Recensione al volume «Contro la città usa e getta. Per una cultura del costruire sostenibile»
Nel suo nuovo libro Vittorio Magnano Lampugnani riflette sulla centralità del ruolo del progettista nel materializzare le esigenze di sostenibilità di fronte alla crisi ambientale: chiedere all’architettura e alla città di durare nel tempo è una condizione di resistenza al consumismo.
A un anno dalla sua uscita (nell’edizione originale in tedesco), questo libro di Vittorio Magnago Lampugnani ha già sollevato molte discussioni e si è attirato non poche critiche. Non certo per il tema trattato, che trova tutti d’accordo: bisogna salvare il pianeta. A questo proposito, il mondo dell’edilizia (e quindi quello dell’architettura e dell’urbanistica) è sul banco degli imputati, anzi, è addirittura considerato il principale colpevole, quasi più dei danni ambientali generati da tutti gli altri settori produttivi e dalle guerre che stanno infestando il mondo. A far discutere è il fatto che l’abbia scritto proprio lui, un architetto di formazione italo-tedesca, docente all’ETHZ e in altri prestigiosi atenei, uno studioso e progettista di fama internazionale, autore di importanti pezzi di città, soprattutto in Svizzera e in Germania, e di numerosi libri sulla storia e la progettazione urbana.
Il volume mette il dito su una serie di questioni essenziali. Innanzitutto, è di fondamentale importanza che anche i progettisti di architettura si esprimano sul tema della consapevolezza ambientale e che facciano riflettere su come fare l’architettura e il progetto urbano, senza lasciare questi argomenti a specialisti di altri settori. Il testo di Magnago Lampugnani si distingue peraltro da altri eccellenti libri scritti da progettisti (come ad esempio il Manifesto per una Rivoluzione Territoriale di Laurent Guidetti, TRIBU architecture) proprio per una diversa impostazione concettuale, che tenta di conciliare le aspettative ecologiche con le necessità dell’architettura urbana, con inevitabili difficoltà e senza pericolosi radicalismi. Il libro riprende infatti in chiave ecologica il filo delle continue riflessioni maturate dall’autore negli ultimi quarant’anni sull’architettura della città, sui suoi valori storici e sul tema della permanenza nel tempo degli edifici e degli spazi pubblici. Non nasce dal nulla, non è un’illuminazione improvvisa: «modernità», «durata», «densità», «manutenzione», «storia», «solidità», «costruzione e rivestimento» sono temi legati alla sua formazione e alla sua elaborazione successiva, sia come studioso che come progettista.
Inoltre, non va dimenticato che il libro proviene dalla Svizzera, uno dei paesi più attenti agli aspetti ambientali ed ecologici, dove la Baukultur dal 2018 definisce standard di qualità che abbracciano tutte le attività di modificazione dello spazio abitato; dove dal 2020 vige la Strategia di Suolo Svizzera; dove il protocollo Società a 2000 Watt richiede che si consumi meno energia in modo che la società possa diventare energeticamente sostenibile, e dove si è diffuso il principio secondo cui «non si deve vivere alle spalle delle generazioni future».
Il tono del libro, quasi da manifesto, è a mio avviso il suo aspetto più problematico, anche perché rischia di essere fuorviante proprio rispetto a ciò che vuole dire. Nonostante le apparenze, non è e non vuole assolutamente essere un libro di divieti ma, anche se «non è un testo scientifico» (come scrive l’autore a p. 12), il libro porta avanti i suoi principi teorici relegando le inevitabili eccezioni al ruolo di compromessi negativi dettati dalla realtà. Ma su questi temi è difficile, se non impossibile, formulare e applicare un’unica «teoria del tutto». Come ha fatto notare lo stesso autore in uno dei capitoli più importanti («Necessario ampliamento del campo di osservazione», pp. 47-48), la realtà è complessa, è fatta di casi particolari e bisogna evitare interpretazioni equivoche e riduttive, come egli stesso ha ben mostrato di fare nella sua attività professionale e di ricerca teorica. Quindi, i «precetti», le «buone intenzioni» e anche i «divieti», se presi a uno a uno, sono inconfutabili, ma messi insieme descrivono un quadro generale che rischia di impedire anche l’ordinaria manutenzione. La famosa teoria del «caso per caso» di rogersiana memoria, una delle poche formulazioni teoriche del XX secolo ancora attuali, invita i progettisti a ragionare a fondo senza preconcetti, con competenza e buon senso, su ogni singolo caso. Questa rimane ancora oggi uno dei fondamenti dell’attività di progettazione, anche se di sempre più difficile applicazione.