riconoscere l’idea stessa di scuola. Ad esempio, le scuole «collodiane» dell’Ottocento restano nell’immaginario collettivo come riferimento a un’idea di scuola che raccoglie tutti attorno a un cortile: durante il tempo della didattica e, nel tempo della ricreazione, all’interno dello stesso cortile. Molte scuole degli anni Settanta, invece, non hanno superato il loro tempo: oggi non vengono più riconosciute e molte sono destinate alla demolizione.

Infine, per quanto riguarda la tipologia, bisogna essere consapevoli di un aspetto: la scuola non è mutata radicalmente nei secoli. Se guardiamo alla madrasa, la scuola coranica, ad esempio, troviamo piccoli spazi accanto a grandi spazi, messi in relazione attraverso patii che costruiscono una comunità scolastica che matura nel tempo. È un impianto tipologico che si ripete, modificandosi poco ma adattandosi ogni volta alla scala e al luogo. La tipologia è un aspetto in cui crediamo fortemente, ma va considerato anche l’altro lato della medaglia. Se facessimo una radiografia dei progetti valutati nelle giurie di concorso degli ultimi anni, sembrerebbe che le scuole si assomiglino tutte, sovrapponendosi l’una all’altra. I progetti sono curati, appaiono con una loro bellezza, ma l’immagine di scuola che propongono appare sempre la stessa, e questo dovrebbe far riflettere. È il connubio tra pedagogia e architettura ad aver prodotto questa uniformità? Sono gli standard? Forse i bandi di concorso non hanno il coraggio di richiedere proposte davvero autentiche? O forse sono le giurie a non avere il coraggio di valutare con criteri di vera originalità, autenticità e innovazione? Alcuni studi in Europa si sono posti questo problema della tipologia scolastica come ricerca continua che sfida la normativa, come ad esempio lo studio austriaco Dietrich | Untertrifaller Architekten. Normativa e innovazione sono come due fratelli in conflitto, ma proprio da questo conflitto nascono le domande sul senso di ciò che si fa o si dovrebbe fare.

Vorrei concludere parlando del carattere dell’architettura scolastica, della riconoscibilità della sua forma e immagine all’interno di una comunità, e del suo potenziale nel contribuire alla costruzione di una cultura architettonica e di una cultura del costruire. Il recente rinnovamento degli edifici scolastici sembra infatti portare con sé la possibilità di indicare una direzione più ampia per l’architettura contemporanea: da un lato rispondendo alle nuove istanze pedagogiche, dall’altro confrontandosi con le esigenze della sostenibilità, della tecnica e del contesto. Quali sono, secondo voi, i caratteri principali che emergono da questa fase di trasformazione? Ha ancora senso oggi parlare della «ricerca del carattere» dell’architettura della scuola come identità unitaria, oppure è più opportuno parlare di «caratteri», intesi come variazioni o alternative progettuali all’interno di un campo in evoluzione?

Dal 2010 le scuole sono divenute il tema pubblico di maggiore attenzione. La scuola è al centro delle preoccupazioni ed è quindi una delle più significative espressioni del nostro tempo. Troviamo importante che gli edifici abbiano un carattere, anche se oggi sembra molto difficile dare carattere a un edificio, perché le «armi» degli architetti appaiono spuntate da altri fattori che distraggono i mezzi propri dell’architettura. Non crediamo che esista un carattere generale della scuola, o quantomeno non esiste un solo carattere per descrivere tutte le scuole. C’è un fatto piuttosto importante nella storia che forse ci aiuta a riflettere su questo tema. Dopo le grandi crisi, come ad esempio le guerre, le comunità si riuniscono per costruire una scuola, perché è un gesto di comunanza, di uguaglianza e di speranza nel futuro. Forse proprio lì risiede il carattere della scuola: nell’essere la preoccupazione centrale e condivisa di un’intera comunità, che immagina e costruisce la forma della società in cui desidera vivere, possibilmente migliore.
Ognuno di noi dovrebbe allora elevare il tema della scuola per rispondere a quella comunità. Qual è il carattere della scuola in quel momento, in quel luogo, per quella comunità? La scuola è un edificio che costituisce le fondamenta di una società per esistere.

Note

1. Sandy Attia è co-autrice con Beate Weyland di | Progettare scuole: tra pedagogia e architettura, Guerini scientifica, Milano 2015.

2. In Italia il dirigente scolastico coordina e gestisce un’istituzione scolastica autonoma. Unisce responsabilità amministrative, organizzative e pedagogiche. In Canton Ticino, il direttore ha un ruolo centrale nella gestione pedagogica, organizzativa e amministrativa e rappresenta l'istituto a livello locale, ma risponde al Dipartimento cantonale dell’educazione (DECS) e ha meno margine di autonomia

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