Au­to­fo­cus – Gior­gio Ma­ra­fio­ti

Nel 1960 Fernand Pouillon scriveva: «L'illustrazione del libro d'architettura appartiene oggi ai fotografi. Le riviste contemporanee, che pure hanno a disposizione i disegni originali […], preferiscono la fotografia». Sessant'anni dopo è ancor più evidente come quest'arte abbia plasmato lo sguardo sull'architettura: se la realizzazione di un progetto è suggellata proprio dal momento in cui se ne scattano le fotografie, i rendering non sono altro che “previsioni” di fotografie, fotografie dal futuro. In un territorio ristretto come la Svizzera italiana è allora interessante capire chi sono i fotografi che guidano il nostro sguardo sul panorama costruito. Abbiamo posto loro cinque domande, sempre le stesse, per dare conto delle prospettive di ciascuno sul proprio mestiere.

Data di pubblicazione
22-07-2020

Come ha iniziato a occuparsi di fotografia d’architettura?
La transizione dalla figura dell’architetto a quella del fotografo è avvenuta in modo progressivo grazie ad una ricerca personale in continuo divenire. Il primo vero approccio alla fotografia risale agli anni in cui frequentavo l’Accademia di architettura. In origine ero confrontato maggiormente con una visione che mettesse l’uomo al centro del suo contesto urbano, utilizzando l’architettura come una “quinta teatrale”. Dopo aver lavorato per diversi anni negli studi di architettura in Svizzera e di paesaggio in Francia, ho deciso di dedicarmi interamente alla fotografia, presentando l’architettura come vera protagonista dei miei scatti.

Con quali architetti collabora più spesso? Ci racconterebbe un aneddoto legato a uno di loro?
La mia attività attualmente si divide tra Svizzera, Francia e Italia. In tutti questi anni ho avuto la fortuna e il piacere di collaborare con diversi architetti. Aeby Perneger & Associés, Bianchimajer, DF_DC, Durisch + Nolli, Lorenzo Guzzini, OVO atelier d'architecture, Tocchetti e Pessina sono solo alcuni studi con cui collaboro spesso.
Un incontro importante è stato quello con l’architetto Attilio Panzeri, con cui è nata fin da subito una buona intesa, in quanto anche lui grande appassionato di fotografia. Colpito dalla qualità del suo lavoro mi presentai una mattina nel suo studio, senza appuntamento. Ricordo ancora la calorosa accoglienza che mi riservò pur non conoscendomi. Mi trovai di fronte una persona di cuore, colta, appassionata del suo lavoro e con una considerevole fiducia nei giovani. Da quel giorno iniziò il nostro sodalizio lavorativo, ma soprattutto nacque una grande amicizia.

Secondo lei la fotografia d'architettura ha un modo diverso di approcciarsi ai suoi soggetti rispetto alla fotografia tout court? Se sì, quali sono le differenze?
In generale parto dall’idea che, prima di essere fotografo, mi reputo un grande osservatore della realtà che mi circonda. Io ho avuto la fortuna di avere dei professori che mi hanno stimolato a viaggiare scoprendo il mondo attraverso l’esperienza personale. I miei studi in architettura mi hanno trasmesso sicuramente delle nozioni che hanno contribuito a facilitare il mio approccio a questo tipo di soggetto, però è anche grazie allo stretto rapporto con le altre discipline artistiche – come la danza, la musica, il cinema – che ho potuto sviluppare una certa sensibilità. Nella vita come nel mio lavoro ho sempre seguito il linguaggio universale dell’emozione in quanto fondamento di tutta la comunicazione.

«Come la musica non è fatta solo di suoni ma anche di silenzi, allo stesso modo anche la fotografia necessita di vuoti da interpretare»

La chiamano per fotografare un edificio. In che modo si approccia al soggetto? Cosa cerca, cosa le interessa mostrare?
Quando mi commissionano un nuovo lavoro, la prima cosa che faccio è prendermi il tempo necessario per contemplare il luogo. Attraverso l’esperienza dello spazio, ricerco sensazioni capaci di evocare qualcosa dentro di me. L’eterno dialogo tra luce e ombra è spesso il fattore scatenante. Il mio approccio alla fotografia di architettura è sicuramente poetico, in quanto cerco di suggerire una lettura frammentata, più suggestiva della presentazione diretta della realtà, lasciando ampio spazio all’immaginazione. Così come la musica non è fatta solo di suoni ma anche di silenzi, allo stesso modo anche la fotografia necessita di vuoti da interpretare. In questo modo ognuno di noi può colmare questo vuoto creando a sua volta una propria immagine, continuando il racconto intimo di una storia. Nel mio lavoro aspiro a realizzare scene silenziose che si svolgono al di fuori del tempo, create attraverso atmosfere sospese, quasi sognanti. Lo scopo finale è quello di comunicare sensazioni ed emozioni, interpretando la realtà attraverso la mia esperienza e la mia sensibilità.

Tra le fotografie che ci propone, le chiederei di sceglierne una che le sembra particolarmente riuscita e commentarla. Cosa mostra e perché le sembra che questa fotografia funzioni?
Riprendendo il discorso affrontato in precedenza, vi propongo un’ immagine che ho realizzato nel 2019 nei pressi dell’Isola Comacina. Si tratta di un dettaglio di Villa Molli, realizzata dal giovane architetto Lorenzo Guzzini. Una fotografia dove ritroviamo alcuni elementi fondamentali: la materialità, un taglio di luce, una presenza umana. Una scena essenziale, malinconica, che si rifà ad atmosfere quasi metafisiche, lasciando spazio all’interpretazione soggettiva. Il mio modo di fotografare nasce con l’intenzione di creare un forte legame emozionale con il fruitore.

Nato a Lugano nel 1982, Giorgio Marafioti ha frequentato l’Accademia di architettura di Mendrisio, dove si è laureato nel 2008 con Luigi Snozzi. Nel 2010 si è trasferito a Parigi, dove ha lavorato come architetto per il paesaggista Michel Desvigne, collaborando con alcuni dei più grandi studi internazionali di architettura. Nel 2013, dopo un’intensa attività professionale, ha deciso di reinventarsi e si è consacrato a tempo pieno alla fotografia. Lo stesso anno ha frequentato la scuola EFET, conseguendo il diploma in fotografia. In seguito ha iniziato a svolgere i primi mandati fotografici su incarico di studi d'architettura. Nel 2014 è entrato a far parte del team di assistenti fotografi dello storico Studio Harcourt di Parigi, apprendendo i segreti dell’arte del ritratto attraverso l’uso della luce continua. Fino al 2018, oltre a realizzare fotografie di architettura tra Svizzera, Francia e Italia, per conto di Harcourt ha seguito diversi servizi fotografici nel mondo. Nel 2019 è ritornato a Lugano e ha aperto il proprio studio-atelier, continuando con l’attività fotografica su commissione e la sua ricerca personale. I suoi lavori sono pubblicati regolarmente su riviste di settore.

 

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