Au­to­fo­cus – Mat­teo Arol­di

Nel 1960 Fernand Pouillon scriveva: «L'illustrazione del libro d'architettura appartiene oggi ai fotografi. Le riviste contemporanee, che pure hanno a disposizione i disegni originali […], preferiscono la fotografia». Sessant'anni dopo è ancor più evidente come quest'arte abbia plasmato lo sguardo sull'architettura: se la realizzazione di un progetto è suggellata proprio dal momento in cui se ne scattano le fotografie, i rendering non sono altro che “previsioni” di fotografie, fotografie dal futuro. In un territorio ristretto come la Svizzera italiana è allora interessante capire chi sono i fotografi che guidano il nostro sguardo sul panorama costruito. Abbiamo posto loro cinque domande, sempre le stesse, per dare conto delle prospettive di ciascuno sul proprio mestiere.

Data di pubblicazione
02-09-2020

Come ha iniziato a occuparsi di fotografia d'architettura?
È iniziato tutto per passione circa 15 anni fa. Iniziai a fotografare edifici e scorci urbani che mi colpivano. Questo, senza un concetto preciso. Ciò mi ha permesso di sperimentare in totale libertà, sia tecnica che espressiva. Poi sono nati alcuni progetti personali con un loro preciso percorso e struttura. In seguito, la conseguenza naturale è stata quella di propormi ad architetti, light designer e industrie del settore per fotografare le loro realizzazioni.

Con quali architetti collabora più spesso? Ci racconterebbe un aneddoto legato a uno di loro?
Sono molti, ognuno con le sue caratteristiche umane e creative. Citarne alcuni sarebbe riduttivo. Più che un aneddoto in particolare, vorrei, oltre che esprimere la mia riconoscenza per la loro fiducia nel mio lavoro, dire che i loro approcci con me, fotografo, variano moltissimo. C’è chi mi lascia totale libertà di espressione (ovviamente entro i confini dettati dall’uso che faranno delle mie fotografie) e al contrario chi è molto preciso sul tipo di immagini che vuole da me. Tra i due estremi, non ce n’è uno per cui la realizzazione del servizio fotografico sia più semplice o più complessa.

Secondo lei la fotografia d'architettura ha un modo diverso di approcciarsi ai suoi soggetti rispetto alla fotografia tout court? Se sì, quali sono le differenze?
Amo definire la fotografia di architettura una fotografia lenta. Mi prendo il tempo di osservare e sentire le atmosfere che un oggetto architettonico o un paesaggio urbano mi trasmettono. Deve nascere un rapporto tra me e il soggetto. Un dialogo che trova la sua espressione nell’immagine fotografica. Saper attendere è essenziale. Un edificio, un interno, uno spazio urbano, assume differenti forme, umori, espressioni, a dipendenza della luce e dell’ombra che lo pervade. Non vi è mai una sola fotografia ottimale di un soggetto. La scelta che ne scaturisce è legata al rapporto che nasce tra me e la scena in cui sono immerso. Non a caso, un altro soggetto che amo fotografare è la natura. Vi sono delle similitudini con la fotografia di architettura.

«Amo definire la fotografia di architettura una fotografia lenta. Mi prendo il tempo di osservare e sentire le atmosfere che un oggetto architettonico o un paesaggio urbano mi trasmettono»

La chiamano per fotografare un edificio. In che modo si approccia al soggetto? Cosa cerca, cosa le interessa mostrare?
L’approccio è molto diverso a dipendenza se sto fotografando per un cliente o per un mio progetto personale. Nel primo caso vanno assolutamente prese in considerazione le esigenze del committente. Assieme si fa un sopralluogo e ci si prende il tempo di scambiare tutte le considerazioni utili. Mi piace porre domande, capire quello che il cliente desidera. A ciò aggiungo poi le mie percezioni personali. Se invece si tratta di un mio lavoro di ricerca, ciò che rivelo tramite la fotografia appartiene esclusivamente alle mie sensazioni.

Tra le fotografie che ci propone, le chiederei di sceglierne una che le sembra particolarmente riuscita e commentarla. Cosa mostra e perché le sembra che questa fotografia funzioni?
Scegliere delle immagini per un portfolio è senza dubbio uno degli aspetti più complessi e cruciali nel lavoro di un fotografo. Ognuna delle fotografie proposte ha una sua storia, un suo vissuto. Citarne una in particolare mi risulta difficile. Anche perché, trattandosi di, appunto, un portfolio, ogni immagine scelta ne è parte integrante, interdipendente dalle altre. È un breve racconto, una sorta di haiku di 15 immagini, che hanno senso come insieme.

Matteo Aroldi si occupa prevalentemente di soggetti e temi legati all’architettura, al paesaggio urbano e alla natura. Ha al suo attivo numerose esposizioni personali e collettive in Europa e Giappone. I suoi lavori fanno parte di collezioni pubbliche e private. È membro di Visarte (Associazione professionale svizzera delle arti visive) e di SBF (Fotografi professionisti e videomaker svizzeri).

 

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