Ai mar­gi­ni, lo spa­zio

Il Teatro dell'architettura raccontato da Mario Botta e Marco Della Torre

Con la sua apertura nel febbraio 2018, seguita dall'inaugurazione della prima mostra in ottobre, il Teatro dell'architettura di Mendrisio ha portato nella Svizzera italiana il primo grande centro espositivo dedicato a Baukultur e dintorni, integrando inoltre la proposta formativa e culturale dell'Accademia. Ne abbiamo parlato con Mario Botta, autore del progetto e direttore artistico del Teatro, e Marco Della Torre, coordinatore di direzione dell'Accademia e responsabile delle mostre.

Publikationsdatum
10-07-2019

Com'è nato il Teatro e con quali fini?
Mario Botta – È nato da un desiderio lontano. Quando abbiamo ideato l'Accademia, la prospettiva finale era che avrebbe dovuto ospitare anche una struttura per mostrare le ricerche delle persone che vi avrebbero lavorato. Poi abbiamo costruito la scuola, che – è importante dirlo – trova la sua legittimità nella storia del territorio. L'ex presidente Couchepin mi diceva: «Che senso avrebbe fare una scuola d'architettura in Vallese? Nessuno, perché manca il retroterra. Voi, invece, l'avete». La fortuna dell'Accademia nasce da lontano, perché nel mondo sanno chi è Borromini, sanno chi è Le Corbusier, sanno chi sono i maestri comacini: la scuola è una continuazione ideale di questo saper costruire.
Consolidata l'Accademia (che abbiamo chiamato così per distinguerci dai politecnici di Zurigo e Losanna), mi è sembrato che il suo slancio iniziale andasse un po' ad assottigliarsi. Per ragioni oggettive: per poterle dare una visibilità e una statura internazionale siamo stati obbligati ad avere un'equipollenza con le altre scuole del mondo, e inevitabilmente i programmi scolastici livellano – magari verso l'alto, ma livellano – cultura e sapere architettonico.
L'interscambio è certamente un valore, però ci ha anche portati a perdere una parte della nostra identità. Il Teatro, che abbiamo chiamato così dall'idea dei teatri anatomici (qui ci sono degli studenti e qui c'è il malato – l'architettura – che dev'essere studiato), nasce allora da questo pensiero: creiamo una struttura che resti fuori dall'equipollenza con le altre scuole e che permetta di sfuggire alla formazione professionale. Volevamo che diventasse un luogo di interscambio delle ricerche fatte all'Accademia da docenti e studenti. Domani il Teatro potrebbe avere anche delle
proprie edizioni e gemellare una serie di iniziative, dai convegni agli studi fino alle mostre e alle performance. È, insomma, uno strumento operativo per la scuola; ad esempio, è pensato per permettere di esporre modelli anche molto grandi.
Marco Della Torre – Oltre agli spazi espostivi ai piani superiori, al piano interrato c'è un bellissimo auditorio, con intorno un foyer dove facciamo delle mostre più piccole. Adesso c'è quella del premio dell'architettura svizzera, e poi ne abbiamo in programma una sulle attività didattiche. È uno spazio molto versatile.

La prima mostra che avete proposto, Louis Kahn e Venezia, si presentava come una sorta di dichiarazione di poetica: Kahn è uno dei maestri da cui lei, Botta, dichiara di essere influenzato… 
MB – È chiaro che ognuno di noi ha delle affinità elettive e delle poetiche particolari.
MDT – Ma c'è anche una questione di valori: Kahn è un gigante dell'architettura che è stato dimenticato. Un'altra mostra che abbiamo promosso e esposto nella nostra galleria, prima ancora che ci fosse il Teatro, era su Mangiarotti, anche lui una figura importantissima ma dimenticata. Dopo gli anni Ottanta, con la revisione del Moderno e le derive neostoriciste, nel grande calderone del postmoderno questi architetti bravissimi sono andati totalmente persi.
MB – La società dei consumi butta via anche gli architetti…
MDT – Per cui, voglio dire, curare uno spazio espositivo come il Teatro è occasione pressoché unica all'interno di una scuola d'architettura: permette di far riemergere, in questo mondo pieno di frastuoni, dei valori che sono fondanti. Anche la seconda mostra, quella di Conzett, oltre che essere molto didattica esprime dei valori: ha un rapporto molto interessante sia con la grande tradizione dell'ingegneria civile svizzera legata ai trasporti…
MB – Maillart docet!
MDT – … sia con il paesaggio. E noi, sotto la direzione di Mario Botta, alcuni anni fa abbiamo dato un forte impulso alla cultura e alla ricerca sul paesaggio all'Accademia, invitando ad insegnare João Nunes, Gomes da Silva, Michael Jakob.

Con Conzett e il suo “inventario personale” Landscape and Structures (questo il titolo della mostra) avete proposto qualcosa di molto diverso rispetto al percorso su Kahn: siete passati dall'architettura all'ingegneria, da uno sguardo retrospettivo all'attenzione per la contemporaneità, e vi siete chinati sulla realtà svizzera.
MB – Conzett è un nostro bravissimo professore che lavora con l'ingegneria strutturale nella grande tradizione svizzera; ci è sembrato importante segnalarlo. Non era una mostra curata da noi, è un progetto itinerante che abbiamo ospitato.

E la programmazione futura manterrà quest'alternanza tra approcci diversi?
MB – La prossima mostra sarà su un artista belga, Koen Vanmechelen, che lavora apparentemente ai margini dell'arte, con i polli.
MDT – Sì, con l'ibridazione animale.
MB – È molto interessante perché lavora alle frontiere delle discipline. Faremo scrivere il testo introduttivo da un professore di biologia che lavora all'Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona. Infatti l'osservazione che sorregge tutto il progetto del Teatro è che oggi le discipline si incontrano soprattutto ai margini: non nella centralità della biologia ma ai suoi margini, non nella centralità del costruire ma nel campo del pensiero dell'architettura… E vale anche per la filosofia, per l'economia… Ecco, mi sembra che è proprio ai limiti delle differenti discipline che si incontri l'organizzazione dello spazio di vita dell'uomo. E noi lavoreremo con chi ha qualcosa da dire su quello spazio.
MDT– Poi stiamo preparando una mostra sui disegni inediti del giovane Le Corbusier, prima che lasciasse la Svizzera per la Francia. Aveva praticamente l'età dei nostri studenti…

Progettate di dedicare delle mostre anche all'architettura ticinese?
MB – No. L'architettura ticinese deve alimentare questo spazio, che però non nasce per dare visibilità a un territorio limitato. Sarebbe sbagliato. L'Accademia non è nata come scuola ticinese; non è la SUPSI – una scuola professionale che prepara gli operatori nell'ambito dell'architettura. Abbiamo altre finalità… dovrebbe bastare dire che abbiamo studenti provenienti da 44 Paesi. Perché vengono qua? Non certo perché siamo ticinesi.
MDT – Beh, forse un po' sì…

Teatro e Accademia: in che modo il programma espositivo interagisce con quello formativo?
MB – Il Teatro nasce perché c'è l'Accademia, e questo è da un lato una fortuna e dall'altro un limite. La fortuna è che abbiamo un pubblico nostro, che sono gli studenti e chi frequenta l'Accademia. Ma proprio perché è uno strumento dell'Accademia non abbiamo quel richiamo che possiedono ad esempio la Biennale di Venezia o la Triennale di Milano. Quindi cerchiamo di fare poco ma bene, e lasciare documenti – come i cataloghi – con le riflessioni critiche che ne sono scaturite. È un obiettivo ambizioso ma credo possibile, anche grazie al potenziale dei nostri professori.
Adesso dobbiamo trovare le risorse per far vivere il Teatro. Le strade sono due: o diventa uno spazio espositivo dell'Accademia (e credo sia sbagliato) con una circolazione più rapida e forse meno ambiziosa oppure segna un territorio storico, una memoria di ricerca attorno all'architettura, e allora ha senso di esistere.

Ha parlato di risorse: sul versante economico come vi muovete?
MB – Esiste la Fondazione Teatro dell’architettura, perché la scuola, da sola, non potrebbe mantenere il Teatro. Sarà la Fondazione a cercare i soldi.
In realtà la grande assente è la Svizzera… In termini economici eroga un aiuto universitario a innaffiatoio: sparge dappertutto, senza una vera scelta. Ma la Svizzera ha bisogno di questa mediterraneità, di questa cultura latina, di questo mondo umanistico che si nutre anche della cultura rinascimentale italiana!
Le dico un'altra cosa: nel 1965, un anno prima che scomparisse, ho incontrato Alberto Giacometti nel suo atelier, a Parigi. Mi ha detto: «Le pauvre, tu es Suisse aussi, tu devras tout faire tout seul». 
Questo il mio dialogo profetico con Alberto Giacometti. La Svizzera non gli aveva comprato nemmeno una litografia quando era ancora in vita, per poi andare a cercare le sue opere in America. Questo per dire quanto la Svizzera possa essere disattenta!
MDT – D'altra parte, io penso che il Teatro è stato inaugurato nell'ottobre scorso: è passato solo un semestre, ma vediamo già un interesse da parte del territorio. Facciamo regolarmente delle giornate di porte aperte e man mano il nostro pubblico sta aumentando, ci sono anche molti licei che arrivano, e poi ci sono dei politecnici (Milano, Torino) che vengono sempre, e la SUPSI con i loro professori. Poi abbiamo contatti con altre realtà, come il Vitra Design Museum, e adesso cominceremo a lavorare con i vari forum dell'architettura svizzeri.

Nell'ambito di queste collaborazioni vi proponete anche di portare avanti una riflessione sulla Baukultur che potrebbe coinvolgere anche la politica?
MB – Sì. Dieci giorni fa, ad esempio, abbiamo accolto i rappresentanti dell'insegnamento dell'architettura in Svizzera, riuniti nel Consiglio svizzero dell'architettura. Si tratta, a poco a poco, di far funzionare questa macchina. Il contenitore c’è… arriveranno anche i contenuti.

Il Teatro beneficia anche della sua collocazione nella “rete” dell'Accademia, che comprende la biblioteca specializzata e l'Archivio del Moderno
MDT – Per l'Archivio in questo momento siamo in una fase di trasformazione delicata: è in atto la sua riacquisizione da parte dell'USI, ma sono processi lenti. Ad ogni modo, anche quella naturalmente è una risorsa, e da questo punto di vista l'Accademia ha raggiunto una completezza: ha una straordinaria biblioteca, un archivio ed il Teatro. Anche per uno studente, cosa chiedere di più?

Maggiori informazioni sul Teatro dell'architettura in questo articolo di Fulvio Irace.

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