Au­to­fo­cus – Si­mo­ne Bos­si

Nel 1960 Fernand Pouillon scriveva: «L'illustrazione del libro d'architettura appartiene oggi ai fotografi. Le riviste contemporanee, che pure hanno a disposizione i disegni originali […], preferiscono la fotografia». Sessant'anni dopo è ancor più evidente come quest'arte abbia plasmato lo sguardo sull'architettura: se la realizzazione di un progetto è suggellata proprio dal momento in cui se ne scattano le fotografie, i rendering non sono altro che “previsioni” di fotografie, fotografie dal futuro. In un territorio ristretto come la Svizzera italiana è allora interessante capire chi sono i fotografi che guidano il nostro sguardo sul panorama costruito. Abbiamo posto loro cinque domande, sempre le stesse, per dare conto delle prospettive di ciascuno sul proprio mestiere.

Data di pubblicazione
24-06-2020

Come ha iniziato a occuparsi di fotografia d'architettura?
Sono cresciuto osservando il duro lavoro di mio padre come costruttore, affascinato dal suo intenso contatto con la realtà e dal modo in cui "possedeva" l'edificio fino al suo completamento. Lo seguivo spesso e mi godevo tutti quegli spazi grezzi, vuoti e nudi; questi luoghi a volte erano freddi e odorosi di polvere, ma c'erano alcuni momenti, al mattino presto o alla fine della giornata, nei quali la luce era in grado di infiltrarsi silenziosamente, rivelando una attraente calma spaziale.
Successivamente ho studiato architettura a Milano e Siviglia e dopo cinque anni passati a lavorare come architetto tra Italia, Svizzera e Paesi Bassi ho deciso di dedicarmi interamente alla fotografia.
Non ho mai frequentato un corso di fotografia, sono un fotografo autodidatta. È stata una transizione spontanea dai miei studi di architettura. Durante gli ultimi anni universitari, ho avuto l'opportunità di seguire uno stimato fotografo di architettura a Milano, dove ho capito che quello del fotografo sarebbe stato un lavoro duro ma nobile e interessante come quello dell’architetto. Non c'è stato quindi per me un percorso convenzionale: i miei interessi in momenti specifici rendono tuttora la mia formazione un percorso piuttosto spontaneo, senza alcuna limitazione. Questo processo ha probabilmente mantenuto vivi nel mio approccio una sorta di libertà e un costante bisogno di capire, sperimentare e provare da solo, saggiando l'architettura nel suo vero contesto, percependone i diversi momenti di luce, temperatura e atmosfera in un momento specifico o in una particolare stagione.

Con quali architetti collabora più spesso? Ci racconterebbe un aneddoto legato a uno di loro?
Lavoro principalmente per architetti e sempre più spesso con editori. Si tratta di studi di progettazione europei ma non solo: spesso le commissioni prevedono lunghi viaggi intercontinentali. I progetti possono essere di varia scala e natura, ma ciò che trovo importante è l'affinità tra le parti, perché le foto hanno il ruolo di rivelare simultaneamente l’anima dell'architetto e quella del fotografo. Esse ci raccontano certamente qualcosa che riguarda il progetto, ma per quanto mi concerne ci parlano anche e soprattutto di chi siamo. Il risultato finale è fortemente influenzato da questo fatto.
Le storie da raccontare e i ricordi sono tanti, cosi come tutte quelle fotografie mai scattate ma che inevitabilmente si sono radicate nel mio immaginario. Ho iniziato ad apprezzare il viaggio nella sua condizione più ampia ed intera, trovando la ricchezza nei contrasti. Cosi mi sono ritrovato a lavorare in piena notte a New York – sperando in un breve momento di tregua dal flusso costante della città che non si ferma mai – così come in mezzo al silenzio più schiacciante delle cime del Nepal, raggiungendo il progetto di un dormitorio per giovani monaci buddhisti in un lento cammino di 5 giorni, tra fango, animali e vento, e la natura più estrema.

Secondo lei la fotografia d'architettura ha un modo diverso di approcciarsi ai suoi soggetti rispetto alla fotografia tout court? Se sì, quali sono le differenze?
Se intendiamo la fotografia come veicolo di lettura e non come fine ultimo direi di sì. La fotografia è un ottimo strumento per fissare diverse realtà, e tra queste anche l’architettura. Per quanto mi riguarda, sono molto interessato a valorizzare l’esperienza personale e soggettiva. Se ci fosse un’altra persona ci sarebbero altri occhi. Credo sia molto più efficace e veritiero usare un punto di vista personale amplificando la conoscenza di se stessi invece che cercare di dare un’impossibile lettura oggettiva. Mi affascina il fatto che quello che sentirò e cercherò di trasmettere molto probabilmente verrà letto in altra maniera. Rispetto al mio lavoro, ogni persona apre un proprio livello di lettura, e questo aspetto lo trovo molto interessante. Detto ciò, certamente la propria educazione e le proprie esperienze rendono più o meno sensibili i nostri occhi allo spazio architettonico e alle sue sottili variazioni di luce, in grado di essere rivelate solo attraverso un cammino profondamente lento, a una velocità ridotta.

«Sono affascinato da tutto ciò che trasforma un luogo in uno spazio. È un processo introspettivo in cui provo a localizzarmi e a capire come percepisco l'atmosfera»

La chiamano per fotografare un edificio. In che modo si approccia al soggetto? Cosa cerca, cosa le interessa mostrare?
Non mi interessa semplicemente “descrivere” un progetto di architettura. Mi affascina molto capire quali sono le sensazioni che posso provare in uno spazio e partire da qui, approfondendole attraverso la macchina fotografica, lavorandoci sopra. Sono affascinato da tutto ciò che trasforma un luogo in uno spazio. Ho sempre trovato interessante come eventi semplici possano creare atmosfere intense, trasformando l'ordinario in qualcosa di magico. Probabilmente è un processo introspettivo in cui provo a localizzarmi e a capire come percepisco l'atmosfera. Penso che questo approccio sia libero e spontaneo e, attraverso una narrazione per frammenti, è in grado di rivelare sensazioni di puro spazio nelle immagini, libere di essere interpretate a modo proprio da chi guarda. Mi piace cercare la luce ma non ho paura di rivelare l'ombra.

Tra le fotografie che ci propone, le chiederei di sceglierne una che le sembra particolarmente riuscita e commentarla. Cosa mostra e perché le sembra che questa fotografia funzioni?
È una bella domanda, apparentemente semplice, o addirittura per alcuni tecnica magari, alla quale preferisco rispondere in termini generali. Per quanto mi riguarda, credo che in generale non ci sia miglior foto di una capace di sollecitare in noi nuove profonde domande, anziché gridare risposte; una foto che sfugge, capace di non esaurirsi, di non essere mai completamente compresa. Una buona fotografia è per me tale quando sceglie intelligentemente di “non dire”, lasciando quello spazio bianco nelle mani di chi la guarda.

Simone Bossi (Varese, 1985) è un fotografo con formazione da architetto che attualmente vive e lavora a Milano. In seguito agli studi di architettura a Milano e a Siviglia e dopo aver lavorato per cinque anni come architetto in diversi paesi – tra cui l’Italia, la Svizzera e l’Olanda –, ha iniziato a dedicarsi interamente alla fotografia. Come fotografo autodidatta svolge costantemente ricerche personali oltre a incarichi su commissione, lavorando sia su pellicola che in formato digitale. Attraverso le sue immagini cerca di rivelare le sensazioni e le atmosfere proprie di ogni spazio, seguendo un personale processo introspettivo. Il suo lavoro è regolarmente pubblicato da tutti i principali siti web e dalle riviste di architettura più importanti; viaggia e fotografa per architetti ed editori in tutto il mondo.

 

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