Uto­pian Hours

Publikationsdatum
26-10-2021
Cristiana Chiorino
Architetto e dottore di ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica PoliTo

La quinta edizione di Utopian Hours 2021, il primo festival italiano dedicato alle città e al city making, organizzato dall’associazione no-profit Torino Stratosferica, è stata un concentrato di idee utopiche, progetti visionari e tante soluzioni concrete per il futuro del vivere urbano.

Torino Stratosferica è un progetto di city imaging e city branding che da sette anni nella città subalpina coinvolge creativi, urbanisti e cittadini per immaginare la città di domani proponendo idee e visioni per il rinnovamento e la crescita delle città attraverso progetti, innovazioni, provocazioni e le esperienze di molti ospiti internazionali.

Il tema del festival di quest’anno era la città dei 1000 minuti. Un invito a proiettarsi oltre gli slogan diffusi e a concentrarsi sulla vera essenza delle città: i cittadini.

La città di domani che emerge dalla tre giorni del festival deve essere più equa, più verde e più digitale.

La città di domani che emerge dalla tre giorni del festival deve infatti essere più equa, più verde e più digitale. Un po’ come la immaginava Michael Sorkin, visionario progettista newyorkese, scomparso nel 2020, a cui il festival di quest’anno era dedicato e che, come ha raccontato il suo stretto collaboratore Deen Sharp, con il suo laboratorio di ricerca Terreform aveva immaginato città sperimentali e utopiche più eque e vivibili.

Una città più verde

Per immaginare una città più verde come non partire da Glasgow, sede della prossima COP26, la Conferenza ONU sul cambiamento climatico. Jude Barber dello studio Collective Architecture, Paola Pasino del Glasgow City Council, Brian Evans, urbanista e Graham Hogg del collettivo Lateral North hanno condiviso i progetti di rigenerazione, esperienze e prospettive sui prossimi cambiamenti della città. La parola chiave: ottimismo per il futuro urbano.

Soraya Acson ha invece raccontato le ambizioni di Helsingborg e di H22 - la city expo che avrà luogo il prossimo anno nella cittadina svedese. Tra sistemi intelligenti di smaltimento circolare e app che dialogano con i bambini, l'obiettivo è diventare il centro dell'innovazione urbana a livello globale e fornire soluzioni efficaci per le sfide del futuro.

Tra i progetti visionari ma oggi concreti era imprescindibile tornare a capire come si è costruita la High Line, dal racconto di Robert Hammond, uno dei due newyorkesi che per primi si sono opposti alla demolizione della ferrovia sopraelevata e hanno proposto la creazione di un parco lineare. Si scopre così che il successo di quello che è l'esempio di rigenerazione più celebre al mondo è davvero partito dall'ingenua volontà di un piccolo gruppo di cittadini inesperti, che però intuiscono il grande potenziale del luogo e convincono il nuovo sindaco e la comunità della loro visione. L'argomento vincente? “Un miglio e mezzo di Manhattan. Quante volte capita di poterlo reimmaginare?"

Sulla forza della natura in città si è concentrato anche Mette Skjold dello studio danese Stig Lennart Andersson, fra gli studi di landscape design più influenti in Europa. Anderson ha illustrato quanto la natura sia rapida nel riappropriarsi degli spazi se le si dà la possibilità. Che si tratti del pendio verde del termovalorizzatore disegnato da BIG o di una rotonda in città a Copenhagen, un intervento virtuoso di ecologia urbana trasforma i luoghi in ecosistemi vivi, habitat per più specie, capaci di assorbire gli eventi meteorologici più traumatici. La natura fa da legante anche per la società, aprendo relazioni là dove c'erano barriere, aumentando il senso di benessere e sicurezza.

Con Michael Grove architetto e urban designer statunitense, direttore della sezione Landscape Architecture, Civil Engineering and Ecology dello studio internazionale Sasaki, lo sguardo internazionale del festival si è invece spostato sulla Cina e sull'Asia, il continente dell'urbanizzazione radicale. Grove ha raccontato come il suo lavoro sul paesaggio, e in particolare la pianificazione degli spazi verdi, ridia priorità alla natura piuttosto che all'uomo, con un impatto positivo sugli habitat più a rischio. Come a Wuhan, dove Sasaki è intervenuto lungo il fiume Yangtze.

Riabitare i fiumi e ristabilire il contatto con l'acqua è alla base di Flussbad Berlin, progetto avviato nove anni fa da realities:united per rendere balneabile un tratto della Sprea di fronte all’Isola dei Musei nel cuore di Berlino dopo un secolo. Jan Edler ha raccontato come una visione "irrealistica" si sia trasformata, grazie a eventi sportivi e al coinvolgimento della comunità, in un progetto concreto e sostenuto da fondi pubblici. Le prime gradinate lungo il tratto della Sprea saranno costruite a breve, altre strutture per i bagnanti seguiranno.

Una città più verde non è fatta solo di giardini, nuovi parchi e fiumi recuperati.

Ma una città più verde non è fatta solo di giardini, nuovi parchi e fiumi recuperati. La domanda con sui si è aperto l'intervento di Césare Pereen, non può che metterci alle strette: perché sprechiamo così tanto? Co-fondatore di Superuse Studios, lo studio di architettura e design di Rotterdam che si occupa di super-use (riutilizzo ad alta valorizzazione) dei materiali residuali e di scarto, dando nuova vita attraverso soluzioni sostenibili ed eleganti ha raccontato la filosofia che anima il suo team: non esistono scarti ma solo risorse. I progetti presentati spaziano da pezzi di aerei usati per costruire auditorium, oggetti quotidiani che diventano arte o arredi urbani, ex supermercati come vasche per pesci. La vita degli oggetti soprattutto di quelli urbani è potenzialmente infinita. Da dove partire? Pereen lo ha detto chiaramente: dalle nostre scelte quotidiane, dal rivedere - anche radicalmente - il nostro stile di vita. Ripensare le infrastrutture, i sistemi di produzione, la logistica e la nostra dieta. Interpretiamo il suo talk non solo come un monito, ma come una raccomandazione.

Più equa

Un’altra parte del festival si è incentrata sulla presentazione di progetti per rendere la città più equa.

Partendo dalla presentazione del Chief Equity Officer, figura sempre più presente nelle grandi città americane, spesso teatro di contraddizioni e diseguaglianze laceranti. Cresciuto in un piccolo quartiere di Houston, Brion Oaks rivede nella sua infanzia alcuni elementi che sollevano una domanda: perché la qualità della vita è radicalmente diversa a distanza di tre isolati? Oggi si vive un'atmosfera di risveglio e di analisi sul passato che ha caratterizzato la società americana. Ma disastri naturali, profilazione da parte della polizia e arresti, l'impatto economico del Covid mostrano come la parte Est della città texana di Austin, storicamente abitata dalla comunità di colore, viva una realtà differente rispetto alla parte Ovest. Qual è il lavoro di un Chief Equity Officer allora? Spingere i politici a farsi le giuste domande e ad applicare in ogni sfera della società la definizione di equità: incontrare le persone dove sono e aiutarle ad arrivare dove dovrebbero stare.

Spostandosi a Hong Kong Jeff Rotmeyer ha regalato al festival un intervento di grande umanità e speranza su un tema urbano fra i meno visibili: gli homeless. Con la sua organizzazione Impacthk sin prende cura della comunità locale di homeless. Partendo da un gesto spontaneo: portare cibo una sera al mese ai senzatetto al palco. Presto il numero di volontari è cresciuta, fino a che le "kindness walk" sono diventate un appuntamento giornaliero. La strategia è stat non forzare un dialogo, né chiedere qualcosa in cambio: è così che il gruppo ha guadagnato la fiducia delle persone, che presto si sono rivolte a Impacthk per trovare rifugio e opportunità. Un percorso di singole amicizie, anche doloroso, che porta al riscatto attraverso piccole conquiste quotidiane.

Questo esempio ha introdotto la presentazione Open Collectives, l'installazione che gli americani Rafi Segal e Sarah Williams hanno portato alla Biennale di Architettura di Venezia di quest’anno: una riflessione su democrazia, partecipazione e cura delle comunità che si estende dagli Stati Uniti alla Colombia.

Che tipo di collettivi o organizzazioni vogliamo che portino avanti lo sviluppo urbano? Chi dovrebbe costruire i luoghi che forniscono i servizi essenziali delle nostre città? I valori condivisi prima di tutto, perché la città deve prendersi cura dei suoi cittadini, attivandoli per il bene comune.

Questi sono anche gli obiettivi che si è dato LSE Cities, il centro di ricerca della London School of Economics che dal 2004 lavora per stimolare il dibattito sul futuro delle città arricchendo la prospettiva di chi ha il potere di cambiare le cose. Il suo impegno è capire cosa non funziona, nella consapevolezza che i grandi centri urbani non scompariranno nel prossimo futuro. Il suo obiettivo: rafforzare le istituzioni politiche democratiche, per rispondere alla pandemia, alla crisi di giustizia sociale e a quella climatica.

Più digitale

Infine la città di domani sarà certamente più digitale ma dovrà fare i conti con le crescenti esigenze di privacy. Nel 2019 inaugurava a Shenzhen la Biennale curata da Carlo Ratti e da un team del Politecnico di Torino. Allestita all'interno di una stazione, la mostra rifletteva sullo scambio tra architettura, città e sviluppo tecnologico digitale, sollevando implicitamente una questione: fra tanti mezzi di sorveglianza, le città continueranno a garantire l'anonimato? I contenuti della mostra sono stati raccolti nel libro il cui titolo è un chiaro omaggio a Jane Jacobs, Eyes of the City, appena pubblicato da Hatje Cantz Verlag. Il Festival si è chiuso con un talk di Carlo Ratti protagonista del dibattito internazionale sull’influenza delle nuove tecnologie in campo urbano, autore tra il resto del libro La città di domani (Einaudi, 2017, scritto con Matthew Claudel) e direttore del Senseable City Lab del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston. La sua presentazione è un appello sincero, che tradisce tutta la voglia di sperimentazione. Un invito a tutti i designer ad andare oltre i soliti compiti da progettisti e a scommettere sulla novità, sulle opportunità del digitale anche sbagliando. È quello che chiama un "nature positive design", o meglio un "design-at-large": un approccio trasversale, multidisciplinare, collaborativo, che mira ad affrontare i veri problemi di questo tempo. Ratti porta sul palco tre diversi esempi, fra cui "Hot Heart" un sistema di nuova generazione per il riscaldamento delle città, ideato per Helsinki. Il design deve puntare alle "utopie", altrimenti sarà "oblio", afferma Ratti citando un titolo di Buckminster Fuller.

Dalla tre giorni di festival emerge che dopo una iniziale epidemia di city quitting la città rimane ancora un attrattore imprescindibile.

Dalla tre giorni di festival emerge quindi che dopo una iniziale epidemia di city quitting la città rimane ancora un attrattore imprescindibile. La pandemia ci forza però a riflettere sull'importanza della salute e sul benessere per costruire città che colgono il loro ruolo primario: connettere le persone. Il festival vuole fornire una visione più ottimista contro il pensiero diffuso secondo cui dopo oltre un anno di pandemia, le città siano malate, a pezzi e sempre più vulnerabili, e che non siano più terreno fertile per il benessere collettivo, ma centri di ingiustizia sociale. Nello stesso weekend di Utopian Hours si è tenuto infatti a Milano il FeltrinelliCamp Broken Cities, ispirato dalla consapevolezza che le città stiano affrontando sfide sociali e ambientali bisognose di soluzioni a lungo termine. Due giornate con giovani ricercatori e professionisti da tutta Europa messi in dialogo con esperti e speaker internazionali – tra cui Richard Sennett, Ricky Burdett, Erik Klinenberg, Saskia Sassen, Isabelle Anguelosvski, Filipe Araujo, Nadina Galle, Joan Subirats, Tuna Tasan-Kok – su come ricucire la città “frammentata” e come ricomporre fratture ambientali e sociali verso una nuova agenda urbana.

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