Stu­dent Hou­sing post Co­vid-19

La pandemia di Covid-19 ha messo duramente alla prova, tra le altre cose, anche le residenze studentesche, al punto che alcuni le stanno lasciando a favore di appartamenti in affitto. Per invertire la tendenza è necessario ripensare lo student housing a partire da una concezione flessibile. La residenza può così divenire un sistema aperto in grado di rigenerare intere porzioni urbane.

Oscar E. Bellini
Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzione e Ambiente Costruito – Politecnico di Milano
Martino Mocchi
Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzione e Ambiente Costruito – Politecnico di Milano

L’efficienza di un sistema universitario dipende da tanti elementi, come disponibilità di aule e laboratori e presenza di docenti di qualità. Uno dei fattori più sottovalutati, ma sempre più centrali per la valutazione dell’offerta accademica, è quello delle residenze universitarie: spazi indispensabili per dare risposta a una formazione di eccellenza, in un contesto internazionale di crescente scambio tra studenti, docenti e ricercatori, e in una dinamica di progressiva collaborazione tra atenei.

La disruption sociale prodotta dalla pandemia Covid-19 ha messo duramente alla prova questi ambiti, intaccandoli sul piano economico, gestionale e della popularity. I primi dati raccontano criticità, abbandoni, situazioni emergenziali, che hanno accelerato una crisi già in atto, legata all’incapacità di superare il modello del “collegio” e il conseguente immaginario collettivo, sottovalutando il valore aggiunto in termini di benessere emotivo, crescita individuale dello studente, formazione di capitale sociale.1 Ciò sta spingendo le nuove generazioni verso forme di abitare temporaneo più “libere” (in primis la casa in affitto), con tutte le conseguenze: abbassamento della qualità abitativa, speculazione sugli affitti, settorializzazione dell’offerta di servizi e gentrification urbana.

Per invertire questa tendenza è necessario ripensare lo student housing a partire da una concezione flessibile, che leghi aree private, semi-private e comuni, con livelli variabili di condivisione e domesticità.2 Una condizione imprescindibile per accompagnare la formazione dello studente, generando socialità e garantendo luoghi di qualità, intimità e relax.

Per perseguire l’obiettivo è opportuno considerare la pluralità dei livelli che interessano l’abitare studentesco: a partire dall’inserimento nella città (urban), passando per l’offerta di spazi e servizi (building), fino al tema della socializzazione e degli scambi umani (dwelling).

Il primo di questi – urban level – concorre a implementare la dimensione dello stare insieme, il vivere a contatto con gli altri, l’essere parte di una comunità allargata.3 Il collocamento spesso periferico delle strutture impone di comprendere le relazioni e le opportunità con e per gli abitanti locali. Come sta avvenendo in molti Paesi europei, lo student housing svolge una funzione proattiva per costrui­re urbanità, esaltando la mixité sociale e generazionale. Supporta azioni preventive che evitano l’isolamento e la ghettizzazione, favorisce l’integrazione dell’ecosistema locale, preserva l’identità culturale della comunità. La residenza deve essere pensata non come singolo edificio, ma come sistema aperto in grado di rigenerare intere porzioni urbane, attraverso interventi accessori come zone green e car-free, secondo un’idea di «città di 15 minuti» dove tutto il necessario è raggiungibile in pochi passi. Appare fondamentale l’attenzione per gli spazi aperti, che ridefiniscono le relazioni con la componente vegetale, nella consapevolezza che essa contribuisce al benessere psico-fisico dell’individuo, riducendo ansia e stress.

Come sostiene Sennett, si devono prevedere strutture che favoriscano «un “urbanismo aperto”, per costruire un ambiente flessibile, […] conservare i benefici del vivere insieme ma scongiurare le minacce più pericolose derivanti da virus, malattie e cambiamenti climatici».4 Soluzioni, quindi, che creino un continuum fra luoghi dello studio e spazi per la residenzialità, aperti al mondo esterno, per attività di working e travelling, grazie ai quali produrre ibridazioni esperienziali.

Sono necessarie azioni che preludano nuove identità – come i Community Center – in grado di costruire network urbani con servizi e facilities, per offrire un’ospitalità aperta, scomponibile, riconfigurabile e variabile, includendo nuove utenze e bisogni: young professional, stagisti, iscritti a master o corsi di specializzazione. Si potrebbero ipotizzare modelli più evoluti, come le Living-Learning Communities e le Residential Learning Communities: luoghi per condividere percorsi formativi in una logica aperta e interconnessa.5

Il secondo livello di intervento – building level – rende necessaria una presa di coscienza della maggiore sovrapposizione tra i temi del vivere e quelli dell’imparare. Non si tratta di pensare a luoghi dove dormire, ma ad ambiti dove com­pletare la formazione per diventare adulti. Le residenze più innovative sono strategicamente collocate in contesti vivaci e stimolanti, dove alle tradizionali sale condivise, agli spazi per il relax e lo sport sono affiancati luoghi di divertimento, svago e cultura.

L’housing universitario post-Covid richiede di adottare, a più livelli, la logica della “de-densificazione”. L’impiego della DAD, con la delocalizzazione temporanea di studenti e docenti, non ha surrogato le relazioni individuali. Gli spazi di studio vanno ripensati in unità misurate, per consentire forme efficaci di didattica. Se prima del lockdown era prevalsa la politica “più posti, meno costi”, per aumentare la recettività, oggi la de-densificazione impone di trasformare le stanze in unità abitative autosufficienti, integrate con kitchenette.

Una strategia efficace è quella di raggruppare più alloggi in cluster, con spazi per la condivisione, fino a un massimo di otto/dodici persone, secondo la logica dei “gruppi di simpatia” o delle “reti strette”. Tale impostazione favorisce la “socializzazione informale”, grazie a spazi condivisi permeabili, capaci di garantire privacy e distanziamento, e allo stesso tempo mostrare la presenza degli altri ospiti. La socialità informale permette di stabilire rapporti indiretti, attraverso vetrate comunicanti o tipi edilizi a corte,6 con unità relazionali poco numerose, in una dimensione domestica dell’abitare.

La fase pandemica ha mostrato la necessità di prevedere zone per il recapito di posta e pacchi, visto l’aumento del­l’e-commerce, nonché il ripensamento di alcuni servizi a supporto – lavanderie, palestre, depositi di rifiuti – solitamente troppo affollati. I connettivi verticali e orizzontali devono privilegiare opzioni aperte, ballatoi o corridoi centrali, senza eccessiva lunghezza, con illuminazione e ventilazione naturale. Sistemi razionali per ridurre gli spostamenti e prevedere ingressi e uscite non sovrapposti. A ciò si aggiunge l’opportunità di realizzare spazi aperti in quota (terrazze, balconi, lastrici solari) che rafforzino i legami tra occupanti, favorendo relax e integrazione.

Considerando il terzo livello – dwelling – la nuova interpretazione dell’hous­ing universitario richiede di promuovere i paradigmi dell’adattabilità e della flessibilità, per orientare la natura funzionale e spaziale di questa forma di abitare. La pandemia ha messo in crisi il modello “ad albergo”, con servizi comuni esterni, a vantaggio di spazi autonomi e flessibili, in grado di rispondere prontamente alle evenienze. È necessario assicurare trasformabilità: un placemaking creativo che possa garantire valore aggiunto in termini di student engagement, low-cost high quality, affordability, comfortability, sustainability.

Requisito ineludibile è quello della privacy: la maggioranza degli studenti preferisce non condividere il proprio spazio con altri, pretendendo di scegliere come e quando socializzare. Ciò porta verso soluzioni individuali, dotate di servizi igienici esclusivi, che garantiscano distanziamento e controllo della salute, rassicurando le famiglie di origine. Il distanziamento è ottenibile trasformando stanze a più letti in unità singole, anche a costo di un aumento delle rette.

Tale soluzione potrebbe avere un impatto negativo sugli utenti dei primi anni, per i quali la camera doppia rappresenta un aiuto per superare il cambiamento abitativo. Si potrebbero quindi utilizzare pareti mobili o arredi flessibili (pony) per creare privacy tra letti singoli. Altra soluzione è la Nanos Suite, esemplificazione di adattamento ottenuto grazie a bagno, kitchenette e scrivania/letto reversibili in spazi ristretti.

Una necessità inderogabile è quella delle connessioni digitali, che impongono una implementazione del numero di prese USB, integrazione con wi-fi ad alta velocità, il miglioramento della rete telefonica, la creazione di stazioni bluetooth per stampa/scanner condivisi. Dispositivi studiati anche per assicurare un contatto con gli amici e la famiglia di origine. La rivisitazione della dimensione privata dell’abitare si accompagna all’opportunità di garantire personalizzazione agli spazi. Gli ospiti devono esprimere la propria identità, come presupposto per agevolare la transizione dalla “dimensione condivisa” a quella “privata”. Soluzioni semplici e razionali, con design intuitivo e adattabile, che possano agevolare la tendenza a lavorare e incontrarsi in situazioni non convenzionali. Studiare nello stesso luogo in cui si dorme limita la concentrazione, diminuisce la produttività, influisce sulla qualità del sonno e sull’alternanza dei ritmi circadiani. Traguardare il futuro dello student housing post-Covid, in definitiva, significa raccogliere un’affascinante sfida di progetto, che impone il superamento delle contingenze e prefigura soluzioni innovative. Si tratta di dare risposte che sappiano immaginare il futuro, abbandonando certezze e modelli acquisiti. Lo Student Housing deve diventare una “casa lontano da casa”, un luogo inclusivo, accogliente e aperto, dove lo studente possa sentirsi parte di una comunità. Un servizio di qualità nel percorso di formazione accademica e, più in generale, di rigenerazione urbana. Alla condizione che «we can put it at a price point that students can afford».7

«Archi» 2/2021 può essere acquistato quiQui si può leggere l'editoriale con l'indice del numero.

Note

  1. O.E. Bellini, Student Housing 1. Atlante ragionato della residenzialità universitaria contemporanea, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2015.
  2. O.E. Bellini, Student Housing 2. Il progetto della residenza universitaria nella città contemporanea, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2019.
  3. O.E. Bellini, M. Gambaro, M. Mocchi, Living and Learning: A New Identity for Student Housing in City Suburbs, in S. Della Torre, S. Cattaneo, C. Lenzi, A. Zanelli (a cura di), Regeneration of the Built Environment from a Circular Economy Perspective, Springer Open, Cham 2019, pp. 99-109.
  4. G. Battiston, Per Richard Sennett, dobbiamo immaginare strutture flessibili per un urbanesimo aperto, «Che Fare», 2020.
  5. L.S. Dahl, A. Duran, Z.J. Hooten, C.J. Stipeck, E. Youngerman, M.J. Mayhew, Investigating the Influence of Residential Learning Communities on Student Experiences, 2020.
  6. O.E. Bellini, M. Mocchi, M. Arcieri, Digitalizzazione e “Socializzazione Informale” nel progetto dell’housing Universitario, in M. Perriccioli, M. Marina Rigillo, S.E. Ermolli, F. Tucci (a cura di), Design in the Digital Age. Technology Nature Culture, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2020, pp. 444-449 (e-book).
  7. A. Murcutt, Is the Pandemic Changing Student Housing Design?, 2020.

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