Cosa vuole es­sere la Scuola?

Note sulla nuova provincia pedagogica

Date de publication
27-12-2022

Da Democrazia ed educazione di John Dewey a Dieci tesi per una scuola democratica di Tullio De Mauro fino alle recenti affermazioni dell’astrofisica Ersilia Vaudo Scarpetta, secondo cui «la matematica salva i nostri figli e la democrazia», è chiaro il ruolo della scuola dal punto di vista dell’istituzione e il valore dell’educazione nella costruzione di una società educante (ed educata, nell’accezione anglosassone del termine). Sono di conseguenza evidenti le ragioni per cui la scuola – e quindi l’educazione in senso lato – sia tornata ad essere il centro di ogni riflessione sull’uguaglianza, le pari opportunità e il futuro di interi paesi.

Quando però ci si chiede quali siano le modalità spaziali che tale visione democratica della scuola implica dal punto di vista della città, i contorni del discorso si fanno spesso labili, nonché variabili da contesto a contesto. Sebbene la nozione di città democratica sembri afferire più alla sfera etica e morale che non a quella spaziale, pare impossibile disgiungere l’esercizio del governo dal luogo in cui esso si sostanzia o quantomeno chiedersi quali siano i legami tra la forma della città e le forme dell’apprendimento. Se la città è – o meglio dovrebbe essere – il luogo della scuola, domandarsi quale possa essere la relazione di reciproca discendenza della struttura spaziale dal concetto di democrazia che ne governa l’organizzazione richiede un’attenta riflessione.

Guardando alla storia della pianificazione urbana, gli edifici scolastici ottocenteschi erano dislocati all’interno della città come elementi in sé riconoscibili e per loro stessa natura capaci di rispecchiare l’istituzione che ospitavano. Ne sono esempi straordinari le scuole di concezione guglielmina di Ludwig Hoffmann a Berlino, quelle di Theodor Fischer a Monaco o ancora le scuole della Milano postunitaria di Camillo Boito. L’edificio per l’istruzione entra a pieno titolo a far parte della costruzione della città borghese, assumendone i principi organizzativi e le logiche insediative: disposto in stretta relazione con la struttura urbana, partecipa alla definizione dell’isolato, divenendone sovente l’elemento di maggior rilievo, secondo un processo che vede gli edifici collettivi di pubblica utilità trasformarsi in veri e propri monumenti urbani. In via Galvani a Milano, Boito opera sulla città a partire dall’edificio. Attraverso la collocazione planimetrica e l’articolazione volumetrica compie infatti una trasposizione all’interno del progetto della dimensione urbana, che si riflette nell’organizzazione spaziale e distributiva: il lungo corridoio a servizio delle aule, con i suoi oltre cento metri di lunghezza, rispecchia, unitamente alla grandiosità dell’atrio d’ingresso passante, la magnificenza dell’istituzione e il suo ruolo civile.

Solo pochi decenni dopo, a partire dagli anni Venti, il Movimento Moderno, con il ripensamento dell’intera compagine urbana e dei suoi rapporti spaziali, individua nella scuola l’elemento pubblico minimo che, insieme alla residenza, organizza le unità di quartiere: la scuola diviene così centro aggregativo e spaziale delle espansioni urbane. Si guardi in tal senso ai modelli insediativi di Ludwig Hilberseimer che, fin da prima del Piano per Dessau,1 riproponendo nei diversi studi uno schema ottenuto per variazioni del medesimo impianto a corpi paralleli, concepisce l’edificio scolastico come istituzione collettiva, collocata all’interno delle aree verdi che strutturano e nelle quali sono immerse le unità di insediamento. Saranno i medesimi rapporti urbani a venir riproposti dallo stesso Hilberseimer a Chicago, dove, nella terra dell’utopia realizzata, avrà modo di ritrovare analoghe relazioni tra dimensione minima dell’insediamento e istituzione scolastica. Il modello insediativo dei sobborghi di Chicago si basava infatti sulla sequenza continua di isolati residenziali, a cui erano associate scuole di quartiere, garantite per ciascun’area di frequenza. Su principi analoghi si organizza il progetto per Islamabad di Konstantinos Doxiadis che, prevedendo una gerarchia delle dotazioni scolastiche in rapporto alle aree residenziali, distribuisce le scuole con capillarità decrescente in base al grado di istruzione, in conformità con il numero di persone servite da ciascun edificio. Ciò permette, applicando il medesimo criterio a tutte le dotazioni collettive, di individuare «nuclei abitativi minori» all’interno della grande città, in accordo con la struttura seriale dei settori che la compongono.2

Tornando al vecchio continente, è Alfred Roth, fin dalla prima edizione del 1950 di The new school. Das neue Schulhaus. La nouvelle école, a presentare la moderna edilizia scolastica alla luce del rapporto tra edificio e città, riferendosi in particolar modo al ruolo della scuola all’interno dell’unità di residenza. Sarà lo stesso Roth a evidenziare come sul fronte dell’edificio, l’esperienza del Moderno, forte delle riforme di Fröbel e Pestalozzi prima e di Steiner, Montessori e molti altri poi, produca un progressivo ripensamento dello spazio scolastico a partire da un rinnovato – e in questo caso certamente democratico – rapporto tra modelli pedagogici e strutture spaziali. Era stato probabilmente Ernst May a Francoforte, con la scuola riformata Hallgarten al Bornheimer Hang, a dare in qualche modo avvio o forse solo a sancire tale processo, in un edificio capace di riassumere il dato urbano e quello architettonico, piena espressione plastica della nuova idea di città che si andava diffondendo in Germania.

A partire da queste esperienze, è attraverso la riflessione sulla scuola che per tutto il Novecento, o almeno fino alla fine degli anni Ottanta, si sostanzia il percorso faticosamente intrapreso dal Moderno di ridefinizione del rapporto tra edificio collettivo e città e che, dal punto di vista architettonico, si assiste, forse più che su ogni altro genere di edificio, a una complessa e ricca sperimentazione tipologica e spaziale: scuole a corte, che reinterpretano, destrutturandolo, il modello degli antichi conventi, scuole a pettine in rapporto con gli spazi aperti e la natura, scuole a padiglioni nonché studi sull’edificio a blocco caratterizzano la produzione novecentesca. L’istituzione e gli edifici che la rappresentano diventano risorse, strumenti e principi di progettazione e pianificazione urbana democratica; il concetto di ambiente come terzo educatore apre la scuola non solo alla città, ma alla comunità intera, innescando una rivoluzione culturale a cui la Svizzera partecipa attraverso censimenti tematici, esposizioni e alcune fondamentali pubblicazioni.3

Dopo le prime sperimentazioni, di cui la mostra Der Neue Schulbau del 1932 rappresenta il prodromo, le successive edizioni del libro di Roth, insieme alla mostra del 1953 al Kunstgewerbemuseum di Zurigo, si affiancano a numerose realizzazioni. Se ne citano qui solo alcune per il loro valore esemplare: innanzitutto il progetto di concorso per la Petersschule a Basilea di Hannes Mayer e Hans Wittwer, raro esempio, almeno per quegli anni, di riflessione sull’edificio a blocco, la scuola Bruderholz di Hermann Baur sempre a Basilea, prototipo in terra elvetica dell’impianto a padiglioni e a seguire il Ginnasio Cantonale di Dolf Schnebli a Locarno o la Schulanlage Loreto a Zug di Walter Schindler. Queste ultime, insieme a molte altre, daranno vita, sulla scorta del progetto di concorso per un complesso scolastico a Rapperswil-Jona di Haefeli Moser Steiger, a uno schema ricorrente, basato sulla simmetria rotazionale4 e la composizione o l’accorpamento di moduli elementari, sull’esempio delle scuole Nagele, rilette alla luce dell’esperienza di Lancy.5

Tra gli anni Cinquanta e Ottanta, i frutti di questa nuova tradizione trovano terreno fertile in Canton Ticino. Qui la militanza politica di un nutrito gruppo di architetti dà vita a una stagione particolarissima che vede la costruzione di numerose scuole capaci di riscrivere il rapporto culturale e spaziale dell’educazione con la società intera.

Se a partire da tali premesse si guarda alla recente edilizia scolastica del Ticino, l’aspirazione democratica che ha mosso le migliori esperienze novecentesche passa nuovamente attraverso i progetti e si sostanzia nelle opere costruite. È stato così durante la seconda metà del Novecento e sembra essere così ancor oggi. Pur in condizioni mutate e con vincoli tecnici sempre più stringenti, i numerosi concorsi indetti negli ultimi anni dimostrano come la risposta collettiva al problema della scuola – dall’esigenza di aggiornare quelle esistenti alla necessità di realizzarne di nuove – vada ricercata nella pratica della costruzione e ancor prima in quella del concorso. È qui, in questo spazio interstiziale, che il progetto di architettura può agire (e agisce) in termini concreti e al contempo ideali.

Dal punto di vista territoriale, la stagione costruttiva che l’edilizia scolastica sta vivendo in Ticino interpreta la struttura insediativa diffusa che caratterizza il cantone, dispiegandosi in modo capillare nucleo per nucleo, in maniera proporzionale al grado di istruzione. Mai come ora la dislocazione delle scuole progettate e costruite negli ultimi anni e delle numerose attualmente in fase di programmazione riflette la gerarchia e l’organizzazione dei bacini abitativi, partecipando alla definizione della struttura di vicinato.

Dal punto di vista urbano, superato il modello ottocentesco, non è più la città a costruirsi attorno o insieme agli edifici per l’istruzione, ma è invece la scuola a riconoscere nella città le possibilità insediative esistenti. I progetti attuali, sia­no essi ampliamenti, riforme di strutture esistenti o nuove costruzioni, operano per innesti, completamenti e sovrapposizioni, secondo una modalità tipica della contemporaneità che, a partire da una condizione incerta seppur consolidata, scopre possibili modalità di relazione con lo spazio urbano, il territorio e il paesaggio. Lo testimoniano non solo i numerosi restauri, risanamenti e adeguamenti di edifici costruiti a partire dagli anni Cinquanta, ma soprattutto i progetti di ampliamento (per estensione, addizione o sopralzo), come alcuni tra quelli qui pubblicati.

Alla luce di tali considerazioni, sembra tuttavia necessario chiedersi quale sia il progetto disciplinare rispetto al quale leggere la produzione recente. Se infatti, come nota Reichlin nel suo compendio sulla provincia pedagogica elvetica, Alfred Roth «con i migliori argomenti di questo mondo […] aveva messo l’edilizia scolastica al servizio del progetto estetico moderno»,6 sarebbe ora doveroso risalire al progetto culturale, finanche estetico, che, attraverso i singoli progetti contemporanei (realizzati e non), traduce in termini architettonici i differenti modelli pedagogici, innestandoli sugli standard sociali, ambientali ed economici correnti.

Tra la prima e la seconda metà del Novecento, l’affermazione del primato dell’architettura moderna (forma, linguaggio, estetica ecc.) aveva trovato il suo principale campo di interesse e applicazione nell’edilizia scolastica, anche per mezzo del sapiente impiego delle istanze educative, sociali, igieniste ecc. a servizio della nuova architettura. Oggi, viceversa, in molti casi sembra evidente il rischio del contrario; sembra cioè che la ragione architettonica che guida i progetti la si stia facendo derivare dai vincoli tecnici o dalla mera trascrizione delle tendenze pedagogiche, condizione che porterebbe a perdere di vista la riflessione sul rapporto tra edificio, città e territorio che invece i progetti per Stabio, Losone, Riva San Vitale o Morbio Inferiore di quel periodo erano capaci di interpretare.

Per riflettere sul progetto culturale in termini strettamente architettonici, alla luce delle recenti tendenze e quindi attraverso le opere, serve forse guardare alla Svizzera interna e in particolare ai Grigioni. La scuola di Paspels di Olgiati, quella di Bearth & Deplazes a Vella o ancora la Volta Schulhaus di Miller & Maranta a Basilea, insieme a numerose altre realizzazioni – non solo di edifici scolastici – hanno progressivamente dato forma a un’estetica del blocco astratto, spesso realizzato in calcestruzzo a vista, casa tra le case, capace di istituire una relazione di carattere ieratico con l’intorno costruito e il paesaggio naturale.

Pur ammettendo che la predilezione per questo modello abbia favorito la sua progressiva sostituzione a quelli che il Movimento Moderno e le successive elaborazioni avevano promosso, si potrebbe ipotizzare che l’adesione sempre più frequente alla matrice estetica minimale si sia trasformata nella risposta prevalente che gli edifici scolastici hanno contribuito a fornire alle sempre più stringenti misure tecniche di efficienza energetica e, in parallelo, alla richiesta di nuove configurazioni spaziali (e formali), capaci di soddisfare un'elevata qualità di utilizzo. Sul fronte del progetto si assiste a una propensione per impianti chiari, quasi elementari, ridotti ai minimi termini – modesti,7 per usare un termine caro alla critica – nonché coerenti con un linguaggio che per lo più opera in direzione elementarista. Non si può dimenticare inoltre che tale produzione si sia diffusa in Ticino passando dagli atelier dell’Accademia di Mendrisio e, per via di questa ormai ventennale eredità, stia oggi confermando, seppur con le debite eccezioni, alcuni tratti del moderno ticinese: i casi migliori rivelano, infatti, seppur sotto mutate vesti, la tenace volontà di istituire una relazione precisa tra edifico e luogo.

A questo punto sarebbero necessarie due considerazioni: la prima legata alle configurazioni spaziali interne, la seconda relativa al linguaggio e, di conseguenza, all’estetica che ne deriva. A queste si dovrebbe aggiungere una riflessione sulle alternative tipologiche, o meglio distributive,8 che la pedagogia contemporanea auspica al fine di promuovere una «didattica attiva centrata sullo studente» e sulle sue specificità:9 aula di classe di grandi dimensioni composta da ambiti differenziati o aggregata a spazi aggiuntivi, raggruppamento in cluster, atri diffusi e, in parallelo, la «progressiva riscoperta dello spazio intermedio, dello spazio tra gli spazi, senza alcuna specifica funzione se non quella di essere disponibile all’uso flessibile e dinamico».10

Tornando agli edifici, tutto ciò si traduce in quell’unico tipo a cui si accennava: il blocco, declinato nella versione compatta – di volta in volta con distribuzione a pianta centrale, seriale o aggregazione rotazionale – e in quella del blocco allungato. I risultati degli ultimi concorsi testimoniano tale tendenza, confermata anche dagli edifici realizzati. Se la stagione precedente definiva il rapporto tra edificio e territorio costruendo ambiti urbani, i progetti recenti, attraverso gesti minimi, parte per così dire del corpo del progetto, operano nella medesima direzione, articolando la conformazione volumetrica dell’edificio; in questo modo il blocco compatto nelle sue differenti configurazioni diviene elemento architettonico e urbano. È così per la scuola dell’infanzia a Stabio di Giraudi Wettstein, oggetto solitario e plastico, conformato per relazioni urbane e paesaggistiche a distanza. Una tensione analoga guida il progetto della scuola dell’infanzia a Morbio Inferiore di Jachen Könz: un solo tetto, tetto tra i tetti, riconduce ad unità la distribuzione fluida di ambienti disposti serialmente. Seppur sperimentando una tipologia differente, sulla scorta degli studi degli anni Sessanta sulla simmetria rotazionale, anche Canevascini Corecco a Gordola impiegano una grande copertura a marcare l’orizzontalità dell’impianto. In tutti questi esempi, la compattezza dei volumi, il marcato accento dato alla copertura si combinano poi con un’attenta disposizione di elementi per certi versi secondari (muri di recinzione, sistemazioni esterne, piccoli padiglioni), in grado però di definire il ruolo urbano dell’edificio e di chiarirne così il rapporto con la città.

Lo stesso vale anche quando il blocco si sviluppa in linea. In molti casi lo troviamo associato a uno spazio esterno recintato che definisce l’ambito del progetto: la scuola dell’infanzia ad Arosio di Pietro Boschetti lo mostra in maniera perentoria con un alto muro che incorpora il giardino, come anche il progetto, qui pubblicato, per il centro scolastico di Taverne-Torricella di Aldo Celoria, in cui un muro preesistente, interpretato come basamento del nuovo edificio, diventa strumento di ricomposizione tra oggetti urbani differenti. A Tegna, la scuola elementare di Baserga Mozzetti, seppur nella medesima direzione, opera in modo ancor più minimale: la collocazione dell’edificio al limite dell’isolato, una pavimentazione, un muro di cinta e uno sbalzo sono sufficienti per mostrare il carattere pubblico dell’edificio e istituire una relazione diretta con il nucleo.

Sia scuole sia parti di città, luoghi urbani appunto, mai solo scuole. Urbanità e teatralità, astrazione e misura, introspezione e autonomia, moderate variazioni sul medesimo linguaggio elementare caratterizzano questi blocchi compatti, severi, quasi iconici, dimostrando una specifica tendenza, capace di radicare il discorso architettonico nel territorio e nella tradizione della disciplina. Tutto ciò favorito dalla pratica del concorso, attraverso il confronto pubblico di idee, intenzioni e soluzioni, che tale pratica dovrebbe rendere possibile in maniera democratica appunto – e quindi anche tra i giovani progettisti o gli studi di piccole dimensioni, in modo da salvaguardare l’originalità e l’artigianalità del mestiere – al di là delle sirene dello star system o dell’eclettismo linguistico oggi in voga. Solo per via architettonica.

Ripartire dalla scuola, dunque, può essere un punto di vista attraverso cui traguardare la produzione dello spazio e, da qui, promuovere la democrazia. La ricerca consapevole «di che cosa la Scuola vuole essere»11 rivela come luoghi (della città) e spazi (del progetto) – e quindi architettura – siano alla base di ogni esperienza di apprendimento e insegnamento, interpretata da ciascuna comunità attraverso gli edifici che sceglie di costruire e che, come ammoniva Winston Churchill, «a loro volta ci formano».

Note

 

1 Cfr. F. Bruno, L’apertura della struttura urbana e la costruzione per tipi misti, in Lafayette park, Detroit. La forma dell’insediamento, Libraccio Editore, Milano 2013, p. 56.

 

2 A. Ferlenga, intervento in occasione del finissage della mostra a cura di M. Ferrari, C. Tinazzi con A. D’Erchia Immaginare la scuola del futuro, Politecnico di Milano, Galleria del Progetto, 22 novembre 2021.

 

3 In merito si veda: M. di Nallo, The Balance between Intimacy and Interchange, in K. Darian-Smith, J. Willis (a cura di), Designing Schools. Space, place and pedagogy, Routledge, London 2017, pp. 97-109; I. Haupt, Form follows Curriculum? Notizen zum Schulhausbau in der Schweiz, «Kunst + Architektur in der Schweiz», 2018, 3, pp. 4-15.

 

4 R. Gross, Drehsymmetrien im Schulbau, «Das Werk», 1964, n. 6, pp. 197-203.

 

5 Sulla cosiddetta scuola tipo Lancy si veda: C. Bischoff, M. Delaune Perrin, Les écoles de Lancy: une suite de processus exemplaires, in C. Bischoff, I. Claden, E. Oberwiler (a cura di), Paul Waltenspuhl architecte, Infolio, Gollion 2007, pp. 206-215.

 

6 B. Reichlin, La provincia pedagogica, in P. Bellasi, M. Franciolli, C. Piccardi, C. Sonderegger (a cura di), Enigma Helvetia. Arti, riti e miti della Svizzera moderna, Silvana Editore, Cinisello Balsamo 2008, pp. 229-244.

 

7 Cfr. J. Bachmann, S. von Moos, New Directions in Swiss Architecture, G. Braziller, New York 1969.

 

8 Si veda il numero monografico Lernlandscheften. Neue Typologien für die Schule, «Werk, bauen+ wohnen», 2018, n. 11.

 

9 Cfr. Standard logistici dell’Amministrazione cantonale. Secondo modulo: Architettura scolastica, novembre 2020, p. 15.

 

10 F. Belloni, Les enfants nous parlent, «FAMagazine», 2021, 56, pp. 42-54.

 

11 Louis I. Kahn, Form and Design, «Architectural Design», 1961, n. 4, pp. 145-154.

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