Il con­fine tan­gi­bile

Un commento alla presentazione del Padiglione svizzero a Venezia

Cos'è il confine? Un concetto astratto, si direbbe, eppure ha riverberi concretissimi sulla vita delle persone. Una riflessione a margine della presentazione del Padiglione svizzero alla Biennale di Venezia.

Date de publication
26-02-2020

Qualche giorno fa ho partecipato alla presentazione del Padiglione svizzero per la Biennale di architettura di Venezia. Eravamo a Mendrisio nell'auditorio del Teatro dell'architettura, raggiunto fortunosamente superando il confine sotterraneo tra Palazzo Turconi e la sala – una sorta di anticipazione del tema della serata, dedicata proprio al confine. Esso è sia il protagonista del progetto del Padiglione, sia del diploma 2020 dell'Accademia, che sarà “ambientato” a Chiasso; approfittando della coincidenza, il direttore del diploma Muck Petzet ha allora invitato a Mendrisio due dei quattro curatori del progetto: l'architetto Mounir Ayoub, redattore di «Tracés», e il regista e direttore della fotografia Fabrice Aragno (gli altri membri del gruppo di lavoro sono Vanessa Lacaille e Pierre Szczepski).

Leggi l'intervista a Mounir Ayoub di Silvia Berselli

«Ho subito scelto Chiasso per i diplomi» ha detto Petzet «forse per l'idea un po' naïf che, mentre qui siamo in un contesto ricco e confortevole, a pochi chilometri abbiamo uno dei confini più rigidi d'Europa, una vera e propria frontiera».

In effetti è inevitabile che, per un abitante dell'Unione Europea come l'architetto tedesco, il confine svizzero, con le sue dogane e i suoi controlli, sia percepito come particolarmente “confinario” rispetto a quelli che dividono gli stati membri. Si potrebbe dire che, mentre l'Unione ha cercato di blandire i confini, quello svizzero è rimasto più fedele, pur con varie concessioni, al modello di frontiera che aveva segnato la nascita degli Stati-nazione tra Sette e Ottocento: una linea precisa destinata a separare un paese dagli altri, e che pretende di non derivare soltanto da una formalità politica ma di riflettere differenze più profonde, identitarie.

Se questo tipo di assimilazione tra nazione e identità, molto fortunato nell'Ottocento, è oggi sempre più discusso (tra chi lo abiura e chi lo invoca a gran voce), è vero che, con il suo tenace isolazionismo e la sua cura verso le proprie peculiarità, la Svizzera dimostra una certa affezione per l'idea di frontiera: essa è il limite che stacca “l'idillio elvetico” dal mondo, secondo una visione profondamente radicata in cui separatezza e sicurezza si fondono (ho approfondito il discorso in questo articolo). «La Svizzera» ha scritto Dürrenmatt «è una prigione in cui gli svizzeri si sono rifugiati perché tutto fuori dalla prigione stava crollando e perché loro soltanto in prigione sono certi di non essere aggrediti, gli svizzeri si sentono liberi, più liberi di tutti gli altri esseri umani, liberi in quanto prigionieri nella prigione della neutralità».1

Nel rapporto tra confini e senso identitario si manifesta con evidenza la doppia natura della frontiera: da una parte è un'astrazione, un concetto che non corrisponde a un oggetto fisico ma a fasci di norme e regolamentazioni; dall'altra, però, quest'astrazione si concreta in divisioni tangibilissime, esercitando influssi potenti sulle vite di chi tenta di valicarla.

È su quest'ultimo aspetto – sulla fisicità della frontiera – che hanno messo l'accento i curatori del Padiglione svizzero: «Noi non cerchiamo una definizione del confine, cerchiamo di proporre una diversa percezione di questi luoghi. Siamo partiti concependo il confine non come linea ma come spazio, non come mappa ma come territorio; non come un elemento fisso, ma come qualcosa di mobile e sensibile. Il nostro gruppo di lavoro, composto per metà da architetti e per l'altra metà da artisti, è voluto andare fisicamente nei territori di confine a vedere, ha voluto conoscere le persone che abitano il confine, con tappe in una ventina di luoghi. Abbiamo allestito un furgoncino con i materiali per preparare dei modelli e siamo andati in giro incontrando la gente. L'abbiamo ascoltata, abbiamo girato con loro e li abbiamo invitati a realizzare dei modelli».

Nel filmato presentato da Ayoub e Aragno si vedono le loro “guide” percorrere le zone di confine – da Basilea a Campione d'Italia, da Castasegna al Centro federale d'asilo di Chiasso –, raccontarle, commentarle e poi cercare di ricostruirle in modelli che raccontano la loro percezione degli spazi. Dove sono i limiti, i punti di contatto? Dov'è che il confine si allenta, s'irrigidisce? E per chi? Nel video, i camion e i treni cargo del mercato globale corrono verso la dogana di Basilea, mentre il Centro federale d'asilo di Chiasso racconta una storia di attraversamenti impossibili. Si vede qui il divario, descritto dall'antropologo Marc Augé in Per una antropologia della mobilità, «tra la rappresentazione di una globalità senza frontiere che permetterebbe a beni, esseri umani, immagini e messaggi di circolare senza limitazioni, e la realtà di un pianeta diviso, frammentato, in cui le divisioni negate dall’ideologia del sistema si ritrovano al cuore stesso del sistema […]. Oggi dobbiamo quindi ripensare la frontiera, questa realtà continuamente negata e continuamente riaffermata. Il fatto è che essa si riafferma spesso sotto forme indurite che fungono da divieto e comportano esclusioni. Occorre ripensare il concetto di frontiera per cercare di comprendere le contraddizioni che colpiscono la storia contemporanea».2

Come chiosa una richiedente l'asilo nel video: «Tutti i migranti quando si mettono in viaggio conoscono il gioco: forse arrivi, forse non arrivi».

Note

  1. Citato in O. Scharpf, Lo chalet e altri miti svizzeri, Gabriele Capelli Editore, Mendrisio 2010, p. 37.
  2. M. Augé, Per una antropologia della mobilità, Jaca Book, Milano 2010, pp. 14-16.

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