494 Bau­haus al fem­mi­nile

Intervista Anty Pansera

Date de publication
20-03-2023

Anty Pansera, studiosa milanese di arti figurative e design, è anche curatrice e autrice di numerosi volumi che hanno dato un ampio contributo alla cultura del progetto. Nel 2020 è stata insignita del Compasso d’Oro alla carriera. Nel 2010 fonda – con Patrizia Scarzella, Luisa Bocchietto e Loredana Sarti –DcomeDesign, associazione di cui è presidente e che promuove e diffonde i temi della progettualità femminile. Nelle sue ricerche si è occupata della Triennale di Milano, a cui ha donato molti volumi della sua biblioteca personale che costituiscono oggi il Fondo Anty Pansera. Ha pubblicato di recente 494 Bauhaus al femminile, importante indagine storica sulle studentesse, le progettiste e le docenti della prestigiosa scuola tedesca.

FA Triennale di Milano festeggia nel 2023 il centenario della fondazione, e la rivista Archi dedica questo numero ai rapporti tra questa istituzione e la Svizzera. Quali sono stati i principali eventi alla Triennale, in cui la Confederazione elvetica ha dato un contributo, attraverso mostre, padiglioni nazionali, partecipazioni individuali?

AP Ho trovato qualcosa relativo ai rapporti tra Svizzera e Triennale di Milano, fino al 1968, ovvero la Triennale del Grande Numero, importantissima. La storia della Triennale si può dividere in due parti: gli anni iniziali delle Biennali di Monza (1923-1930) e gli anni in cui si trasferisce a Milano, nel Palazzo dell’Arte. È dunque nella II Biennale del 1925, a Monza, la prima volta che si ritrova la presenza della Svizzera: è una sezione per così dire ufficiosa, organizzata dal gruppo curato dall’artista e mecenate svizzera Hélène de Mandrot che, nella sala 26, allestisce una sala di lettura. È interessante che sia una donna a occuparsene: de Mandrot apparteneva alla nota famiglia ginevrina Revilliod de Muralt; il padre è un collezionista di porcellane d’arte dell’estremo Oriente; nel 1906 si sposa con Henri de Mandrot, erede del castello di La Sarraz, ora patrimonio culturale svizzero. Nel 1920 è vedova, ha solo 53 anni, e allestisce nel castello di La Sarraz una struttura di accoglienza per ospitare artisti. Crea un laboratorio-scuola di ricamo, legato alle arti decorative e fonda anche L’Œuvre, associazione francofona con lo scopo di favorire la collaborazione tra artisti. Nel 1924 Hélène si stabilisce a Parigi, muovendosi come artista e mecenate, e collaborando con noti architetti dell’epoca: fa riqualificare il suo appartamento di Parigi a Pierre Chareau, e ha rapporti stretti anche con Le Corbusier. Realizza mobili, ceramiche, vetro, e partecipa con il gruppo La Sarraz alle Biennali di arti decorative di Monza del 1925 e del 1927. Un altro fatto notevole: nel 1928 nel suo castello di La Sarraz, ha luogo il primo congresso dei CIAM. La morte di Mme de Mandrot nel 1948 pone fine alle attività della Maison des Artistes. E solo nel 1998 le viene dedicata una mostra, a Losanna.

FA Cosa succede nelle Biennali e Triennali successive?

AP Ritroviamo presenze svizzere anche nella III Biennale, curata da Federico Vital e dallo storico dell’arte svizzero Daniel Baud-Bovy (1870-1958) e, nel 1936, Vital è affiancato anche da Max Bill per la VI Triennale. Nella VII, nel 1940, è un certo H. Kienzle a curare l’esposizione: siamo in tempo di guerra ed è una Biennale in tono minore, pochi paesi sono presenti. Si passa poi alla VIII Triennale curata da G.E. Magnat e Charles Schopfer: è la Triennale della Ricostruzione, a Milano si presenta il QT8 (il quartiere Triennale 8, appunto). Per la sezione svizzera, il curatore ginevrino Charles Schopfer presenta mobili industrializzati, studiati e perfezionati per rivolgersi alle classi sociali popolari: sono progetti attenti sia agli aspetti economici sia dal punto di vista delle qualità tecniche e artistiche. Nell’allestimento sono presenti mobili di origine svizzero-tedesca e pezzi in ceramica, oreficeria e arte grafica, di origine svizzera francese.

Per la IX Triennale (1951), il curatore elvetico è ancora Max Bill, insieme ad Alfred Roth. Nel 1954, la sezione svizzera ha un progetto di allestimento di Michel Peclard, noto designer, grafico, scultore anche molto citato per il suo design minimalista ante-litteram: il suo sgabello è entrato nella storia del design. Significativa è l’edizione del 1960, sul tema della casa e della scuola. Curatori per la Svizzera sono Georges Brera e Paul Walthenspuhl che presentano un lavoro sulla scuola moderna, usando il mezzo cinematografico, fatto insolito per quegli anni: un film proiettato su degli schermi sincronizzati, per analizzare gli ambienti scolastici e anche gli aspetti dell’insegnamento: la Svizzera francese presenta un ambiente urbano a grande densità edilizia, la Svizzera tedesca mostra una scuola media cantonale in un ambiente urbano più diradato, il Ticino, invece, espone una scuola sulle Prealpi.1 Interessante è l’uso dello strumento audiovisivo in modo documentario, ancora poco usato all’epoca.2

Nel 1964, la Triennale del Tempo Libero ha come curatore e commissario per la Svizzera Hans Fischli (1909-1989), architetto, pittore e scultore di Zurigo, che studia al Bauhaus di Dessau fino al 1929, dove conosce Josef Albers, Kandinskij, Oskar Schlemmer. L’allestimento si compone di due ambienti comunicanti, situati a quote diverse e con differenti altezze, che formano un ambiente unico e uniforme. Il tema del tempo libero viene trattato criticamente in una pubblicazione in lingua francese, tedesca, italiana e inglese, e sul tavolo compare tutta la documentazione relativa al significato del tema, attraverso le attività e le tradizioni degli enti e delle organizzazioni competenti. In particolare vengono mostrati, attraverso progetti, fotografie, modelli e testi, i centri ricreativi realizzati nella città di Zurigo e quelli della Pro Juventute.

FA La Triennale del 1968 è quella del Grande numero: qual è il contributo degli Svizzeri?

AP Il commissario è nuovamente Alfred Roth, con Felix Schwarz, Rolf Gutmann, Lucius Burkhardt e Frank Gloor. Non vi è nessuna presenza femminile. La sezione svizzera occupa una porzione circolare dell’edificio di Muzio, lunga 17 metri e suddivisa in spazi comunicanti grazie a delle pareti divisorie in legno. Il tema del grande numero viene declinato attorno al problema delle abitazioni e all’aumento della popolazione. Le soluzioni abitative si focalizzano sui processi di industrializzazione: prefabbricazione per l’edilizia e produzione in serie per l’arredamento e gli oggetti d’uso. Sorge dunque l’interrogativo sui processi di questo tipo e sulle loro dimensioni: sono destinati a eludere la libertà di scelta del progettista e, di conseguenza, del pubblico? La mostra sembra dimostrare come la libertà non solo sia garantita, ma anzi sia rinforzata dai processi seriali, sia per la possibilità di scegliere in una vasta gamma di sistemi diversi, sia per l’opportunità di ottenere un numero praticamente illimitato di variazioni attraverso la diversa combinazione degli elementi in serie.

FA Vorrei ora parlare del suo ultimo libro edito da Nomos, 494 Bauhaus al femminile: sono 475 le studentesse su circa 14.000 iscritti! Molte delle «ragazze» del Bauhaus hanno subìto il «sistema Bauhaus», sia come studentesse sia come docenti (erano solo 11 le donne): Lilli Reich, Gunta Stölzl, Lotte Beese-Stam, Lucia Schulz-Moholy Nagy, Anni Fleisschmann-Albers, Gertrud Arndt, Otti Berger, Marianne Brandt, Marguerite Friedlaender-Wildenhain, solo per ricordare le più emblematiche. Tra queste, la tedesca Grete Reichard-Wagner (1907-1984), attiva al laboratorio di tessitura e all’officina di falegnameria del Bauhaus dal ’26 al ’31: sarà lei a tessere l’innovativa stoffa utilizzata da Breuer per la sedia Wassily; il valore di Grete sarà poi riconosciuto e, nel 1940, verrà insignita di una medaglia d’oro alla Triennale di Milano per i suoi disegni di tessuti industriali. Quanto queste donne talentuose sono state spesso frenate o addirittura osteggiate dai Maestri e dai colleghi, nonostante l’uguaglianza di genere fosse proclamata nello statuto del Bauhaus?

AP Le donne del Bauhaus erano senz’altro emancipate per l’epoca, ma quando poi si sposavano davano la precedenza al marito, fornivano idee per il lavoro, ma alla fine restavano sostanzialmente nell’ombra. Erano tutte di provenienza borghese, piene di grandi aspettative di emancipazione, ma restavano spesso deluse: il Manifesto del Bauhaus dava in teoria loro molto spazio, ma le donne pagavano una retta maggiore rispetto agli uomini ed erano quasi tutte inserite nel laboratorio di tessitura. Il Bauhaus aveva commissioni da fuori e questo laboratorio non solo produceva innovazione ma vendeva molto bene i tessuti, portando fondi alla scuola: una parte del ricavato andava alla scuola, una parte avrebbe dovuto arrivare alle progettiste, ma questo non sempre avveniva. Anche le ebree erano moltissime, provenivano da famiglie colte e spesso agiate, ma molte sono morte nei campi di concentramento o sotto i bombardamenti; le poche che sono riuscite a andare in Palestina non si sono fermate lì, ma sono partite per gli Stati Uniti o altre mete.

Nel mio libro, scritto durante il lockdown, mi sono cimentata a cercare queste storie attraverso i molti libri e la documentazione che ho trovato: è un numero enorme di ragazze, alcune sono svizzere. In appendice al libro, un lavoro di ricerca interessante è stato realizzato da Mariateresa Chirico: una tabella «in sintesi» che raccoglie i dati principali delle vite di queste donne – per es. il nome da nubile, poi da sposata – ed è un indispensabile strumento per leggere il testo. Ho trovato importante aver individuato così tante donne, anche se di molte c’è quasi solo nome e cognome, e altre non sono neanche presenti negli archivi del Bauhaus. Ma spero che questo lavoro possa porre le basi per successive ricerche.

FA C’è un filo rosso tra le donne del Bauhaus – tedesche, svizzere, italiane che siano – e le generazioni successive? Quale eredità e quali semi hanno lasciato alle ragazze di oggi?

AP Anche oggi le professioniste affermate, con un proprio studio, sono pochissime: Patricia Urquiola, Elena Salmistraro, Cristina Celestino, giusto per fare qualche nome. Sto facendo ricerche per capire che fine hanno fatto le designer, tra Compassi d’oro e studi di progettazione aperti: la grande maggioranza delle progettiste non riesce ad affermarsi, a emergere. All’epoca, Lucia Moholy Nagy, fotografa del Bauhaus, deve persino intra­prendere le vie legali per recuperare i suoi materiali, perché Gropius, quando si trasferisce in America, porta via tutto l’archivio. C’è ancora molto da fare anche oggi. La Triennale sta preparando una mostra su Gae Aulenti, ma per esempio una figura come Raffaella Crespi non ha ancora avuto il giusto riconoscimento. Le cose sono cambiate come presenza all’Università, e a partire dagli anni Ottanta-Novanta le ragazze sono circa il 50%. Ma ancora poche di loro riescono a emergere professionalmente.

Nel 2010 ho cofondato l’associazione «DcomeDesign» che si occupa di progettualità al femminile: organizziamo eventi, mostre, ricerche su progettiste donne in campo internazionale. Per esempio a Torino abbiamo fatto la mostra La mano, la mente, il cuore ma organizziamo anche degli eventi digitali, come webinar on line. Abbiamo attivato dei progetti in Senegal e in Afghanistan, interessanti ma complessi dal punto di vista operativo e organizzativo.

Note

 

1 Per il Ginnasio di Bellinzona di Alberto Camenzind e Bruno Brocchi, cfr. M. Iannello, Architettura e pedagogia. Cantone Ticino 1945-1980, «Archi», 2, 2022, pp. 27-31, note 13 e 15.

 

2 Il film L’école, realizzato da Alain Tanner, fu girato nelle scuole Geisendorf a Ginevra, Freudenberg a Zurigo, Thayngen nel Canton Sciaffusa e nel Ginnasio di Bellinzona. Cfr. M. Iannello, Architettura e pedagogia, cit., nota 13.

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